31/05/13

Ave Maria - Fabrizio De Andrè



da un canto tradizionale sardo

"DEUS TI SALVET MARIA"


Deus ti salvet Maria,
chi ses de gràtzia plena:
de gràtzias ses sa vèna e sa currènte.
.....

Pregade a Fizu ‘ostru
pro nois peccadòres;
chi tottu sos erròres nos perdònet.

E sa Gràtzia nos dònet,
in vida e in sa mòrte;
e in sa diciòsa sòrte in Paradìsu.




Fabrizio De Andrè 
arrangiamento Mark Harris
(album "L'indiano", 1981)



TRADUZIONE

Dio ti saluta, o Maria,
tu che sei piena di grazia e
delle grazie sei fiume e sorgente.
.......

Pregate il Figlio vostro
affinché perdoni a noi peccatori,
tutti gli errori;

La sua Grazia ci doni,
in vita e in morte;
e nella felice sorte in Paradiso.
E la  felice sorte in P


30/05/13

Ci manca la gioia - A. Pronzato

«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)


La domenica, tornando da messa...
Lo scrittore Julien Green, sulla soglia della conversione, prima di risolversi a compiere il passo decisivo, si appostava alle porte delle chiese e rimaneva in attesa. Ragionava: «Se questi veramente credono a quello cui partecipano, dovranno uscire di qui con facce splendenti, occhi incendiati dalla luce, il fuoco nel cuore». 
Invece si trovava di fronte a individui incolori, sguardi opachi, musi lunghi, volti senz'anima. E commentava: «Scendono dal Calvario, e parlano del tempo sbadigliando».
La Madonna, probabilmente, nell'osservare certe facce, commenterebbe: «Non hanno più gioia».
Qualche volta, alla nostra tavola, ci può essere una gioia forzata, un po' troppo ostentata per essere autentica. Manca la gioia vera, limpida, genuina.
Nel mondo, certa allegria sgangherata, fracassona, volgare, a comando, rappresenta il segno più evidente che è venuta a mancare la gioia, così come a Cana si era esaurito il vino.

Abbiamo fatto il funerale alla gioia
Un grande umorista, Bruce Marshall (...) confidava: «Trepido per il futuro dei monasteri, delle abbazie, dei conventi e dei seminari, perché non tremano più come un tempo, per le grandi risate».
La preoccupazione si potrebbe estendere anche agli ambienti cristiani in generale.
C'è gente che parla continuamente del Cristo che ha vinto la morte, ma troppo spesso lo fa... con facce da funerale, non con volti trasfigurati dalla letizia pasquale.

La gioia che ci dà Cristo
La gioia, non il lutto, dev'essere l'abito che caratterizza il cristiano, il volto della comunità cristiana.
Il cristiano non è un "diminuito" in fatto di gioia, al massimo "risarcito" nell'al di là. No, gusta la gioia qui, ora.
Certo, non qualsiasi gioia, ma la gioia che ci dà Cristo: «Queste cose vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
Fissiamo alcuni elementi di questa gioia.
Prima di tutto, la gioia di essere veri. Senza preoccuparsi delle apparenze.
Senza il peso e l'impaccio delle maschere.
Senza essere costretti a recitare una parte, sovente assegnata dagli altri. 
La gioia scaturisce quando c'è il coraggio e la libertà di essere se stessi.
Povertà di gioia, vuol dire povertà di "essere". (...)
La gioia, infatti, è ancorata alla persona, al suo sviluppo, alla sua crescita, alla sua possibilità - e volontà! - di diventare ciò che deve essere.
La gioia dipende dall'essere autentico, profondo, non dalla maschera superficiale.
La gioia si innesta nel centro della persona, non si appiccica alla sua pelle. (...)
Se cresco come persona, come cristiano, la gioia "cresce" con me, in me. Fa tutt'uno con me. Se mi blocco nella mediocrità, nelle mezze misure, nei compromessi, nelle apparenze, blocco, inaridisco anche la sorgente della gioia genuina.
Più "sono" e più sono nella gioia.  (...)
Procura di legare saldamente la gioia al centro della tua persona, a Colui che te la offre in maniera permanente, definitiva. 
Fissata a quella profondità, sarà cosa veramente tua, perché regalata da Uno che non si riprende mai i suoi doni.
Dipenderà esclusivamente da te: dai tuoi "sì" o dai tuoi rifiuti. Da nessun'altro.
Finché la gioia ci viene data da altri, è mutevole, provvisoria. Ma se è la "sua", allora diventa "intoccabile" e "inattaccabile", non fluttuante. Diventa amen.

Una gioia cercata "altrove" rispetto ai soliti itinerari
(...) Esistono vastissimi, inesauribili giacimenti di gioia nel mondo. I primi uomini ne hanno scoperti alcuni e si sono tramandati l'informazione. Così tutti, da secoli, si precipitano ai soliti pozzi: potere, avere, valere, sapere, godere, apparire, ricevere, possedere, denaro, piacere, sesso... E trascurano l'esplorazione e lo sfruttamento degli altri.
L'uomo è decisamente un animale abitudinario. Non sospetta nemmeno che la gioia possa trovarsi da altre parti.
Qualcuno talvolta viene a lagnarsi: «Padre, mi aiuti, ho perso la gioia...».
Rispondo imperturbabile: «Stia tranquillo, non è un disastro irreparabile. Ce n'è tanta inutilizzata in giro, che nessuno vuole. Basta darsi un po' da fare per cercarla... L'uomo, vede, non fa altro che sprecarla. Alla fine del mondo ci accorgeremo con stupore, che la maggior parte  delle risorse di gioia esistenti sulla terra sono quasi intatte...» (...).

