21/05/13

Il deserto e il mondo - Enzo Bianchi


PENSIERI SUL MONACHESIMO

 Enzo Bianchi intervistato da Gabriella Caramore

L'espressione con la quale abbiamo voluto intitolare questa serie di incontri «La vita altrimenti», è un'espressione a lei cara: per significare una differenza, una modalità di alterità.

Thomas Merton, nelle sue ultime meditazioni prima della morte - un vero e proprio testamento per il nostro monachesimo - afferma che il monachesimo deve restare caratterizzato da una marginalità. 
Il cristianesimo certamente vive di comunione, ma il monachesimo non sta nel cristianesimo se non ai margini. (...) Esso ama stare sulle "frontiere", sui "bordi" (...) I margini, quella zona che sta tra il deserto e la città: è questo il luogo in cui il monachesimo ama collocarsi e in cui può veramente fiorire.

Prima ancora di ripercorrere la storia del monachesimo, è utile far chiarezza su che cosa sia la peculiarità della vita monastica perché credo che molti ancora confondano i diversi ministeri della Chiesa e le loro figure: sacerdoti, monaci, suore, frati. Qual è lo statuto del monachesimo all'interno della vita religiosa?

Il monachesimo ha uno statuto del tutto particolare. Innanzitutto è un fenomeno laicale: i monaci sono semplici cristiani, non divengono presbiteri, non accedono agli ordini, ma vivono come semplici battezzati. Pacomio, il grande fondatore della vita monastica, amava dire: «Noi monaci siamo soltanto dei poveri laici». Ancora: i monaci non svolgono una precisa funzione all'interno della Chiesa, non sono preposti a uno specifico servizio, a un ministero come chi sceglie la vita religiosa; questa in fondo, si spiega con una diaconia: la carità ai poveri, l'assistenza ai vecchi, la cura degli emarginati, cioè servizi concreti che vengono organizzati in nome del Vangelo, sotto forma di vita religiosa. Il monachesimo, invece, non ha neppure un compito pastorale come nel caso dei frati, dei presbiteri, dediti alla cura del popolo di Dio. Il monachesimo, potremmo quasi dire, non è "necessario" alla Chiesa; alla Chiesa sono necessari i presbiteri, ovvero coloro i quali svolgono una diaconia. Il monachesimo non è esistito fino al quarto secolo, non esiste tuttora in alcune Chiese e può darsi che nel futuro sia destinato a scomparire. Esso esprime, lo vedremo più avanti, un fenomeno antropologico prima che cristiano ed è quindi "altra cosa" rispetto a qualsiasi forma istituzionale elaborata dalla Chiesa.  Il monachesimo in sé non ha uno scopo.

Quindi, anche a questa marginalità corrisponde una inattualità. I monaci sono marginali nel tempo, così come nello spazio. Il monachesimo non ha scopo, non ha servizi di carità: non rischia a questo punto di divenire una scelta di vita fine a se stessa? 

E' difficile comprendere questo "non avere scopo". Eppure è un punto essenziale. Noi monaci vogliamo tentare (lo dico con molta umiltà giacché è difficile farlo in pienezza) di vivere semplicemente il Vangelo, praticando il celibato in una vita comune. Nient'altro. Poi viviamo di carità e del nostro lavoro, e praticando l'ospitalità svolgiamo un servizio, una diaconia a quanti hanno bisogno di un luogo di silenzio, di pace, di confronto. Questo però non costituisce parte essenziale della nostra vita e della nostra vocazione. Tutti gli altri ministeri, in fondo, sono necessari alla Chiesa: non il nostro. Noi siamo una presenza gratuita. La Chiesa può fare a meno di noi. Essa non ci chiede nulla, non ci attribuisce funzioni né ministeri: così siamo veramente sulla frontiera, ai bordi, tra la società, l'umanità e la Chiesa. Facciamo, però, quel che fa ogni cristiano battezzato: come ogni cristiano, vogliamo vivere una vita secondo il Vangelo. Niente di più. Ma non siamo utili al funzionamento dell'organizzazione ecclesiale. Noi monaci, in realtà, siamo altra cosa.
(...)
Ora, ripercorriamo alcune pagine di storia: come nasce il monachesimo cristiano?