Attenti a non cercare la gioia nel posto sbagliato
Già. Il problema sta tutto qui. In fondo è il problema dell'altrove.
Ci accaniamo a cercare quel prodotto prezioso presso pozzi già troppo sfruttati, in via di esaurimento, o, per usare l'espressione della Bibbia, presso «cisterne screpolate» (Ger 2,13). E, dopo interminabili attese, dopo fatiche disumane e sofferenze inaudite, spremiamo qualche goccia stantìa, assolutamente inadeguata alla nostra sete.
Tutti noi, ostinati bietoloni, abbiamo la pretesa che le cose e le azioni e le persone sbagliate ci diano la felicità "giusta" che cerchiamo.
T.S. Eliot osservava che il cristianesimo è «la via che conduce al possesso di ciò che avevamo cercato nel posto sbagliato».
Gesù presenta un criterio nuovo della gioia. Ci rivela quei giacimenti inesplorati di cui parlavamo. E ci fornisce addirittura la mappa per rintracciarli. 
Il Sermone sul Monte, introdotto da un ripetuto invito alla gioia: «Beati... Beati... Beati...», è, precisamente, questa stupefacente mappa delle risorse, finora inesplorate, della felicità umana.
Sulla terra devi trovare quel tesoro. Basta scavare, avere del coraggio, prendere iniziative, inoltrarsi per sentieri poco battuti, accettare di passare magari per pazzi o per illusi. La maggior parte degli uomini, infatti, considera "anormale" uno che rifiuta le regole della gioia accettate dai più. Secondo la mentalità comune, viene ritenuto stupido uno che non è, non fa come gli altri; è squilibrato uno che non si accontenta; è "alienato" uno che... cerca altrove.
Dunque, sei disposto a cercare "altrove" la tua gioia? Ad allontanarti dalla ressa soffocante per effettuare sondaggi nei luoghi più impensati?
Si tratta di provare. Proprio là dove tutto sembra indicare che è arduo, improbabile o addirittura impossibile, non vale la pena, non si ricava niente, è troppo faticoso... può zampillare il prodotto prezioso. 
Occorre soltanto vincere la ripugnanza iniziale, il disgusto, le prevenzioni, la paura di apparire poco ragionevole, la pigrizia e mettersi al lavoro.
Gesù, Colui che ci dà la "sua" gioia, ci fa anche capire che quella gioia si trova sul versante del più difficile. Non dimentichiamo che il Dio delle beatitudini è il Dio esigente, non il Dio bonaccione, accondiscendente.
Si tratta di esplorare il terreno dell'umile servizio, dell'ultimo posto, del minuscolo favore fatto alla persona che non se lo merita, del silenzio di fronte ad un'accusa ingiusta, del perdono, del tempo regalato a quell'individuo insopportabile, della preghiera recitata per il nemico, del lavoro compiuto anche se nessuno si accorgerà di nulla o magari qualcuno se ne attribuirà il merito finale... e infiniti altri. Vedrai quanta gioia "nuova" e "migliore", inaspettata (proprio come il vino di Cana)!  (...)

Aiutaci ad affrontare l'emergenza-gioia
Maria, credo non sia irriverente, da parte mia, immaginare che tu abbia raccomandato ai servitori di Cana «Fate quello che vi dirà», con un sorriso di ammiccamento e di complicità.
Quasi a lasciar intendere: quando c'è di mezzo Lui, ci si può aspettare qualsiasi sorpresa, può accadere l'incredibile.
Basta fidarsi, stare agli ordini senza troppe storie.
E, di fatto, il vino eccellente, incomparabile, inatteso, viene fuori dalle anfore riempite d'acqua «fino all'orlo».
Così è per la gioia.
Dobbiamo convincerci che, trattandosi di un cristiano, la gioia, come quel vino, risulta imprevedibile, sorprendente, non programmabile umanamente.
Chissà quante volte l'hai sperimentato anche tu, Maria.
Quando hai dichiarato - e ripetuto - «avvenga di me quello che mi hai detto», non ti sei certo ritrovata sprofondata nell'amarezza. Hai invece scoperto la gioia di chi si abbandona, senza porre condizioni, percorrendo strade impossibili (impossibili per gli uomini, ma non per Dio, cfr. Mc 10,27), ubbidendo a un richiamo misterioso, interpretando la vita secondo un copione non scritto dagli uomini.
Maria, ammicca nello steso modo anche a noi.
Facci dubitare delle gioie troppo facili, a basso prezzo, superficiali, presenti in tutte le bancarelle del nostro mercato.
Mettici nell'animo il sospetto che la gioia vera non si trova qui, ma "altrove" rispetto alle indicazioni comuni. Che il vino adatto alla nostra sete viene prodotto in un laboratorio segreto, e la formula la conosce unicamente Lui. (...).
E fa', sopratutto, che non ci venga la voglia di andarlo a nascondere, quel vino, nelle tetre cantine di una religiosità uggiosa.


don Alessandro Pronzato

tratto da "C'era la madre di Gesù... A Cana con Maria, per scoprire quello che ci manca"


a tutti i Bartimeo senza voce

dal Vangelo di Marco 10, 46-52

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!»
Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

* * * * * 

Grida Bartimeo, grida dal profondo del suo dolore, dalla sua vita segnata dalla cecità e dal giudizio dei tanti che pensavano (e pensano) che la malattia sia una punizione di Dio e che il malato, quindi, è qualcuno che si merita la malattia per le malefatte che ha combinato. Grida, Bartimeo, anche se tutti sono sordi, anche gli apostoli. Grida, Bartimeo, anche se il mondo, intorno, gli dice di tacere, di arrendersi all'evidenza, di portare pazienza, che non c'è nulla da fare, che la vita è condanna e l'uomo uno scherzo del destino. Tutte buone ragioni per farlo tacere, per farlo zittire. Grida, Bartimeo, tutto il dolore del mondo, l'angoscia incontenibile e insopportabile degli uomini feriti e piagati, degli sconfitti da sempre e per sempre, dei crocifissi e dei falliti. 
Grida, Bartimeo, e Gesù solo lo sente, lo ascolta, lo vede e interviene. A noi, fragili peccatori, apostoli incapaci, Gesù chiede solo di andare da Bartimeo, da ogni Bartimeo e dire: «Coraggio, alzati, ti chiama». Diciamolo, oggi, a coloro che incontreremo, ai tanti Bartimeo evidenti o nascosti, di avere coraggio perché siamo chiamati a sperimentare l'illuminazione interiore perché, al si là di ogni apparente evidenza, alla fine di ogni dolore c'è l'orecchio del Dio di Gesù che ascolta e interviene, forse non come e quando vorremmo, ma certamente quando è giunto il momento di riacquistare chiarezza interiore.

Paolo Curtaz



Simone Cristicchi,  "Ti regalerò una rosa"



27/05/13

La vocazione di un giovane - Enzo Bianchi

dal Vangelo di Marco 10,17-27


In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro, e gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre».  Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: và vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E che può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

* * * * *


Gesù passa!

Tutto l'evangelo ci parla di Gesù che è passato in mezzo a noi, come dice Pietro in Atti 10,38, e passando come un uomo, solidale con noi uomini, ha fatto degli incontri, ha conosciuto alcuni, ha stretto relazioni con altri. Sì, Gesù è passato in mezzo a noi, ma in verità passa ancora, passa ancora oggi...
Allora come adesso però non è facile discernere il suo passaggio: molti nei suoi giorni non si sono accorti del suo andare per strada, del suo vivere con un gruppo di fratelli, del suo stare seduto alla tavola di emarginati e di peccatori, del suo parlare di Dio e del Regno a quelli che lo ascoltavano.
C'erano, allora come oggi, molti distratti, molti preoccupati di tante cose, molti che non si interrogavano sul senso da scoprire e da dare alla vita, questo bene unico che è stato posto nelle nostre mani, che ci è stato affidato.
Il brano dell'evangelo di Marco che questa sera ascoltiamo insieme, proprio perché ci parla di un incontro di un giovane con Gesù presuppone che tanti, tanti e molti altri giovani non si sono mai accorti del suo essere in mezzo a noi, del suo vivere e del suo morire. Vedete, amici: incontrare seriamente una persona non è facile, e così non è facile incontrare Gesù. Si passa accanto a molte persone, si parla magari con loro e si sente parlare di loro,  ma incontrarli nella verità non accade spesso.
L'incontro dell'altro è un'arte, non è un accadimento.
Per incontrare un altro occorre innanzitutto essere attenti, saper guardare e saper guardarsi dentro.
Oggi forse questo è ancora più difficile perché un giovane come voi, alle soglie della vita piena, è distratto da molte cose, è attirato da tantissimi idoli, è portato ad andare avanti senza interrogarsi e senza interrogare gli altri... Voi sperimentate in voi stessi molti "sé" e al di fuori di voi trovate una pluralità di modelli per la vostra esistenza.  Hillman dice che l'universo oggi è popolato da tanti déi, che la cultura oggi è politeista e che quasi naturalmente un giovane si sente rivolto all'entrambi, all'"e/e", questo e quello... Hillman ha ragione! E' così! Ma vivere questa situazione significa essere divisi in profondità, significa rifuggire dal processo di unificazione interiore secondo la Parola di Dio, significa essere idolatri, alienati da una pluralità di presenze che ci dominano e che ci schiacciano, significa rifuggire dalla propria verità Si finisce per vedere tutto, fare esperienza di tutto e quindi mai conoscere in verità, mai incontrare seriamente qualcuno, mai stringere una relazione autentica.
Per essere uomini autentici, per fare della propria vita un capolavoro, è invece necessario fare discernimento delle parole, delle proposte, delle presenze dominanti e interrogarsi.