(...) Per avere un monachesimo cristiano eloquente, che emerga con un suo volto preciso, dobbiamo attendere fino al quarto secolo, quando con la pace costantiniana, a fronte di un potere imperiale ormai garante della cristianità e quindi dei cristiani, alcuni di questi, in polemica nei confronti del nuovo assetto della Chiesa che confondeva la sua fede, la sua pratica di sequela a Cristo, con una forma di assetto culturale dell'Impero, lasciano le città e vanno nel deserto, deve Cesare non può raggiungerli e iniziano a vivere secondo il Vangelo. Scelgono di vivere in solitudine dedicandosi sopratutto al lavoro  e alla preghiera, nel tentativo di vivere il Vangelo al di fuori della protezione garantita a quella religione, divenuta ormai "religione di stato" (...)
E' significativo che da un lato queste persone abbandonino la città e si spingano nel deserto, operando una sorta di esodo nello spazio; ma nello stesso tempo desiderano richiamarsi alla forma della Chiesa nascente, invocano i testi degli Atti degli Apostoli in cui si narra di quei credenti che vivevano una comunione di condivisione dei beni, conducevano una vita fortemente segnata dal senso di giustizia e dalla carità nel tentativo di vivere questo Vangelo alla lettera. Insomma, v'è una migrazione nello spazio, verso il deserto; ma v'è anche un ritorno alle fonti, alle fonti nel tempo, quasi a voler mantenere una continuità diretta con quella Chiesa nascente che aveva preso forma e aveva mostrato il suo volto tre secoli prima.

Lei ha affermato che i monaci scelgono di vivere nella solitudine senza la protezione della Chiesa che si sta formando dopo l'editto di Costantino. Anche questa rinuncia alla protezione è una forma di sequela al Vangelo: "perdendo", appunto, la propria vita, non scegliendo una soluzione comoda.

Per i monaci lo è. Questa marginalità assume per loro anche una valenza ecclesiale, non solo in relazione ai poteri di questo mondo. Pensiamo a San Francesco, quando nei suoi scritti si rivolge ai confratelli dicendo: «Io vi chiedo e vi supplico che nessuno di voi osi chiedere lettere di raccomandazione alla Curia Romana». Il monachesimo è un modo di "farsi piccoli", una forma di marginalità. Il monachesimo è comunione con la Chiesa: rifugge ogni forma di contestazione, di divisione, di scisma. Ma vuole raggiungere quel livello di marginalità, vuole stare all'ultimo posto, proprio perché quello è il posto di Gesù, ai margini, come Lui si è trovato, all'interno della comunità religiosa. (...) Ecco, io credo che questa marginalità "parallela" il monachesimo la desideri anche per sé, per la sua forma di vita, per la sua testimonianza.

Il deserto non solo è, storicamente, il primo luogo in cui si rifugiarono i monaci in fuga; ma ha ormai assunto da sempre e ovunque, per tutte le esperienze di fede, una valenza spirituale molto forte. Il deserto è anche il primo luogo in cui Gesù si forma, lotta, resiste alle tentazioni.

Potremmo dire di più: già nell'Antico Testamento i profeti chiedono a Israele di "tornare nel deserto", ovvero che Israele torni a quel tempo di fedeltà, a quel tempo nuziale di comunione piena con il Signore. E' Osea il profeta che canta questo ritorno [Os 2,16-18] (...) Il deserto è un'immagine a cui è sempre andata la nostalgia dei credenti, dei cercatori di Dio. I monaci in questo senso rappresentano una continuità anche con quella via profetica che era stata propria di Elia, Eliseo e dei grandi profeti del deserto.
(...)
Non esiste deserto se la nostra mente è piena di fantasmi...