Il giovane del racconto di Marco è uno sconosciuto (...) ma siccome si interrogava sul senso della vita si è accorto del passaggio di Gesù e lo ha interrogato, si è arrischiato a porre delle domande a quel rabbi che passava.
«Maestro buono - gli ha chiesto - che cosa devo fare per ottenere la vita per sempre?»
C'è qui un atteggiamento di questo giovane che l'evangelo ci mette davanti: è uno che cerca, è uno che si interroga e quindi, al passaggio di un maestro, interroga chi è più esperto di lui...
Voi giovani più che altri, voi giovani di oggi più di quelli della mia generazione, capite e cercate non una cultura dello studio, non una cultura della regola, ma quella della presenza (...) chi è giovane cerca una presenza, cerca qualcuno che gli trasmetta una verità vissuta.  (...)
Nei detti dei padri del deserto sta scritto:
Un giovane andò da abba Paiso e gli chiese: «Che devo fare? Dimmi una parola!». E quell'abba gli rispose: «Va' e sta' accanto ad un uomo esperto in umanità e imparerai cosa devi fare!».
Il giovane del nostro racconto ha fatto così e, saputo della presenza di Gesù, si è avvicinato a Lui e lo ha interrogato sul «che fare?». Che fare per avere la vita per sempre, che fare per conoscere la liberazione, che fare per dare alla vita un senso oltre la morte, oltre il male che la minaccia? (...)
Gesù risponde allo sconosciuto ponendogli innanzitutto una domanda e poi ricordandogli i comandamenti di Dio, la legge data al Signore al suo popolo.
«Perché mi chiami buono?». (...) 
Questa domanda di Gesù non è un rimprovero, ma un invito al giovane a comprendere quello che sta dicendo, a percepire che accendere una relazione con un altro esige di parlare in verità in modo che le parole  corrispondano a ciò che si pensa, a ciò che brucia nel cuore.E poi ricordandogli i comandamenti di Dio, rimanda colui che lo interroga alle dieci parole della legge che sono i doni del Dio buono, i doni con cui è offerta agli uomini l'Alleanza, la comunione con Colui che ama, con Dio.
Questi comandamenti iniziano con l'affermazione: «Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla schiavitù» (Es 20,2), iniziano quindi mettendo l'accento sul rapporto vitale con Dio, dichiarano la sua alleanza, indicano un gesto di amore preveniente: Dio ha liberato il suo popolo. I comandamenti non sono innanzitutto una legge, ma sono parole che dicono l'amore di Dio e solo dopo esprimono comandi, divieti e proibizioni per invitare l'uomo a non uscire dallo spazio della comunione, a vivere in pienezza il rapporto con Dio, a vivere nell'autenticità e nella solidarietà con gli altri.  Sono i comandamenti che rivelano che Dio è buono, è amore autentico, è bontà fedele e questo lo si può dire solo di Dio e di nessun altro...
Ma di fronte a questo ricordo dei comandamenti il giovane dice:  «Maestro, tutto questo l'ho osservato fin dalla mia giovinezza!». Pensateci bene: questa risposta o è temeraria e presuntuosa oppure rivela che quel tale, quel giovane era uno, diremmo noi, veramente onesto, giusto, un credente fedele.
Il testo dell'evangelo non dà un giudizio su questa affermazione, ma ci pone davanti un giovane che dice di essere fedele osservante della legge di Dio e Gesù in questo non lo contraddice. (...)

La domanda ha avuto la sua risposta, il racconto potrebbe essere concluso lasciandoci l'esempio di un giovane che siccome ha osservato la legge, entrerà nella vita per sempre! Ma la storia non finisce qui, il racconto va avanti ancora e ci interroga!
Gesù, ascoltando quella testimonianza, fissò lo sguardo sul giovane, lo amò e poi gli disse alcune parole definitive.
Gesù lo guarda.
E' lo sguardo di elezione, di vocazione, uno sguardo che solo Gesù può dare; Gesù cerca di accendere una relazione, cerca di far sì che quell'incontro diventi decisivo e guarda quel giovane... 
Essere guardati è molto importante (...) Non c'è solo il linguaggio delle parole, c'è anche il linguaggio degli sguardi e quando si è guardati, visti, quando si fa l'esperienza di essere oggetto dell'osservazione altrui non ci si sente più sconosciuti, non ci si sente più nel numero, ma si sa di essere scelti, di essere distinti da qualcuno. E' un'esperienza meravigliosa... (...)
Ecco, Gesù ha tentato questo passo di amore preveniente e Marco scrive:  «lo guardò e lo amò», egàpesen autòn, con un verbo che in greco può significare addirittura  «lo accarezzò, lo baciò...». Gesù lo guarda e lo ama dell'amore preveniente di Dio e di fatto chiama quel giovane a diventare il discepolo amato, il discepolo che Gesù amava, di fatto gli chiede di ricambiargli quell'amore. Lo sconosciuto non è più sconosciuto per Gesù, anzi fa l'esperienza di un amore passivo, si sente amato, scelto.
Qui c'è il cristiano! Chi è il cristiano? Un uomo amato da Dio, uno che sa di essere il discepolo amato da Gesù, uno che in forza di quest'amore segue Gesù come un discepolo segue il maestro.
Sempre Gesù aveva chiamato accanto a sé guardando e amando: lungo il mare di Galilea quando chiamò Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni (Mt 4,18.21), presso il banco delle tasse quando chiamò Levi-Matteo (Mt 9,9 ; Mc 2, 13-14). E' così che si diventa cristiani: sentendo l'amore di Dio su di noi, l'amore di chi ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Ed è in quest'amore che Gesù allora chiama il giovane:
Ti manca una cosa sola: va', vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi.
«Ti manca una cosa sola!». Perché prima Gesù ha risposto:  «osserva i comandamenti per ottenere la vita per sempre», ed ora qui dice: «Ti manca una cosa sola?». C'è un solo perché! Perché ormai quel giovane ha conosciuto l'amore di Gesù e allora non può solo eseguire i comandamenti ma deve rispondere all'amore con l'amore. Gesù gli ha fatto un grande dono e lo ha chiamato ad essere la pecora del Salmo 23 che dice:
Il Signore è il mio pastore io non manco di nulla (Sal 23,1)
Quando si ha Gesù, il Signore, per pastore non manca nulla e si possono lasciare i beni, ciò che si possiede, tutto ciò che è caro e condividerlo con i poveri: nulla manca a chi fa del Signore il suo pastore!
Gesù gli propone dunque qualcosa di più rispetto a quel che ha fatto.  Non glielo chiede, glielo propone soltanto nel linguaggio dell'amore, cominciando a guardarlo e ad amarlo per dirgli: «Vieni e seguimi. Io ti amo, resta con me!».
Per il giovane è venuta l'occasione di scegliere veramente e questa occasione nasce da uno sguardo di amore posato su di lui.
Conosciuto l'amore di Gesù uno può seguirlo e qui c'è l'epifania del cristiano. Il cristiano non è chi è giusto, chi è onesto, chi fa prestazioni elevate a Dio in cambio della vita eterna; è cristiano chi, conosciuto l'amore di Gesù lo segue, senza anteporre il proprio impegno e la propria osservanza.

So di dire ora alcune parole che non piaceranno ad alcuni di voi, ma le dico perché questo evangelo mi costringe. Oggi, da più parti nella chiesa siete invitati a fare come il giovane del racconto: osservare i comandamenti, fare il bene, servire i fratelli attraverso le attività parrocchiali, il volontariato, l'impegno per il terzo mondo, la carità organizzata... Tutte queste sono cose buone, doverose ed essenziali, ma se poi non si è capaci di seguire il Signore e basta, di andare dietro a Gesù concretamente con il dono di tutta una vita, allora si è come il giovane ricco cui manca una sola cosa: seguire totalmente e radicalmente Gesù! Attenzione, perché in questo modo la chiesa di domani che voi edificate sarà una chiesa attiva, efficace, ma che rischia di anteporre il proprio impegno e la propria osservanza alla risposta obbediente alla vocazione che Dio ci rivolge chiamando dietro a Gesù sena predeterminare antecedentemente le prestazioni. Il cristiano (...) è uno che non arriva solo ai preliminari dell'osservanza e della solidarietà, ma va dietro al Signore con tutta la sua vita, lasciando che la sua esistenza sia pienamente coinvolta con quella di Gesù il Signore. Certo solo Gesù, quando viene l'ora per ciascuno di noi può domandarci tanto e solo a causa sua possiamo rinunciare a tutto quanto possediamo su questa terra, compresi le nostre volontà e i nostri progetti di vivere facendo il bene. Solo l'amore in risposta all'amore ci permette di vedere come, a volte, una certa nostra passione per la giustizia, una nostra volontà di fare il bene, sono in realtà forme di voracità: non virtù, ma difetti e vizi.
Ma egli oscuratosi in fronte per la parola se ne andò rattristato
All'amore dello sguardo e della chiamata quel giovane non sa rispondere e, di fronte alla parola, si oscura in fronte (...) Egli si è oscurato per la Parola di Dio, parola che chiama, parola efficace, parola tagliente come spada affilata a doppio taglio che penetra là dove c'è la sorgente del volere e dell'operare (Eb 4,12).
La Parola di Dio, se è accolta, salva, guarisce, consola, ma se è rifiutata rattrista e indurisce il cuore. 
Il giovane è così un discepolo mancato e se ne va, ma se ne va triste... (...)
L'amore di Gesù non è stato sufficiente a strapparlo ai suoi amori per ciò che possedeva, per ciò che era, per ciò che pensava di progettare come vita.
Perché questo giovane non accetto l'invito, non acconsente alla chiamata di Gesù? Perché era ricco? Non forzatamente. In parte sì, a causa delle cose che possedeva, ma prima di tutto perché poneva la sua fiducia in se stesso, in ciò che doveva fare o non doveva fare. Aveva risposto: «Tutte queste cose (i comandamenti) le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Così, l'ultimo ostacolo che avrebbe dovuto cadere di fronte allo sguardo amante di Gesù è stato invece l'ostacolo che gli ha bloccato la strada perché era troppo preoccupato di se stesso, della giustizia da assolvere, del fare il bene secondo le esigenze sue e del suo tempo...
Quel giovane era troppo ricco, ma non innanzitutto dei beni, del denaro, ma delle cose che lui voleva fare. Zaccheo era un ricco ma nel suo sentirsi peccatore è restato toccato dallo sguardo di amore di Gesù perché cercava l'amore. Questo giovane invece poneva la fiducia in altre cose piuttosto che nell'amore: soddisfatto di osservare i comandamenti vagheggiava di fare qualcosa di più, ma non in obbedienza all'amore di Dio. Gesù per lui in realtà non era il "Maestro buono" come lui l'aveva chiamato, il maestro che vuole il suo bene.
Non gli resta che andarsene, dimenticare quell'incontro, ma restare nella tristezza per non aver voluto realizzare la propria verità, la propria vocazione. (...)