E' così, perché proprio mentre noi fuggiamo la mondanità, essa ci rincorre, è dentro di noi come nostro bagaglio. Quindi il deserto diviene un crogiuolo, ma è possibile andare nel deserto senza viverlo, anzi essere ancor più assaliti dalle ansie e dalle preoccupazioni mondane, da quelle passioni idolatriche per fuggire le quali una persona sceglie di farsi monaco e andare nel deserto. E' significativo che oggi vi siano anche monaci che hanno scelto di vivere in città. Esiste poi una intera tradizione di esperienza spirituale russa denominata non a caso pustinya, "deserto", appunto, in cui uomini e donne fanno vita monastica, eremitica, nella solitudine delle grandi città. Questo a dire che il deserto è qualcosa che dobbiamo costruire e custodire più che un luogo fisico da trovare.

E tuttavia, qualche volta, luoghi particolari costituiscono una vera esperienza di alterità. Lei frequenta molto anche i monasteri d'Oriente. Esistono ancora luoghi in grado di offrire una possibilità di diversità, che poi sta naturalmente a ciascuno di noi cogliere?

E' necessaria sempre molta disciplina. Certo, andare nel deserto dove non c'è nessuno, dove non vi  sono rumori, dove regna il silenzio assoluto, e guardare dentro se stessi, in un faccia a faccia radicale, rappresenta un percorso faticoso, un itinerario di purificazione e di indagine. Si può provare paura, si può fare persino esperienza di terrore per questa solitudine estrema. Però, proprio il monaco cerca attraverso il deserto questa autenticità, questa conoscenza del cuore umano, questa esperienza... "umana".  (...)
Il deserto è il luogo della lotta, di una grande lotta spirituale. E' il luogo in cui, come per abba Antonio, le bestie ci assalgono, bestie feroci di tutte le specie che entrano nella cella di Antonio e si avventano su di lui. Esse non sono, come ha interpretato la letteratura classica, bestie strane: sono le passioni, le bestie che abitano in noi, i nostri pensieri, le nostre cattiverie, i nostri egoismi, i nostri appetiti. Affrontare tutto questo per un monaco è essenziale. 
(...)
Abbiamo parlato del deserto e quindi della "marginalità" della vita monastica che potrebbe far pensare al mondo come a qualcosa di irrilevante. Invece, è sempre esistita una tensione continua tra "deserto" e "mondo". Ricordiamo solo il contributo dato dal monachesimo alla trasformazione del mondo, alla creazione dell'Europa, per esempio.

Dicevo all'inizio di questa nostra conversazione di come il monaco si muova in uno spazio che è quello di una "minoranza efficace". Come "minoranza efficace", il monaco non sceglie l'ipotesi settaria, non si separa dalla Chiesa, né fugge dal mondo mostrandosi quasi alternativo rispetto alla vita degli uomini. Il monachesimo sta ai "margini", ma vuole inoculare delle "diastasi" all'interno del corpo sociale e del corpo ecclesiale. Per questo non ama la setta, e non ama neppure l'omologazione al mondo. La sua fuga diviene perciò fuga dalla "mondanità", non dalla convivenza umana. In quella posizione "addossata al deserto" il monaco ha, da una parte, questo spazio davanti a sé che è la solitudine, la solitudine del deserto in cui trova la forza per vivere questa esperienza e questa sua ricerca. Ma, dall'altra parte, il monaco della città vede i campanili e le cupole delle Chiese, la comunità degli uomini, per la quale non solo prega e sente solidarietà, ma della quale si sente parte, e a nome della quale vuol fare questo cammino di esperienza antropologica, ma anche evangelica, perché la sua forma vitae la vuole secondo una vera umanizzazione e, al contempo ispirata alle parole di Gesù. Per cui il monachesimo ha sempre avuto questa funzione a volte di profezia, di denuncia della mondanità presente nella società degli uomini, ma anche nella Chiesa. Tuttavia ha anche manifestato una grande simpatia per l'umanità, e una grande empatia con gli altri credenti, ai quali il monaco vuole offrire il suo contributo. (...) Il monachesimo non vuole costruire un modello di vita che non sia secondo il Vangelo. Il suo obiettivo, però, è anche di condurre seriamente una vita umana, cercando di farne anche un'opera d'arte. Così riesce a creare una tipologia di vita che dà frutti a servizio di tutta la comunità umana.


Enzo Bianchi
«La vita altrimenti. Pensieri sul monachesimo»,  a cura di Gabriella Caramore