Gesù può vedere il suo amore rifiutato allora come oggi...
Sì, la Parola di Dio è ancora in mezzo a noi, qui e ora, e noi ce ne possiamo andare facendo la nostra strada ma nella tristezza, oppure possiamo accogliere l'amore del Signore e rispondere intraprendendo una strada difficile: quella del non conoscerci più nel nostro egoismo per conoscere e seguire lui, il Signore.
Gesù infatti chiama ancora e innanzitutto attraverso la Parola di Dio! Io non vi do consigli, ma se volete crescere come cristiani fino all'ora in cui vi sarà data l'occasione di scegliere veramente e di essere scelti, chiamati, non fate troppe cose, anche buone e sante, finendo per tralasciare l'essenziale. Pensate, date del tempo al pensare, riflettete, interrogatevi e leggete, ascoltate ogni giorno un brano del Vangelo, ogni giorno con fedeltà, con perseveranza e con attenzione e pregate, pregate con insistenza! Il Signore vi parlerà, vi guarderà e vi amerà e in forza di questa esperienza lo conoscerete, lo interrogherete e lui vi chiamerà dove lui vuole e vi darà la forza per essere discepoli amati, cioè dei cristiani che lo seguono e ricevono in dono la vita per sempre.


Enzo Bianchi

testo della Veglia di preghiera "Custodisci il mistero" per i giovani della Chiesa di Milano, 1987


23/05/13

Lo scandalo - Lc 18, 5-10

dal Vangelo di Luca 18, 5-10



[In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:]

«Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.
Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! E' inevitabile che vengano gli scandali, ma guai all'uomo a causa del quale viene lo scandalo!
Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. E' meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. E' meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.
Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».


22/05/13

La Sua figura - Giuni Russo



Ispirata al "Cantico Spirituale" di San Giovanni della Croce


L'estate appassisce silenziosa
foglie dorate gocciolano giù,
apro le braccia al suo declinare stanco 
e lascia la tua luce in me.

Stelle cadenti incrociano i pensieri 
i desideri scivolano giù;
mettimi come segno sul tuo cuore 
ho bisogno di te.

Sai che la sofferenza d'amore non si cura 
se non con la presenza della Sua figura.
Baciami con la bocca dell'amore 
raccoglimi dalla terra come un fiore.
Come un bambino stanco ora voglio riposare...
e lascio la mia vita a te.

Tu mi conosci non puoi dubitare 
fra mille affanni non sono andata via,
rimani qui al mio fianco sfiorandomi la mano...
e lascio la mia vita a te.

Sai che la sofferenza d'amore non si cura 
se non con la presenza della Sua figura.
Musica silenziosa nell'aurora,
solitudine che ristora e che innamora.
Come un bambino stanco ora voglio riposare...
e lascio la mia vita a te.

Mi manca la presenza della Sua figura...


Trentasette

Bisogna sempre sapere quando una fase giunge alla fine.
Concludere un ciclo, chiudere un uscio, terminare un capitolo: non importa come lo si definisca, ciò che conta è lasciare nel passato quei momenti di vita che sono finiti.

Paulo Coelho



21/05/13

Il deserto e il mondo - Enzo Bianchi


PENSIERI SUL MONACHESIMO

 Enzo Bianchi intervistato da Gabriella Caramore

L'espressione con la quale abbiamo voluto intitolare questa serie di incontri «La vita altrimenti», è un'espressione a lei cara: per significare una differenza, una modalità di alterità.

Thomas Merton, nelle sue ultime meditazioni prima della morte - un vero e proprio testamento per il nostro monachesimo - afferma che il monachesimo deve restare caratterizzato da una marginalità. 
Il cristianesimo certamente vive di comunione, ma il monachesimo non sta nel cristianesimo se non ai margini. (...) Esso ama stare sulle "frontiere", sui "bordi" (...) I margini, quella zona che sta tra il deserto e la città: è questo il luogo in cui il monachesimo ama collocarsi e in cui può veramente fiorire.

Prima ancora di ripercorrere la storia del monachesimo, è utile far chiarezza su che cosa sia la peculiarità della vita monastica perché credo che molti ancora confondano i diversi ministeri della Chiesa e le loro figure: sacerdoti, monaci, suore, frati. Qual è lo statuto del monachesimo all'interno della vita religiosa?

Il monachesimo ha uno statuto del tutto particolare. Innanzitutto è un fenomeno laicale: i monaci sono semplici cristiani, non divengono presbiteri, non accedono agli ordini, ma vivono come semplici battezzati. Pacomio, il grande fondatore della vita monastica, amava dire: «Noi monaci siamo soltanto dei poveri laici». Ancora: i monaci non svolgono una precisa funzione all'interno della Chiesa, non sono preposti a uno specifico servizio, a un ministero come chi sceglie la vita religiosa; questa in fondo, si spiega con una diaconia: la carità ai poveri, l'assistenza ai vecchi, la cura degli emarginati, cioè servizi concreti che vengono organizzati in nome del Vangelo, sotto forma di vita religiosa. Il monachesimo, invece, non ha neppure un compito pastorale come nel caso dei frati, dei presbiteri, dediti alla cura del popolo di Dio. Il monachesimo, potremmo quasi dire, non è "necessario" alla Chiesa; alla Chiesa sono necessari i presbiteri, ovvero coloro i quali svolgono una diaconia. Il monachesimo non è esistito fino al quarto secolo, non esiste tuttora in alcune Chiese e può darsi che nel futuro sia destinato a scomparire. Esso esprime, lo vedremo più avanti, un fenomeno antropologico prima che cristiano ed è quindi "altra cosa" rispetto a qualsiasi forma istituzionale elaborata dalla Chiesa.  Il monachesimo in sé non ha uno scopo.

Quindi, anche a questa marginalità corrisponde una inattualità. I monaci sono marginali nel tempo, così come nello spazio. Il monachesimo non ha scopo, non ha servizi di carità: non rischia a questo punto di divenire una scelta di vita fine a se stessa? 

E' difficile comprendere questo "non avere scopo". Eppure è un punto essenziale. Noi monaci vogliamo tentare (lo dico con molta umiltà giacché è difficile farlo in pienezza) di vivere semplicemente il Vangelo, praticando il celibato in una vita comune. Nient'altro. Poi viviamo di carità e del nostro lavoro, e praticando l'ospitalità svolgiamo un servizio, una diaconia a quanti hanno bisogno di un luogo di silenzio, di pace, di confronto. Questo però non costituisce parte essenziale della nostra vita e della nostra vocazione. Tutti gli altri ministeri, in fondo, sono necessari alla Chiesa: non il nostro. Noi siamo una presenza gratuita. La Chiesa può fare a meno di noi. Essa non ci chiede nulla, non ci attribuisce funzioni né ministeri: così siamo veramente sulla frontiera, ai bordi, tra la società, l'umanità e la Chiesa. Facciamo, però, quel che fa ogni cristiano battezzato: come ogni cristiano, vogliamo vivere una vita secondo il Vangelo. Niente di più. Ma non siamo utili al funzionamento dell'organizzazione ecclesiale. Noi monaci, in realtà, siamo altra cosa.
(...)
Ora, ripercorriamo alcune pagine di storia: come nasce il monachesimo cristiano?

(...) Per avere un monachesimo cristiano eloquente, che emerga con un suo volto preciso, dobbiamo attendere fino al quarto secolo, quando con la pace costantiniana, a fronte di un potere imperiale ormai garante della cristianità e quindi dei cristiani, alcuni di questi, in polemica nei confronti del nuovo assetto della Chiesa che confondeva la sua fede, la sua pratica di sequela a Cristo, con una forma di assetto culturale dell'Impero, lasciano le città e vanno nel deserto, deve Cesare non può raggiungerli e iniziano a vivere secondo il Vangelo. Scelgono di vivere in solitudine dedicandosi sopratutto al lavoro  e alla preghiera, nel tentativo di vivere il Vangelo al di fuori della protezione garantita a quella religione, divenuta ormai "religione di stato" (...)
E' significativo che da un lato queste persone abbandonino la città e si spingano nel deserto, operando una sorta di esodo nello spazio; ma nello stesso tempo desiderano richiamarsi alla forma della Chiesa nascente, invocano i testi degli Atti degli Apostoli in cui si narra di quei credenti che vivevano una comunione di condivisione dei beni, conducevano una vita fortemente segnata dal senso di giustizia e dalla carità nel tentativo di vivere questo Vangelo alla lettera. Insomma, v'è una migrazione nello spazio, verso il deserto; ma v'è anche un ritorno alle fonti, alle fonti nel tempo, quasi a voler mantenere una continuità diretta con quella Chiesa nascente che aveva preso forma e aveva mostrato il suo volto tre secoli prima.

Lei ha affermato che i monaci scelgono di vivere nella solitudine senza la protezione della Chiesa che si sta formando dopo l'editto di Costantino. Anche questa rinuncia alla protezione è una forma di sequela al Vangelo: "perdendo", appunto, la propria vita, non scegliendo una soluzione comoda.

Per i monaci lo è. Questa marginalità assume per loro anche una valenza ecclesiale, non solo in relazione ai poteri di questo mondo. Pensiamo a San Francesco, quando nei suoi scritti si rivolge ai confratelli dicendo: «Io vi chiedo e vi supplico che nessuno di voi osi chiedere lettere di raccomandazione alla Curia Romana». Il monachesimo è un modo di "farsi piccoli", una forma di marginalità. Il monachesimo è comunione con la Chiesa: rifugge ogni forma di contestazione, di divisione, di scisma. Ma vuole raggiungere quel livello di marginalità, vuole stare all'ultimo posto, proprio perché quello è il posto di Gesù, ai margini, come Lui si è trovato, all'interno della comunità religiosa. (...) Ecco, io credo che questa marginalità "parallela" il monachesimo la desideri anche per sé, per la sua forma di vita, per la sua testimonianza.

Il deserto non solo è, storicamente, il primo luogo in cui si rifugiarono i monaci in fuga; ma ha ormai assunto da sempre e ovunque, per tutte le esperienze di fede, una valenza spirituale molto forte. Il deserto è anche il primo luogo in cui Gesù si forma, lotta, resiste alle tentazioni.

Potremmo dire di più: già nell'Antico Testamento i profeti chiedono a Israele di "tornare nel deserto", ovvero che Israele torni a quel tempo di fedeltà, a quel tempo nuziale di comunione piena con il Signore. E' Osea il profeta che canta questo ritorno [Os 2,16-18] (...) Il deserto è un'immagine a cui è sempre andata la nostalgia dei credenti, dei cercatori di Dio. I monaci in questo senso rappresentano una continuità anche con quella via profetica che era stata propria di Elia, Eliseo e dei grandi profeti del deserto.
(...)
Non esiste deserto se la nostra mente è piena di fantasmi...

E' così, perché proprio mentre noi fuggiamo la mondanità, essa ci rincorre, è dentro di noi come nostro bagaglio. Quindi il deserto diviene un crogiuolo, ma è possibile andare nel deserto senza viverlo, anzi essere ancor più assaliti dalle ansie e dalle preoccupazioni mondane, da quelle passioni idolatriche per fuggire le quali una persona sceglie di farsi monaco e andare nel deserto. E' significativo che oggi vi siano anche monaci che hanno scelto di vivere in città. Esiste poi una intera tradizione di esperienza spirituale russa denominata non a caso pustinya, "deserto", appunto, in cui uomini e donne fanno vita monastica, eremitica, nella solitudine delle grandi città. Questo a dire che il deserto è qualcosa che dobbiamo costruire e custodire più che un luogo fisico da trovare.

E tuttavia, qualche volta, luoghi particolari costituiscono una vera esperienza di alterità. Lei frequenta molto anche i monasteri d'Oriente. Esistono ancora luoghi in grado di offrire una possibilità di diversità, che poi sta naturalmente a ciascuno di noi cogliere?

E' necessaria sempre molta disciplina. Certo, andare nel deserto dove non c'è nessuno, dove non vi  sono rumori, dove regna il silenzio assoluto, e guardare dentro se stessi, in un faccia a faccia radicale, rappresenta un percorso faticoso, un itinerario di purificazione e di indagine. Si può provare paura, si può fare persino esperienza di terrore per questa solitudine estrema. Però, proprio il monaco cerca attraverso il deserto questa autenticità, questa conoscenza del cuore umano, questa esperienza... "umana".  (...)
Il deserto è il luogo della lotta, di una grande lotta spirituale. E' il luogo in cui, come per abba Antonio, le bestie ci assalgono, bestie feroci di tutte le specie che entrano nella cella di Antonio e si avventano su di lui. Esse non sono, come ha interpretato la letteratura classica, bestie strane: sono le passioni, le bestie che abitano in noi, i nostri pensieri, le nostre cattiverie, i nostri egoismi, i nostri appetiti. Affrontare tutto questo per un monaco è essenziale. 
(...)
Abbiamo parlato del deserto e quindi della "marginalità" della vita monastica che potrebbe far pensare al mondo come a qualcosa di irrilevante. Invece, è sempre esistita una tensione continua tra "deserto" e "mondo". Ricordiamo solo il contributo dato dal monachesimo alla trasformazione del mondo, alla creazione dell'Europa, per esempio.

Dicevo all'inizio di questa nostra conversazione di come il monaco si muova in uno spazio che è quello di una "minoranza efficace". Come "minoranza efficace", il monaco non sceglie l'ipotesi settaria, non si separa dalla Chiesa, né fugge dal mondo mostrandosi quasi alternativo rispetto alla vita degli uomini. Il monachesimo sta ai "margini", ma vuole inoculare delle "diastasi" all'interno del corpo sociale e del corpo ecclesiale. Per questo non ama la setta, e non ama neppure l'omologazione al mondo. La sua fuga diviene perciò fuga dalla "mondanità", non dalla convivenza umana. In quella posizione "addossata al deserto" il monaco ha, da una parte, questo spazio davanti a sé che è la solitudine, la solitudine del deserto in cui trova la forza per vivere questa esperienza e questa sua ricerca. Ma, dall'altra parte, il monaco della città vede i campanili e le cupole delle Chiese, la comunità degli uomini, per la quale non solo prega e sente solidarietà, ma della quale si sente parte, e a nome della quale vuol fare questo cammino di esperienza antropologica, ma anche evangelica, perché la sua forma vitae la vuole secondo una vera umanizzazione e, al contempo ispirata alle parole di Gesù. Per cui il monachesimo ha sempre avuto questa funzione a volte di profezia, di denuncia della mondanità presente nella società degli uomini, ma anche nella Chiesa. Tuttavia ha anche manifestato una grande simpatia per l'umanità, e una grande empatia con gli altri credenti, ai quali il monaco vuole offrire il suo contributo. (...) Il monachesimo non vuole costruire un modello di vita che non sia secondo il Vangelo. Il suo obiettivo, però, è anche di condurre seriamente una vita umana, cercando di farne anche un'opera d'arte. Così riesce a creare una tipologia di vita che dà frutti a servizio di tutta la comunità umana.


Enzo Bianchi
«La vita altrimenti. Pensieri sul monachesimo»,  a cura di Gabriella Caramore


La sorte del giusto - dal Salmo 36


Non irritarti a causa dei malvagi,
non invidiare i malfattori.
Come l'erba presto appassiranno;
come il verde del prato avvizziranno.

Confida nel Signore e fa' il bene:
abiterai la terra e vi pascolerai con sicurezza.
Cerca la gioia nel Signore:
esaudirà i desideri del tuo cuore.

Affida al Signore la tua via,
confida in lui ed egli agirà:
farà brillare come luce la tua giustizia,
il tuo diritto come il mezzogiorno.

(...)

Il Signore rende sicuri i passi dell'uomo
e si compiace della sua via.
Se egli cade, non rimane a terra,
perché il Signore sostiene la sua mano.

Sono stato fanciullo e ora sono vecchio:
non ho mai visto il giusto abbandonato
né i suoi figli mendicare il pane;
ogni giorno egli ha compassione e dà in prestito,
e la sua stirpe sarà benedetta.

Sta' lontano dal male e fa' il bene
e avrai sempre una casa.
Perché il Signore ama il diritto
e non abbandona i suoi fedeli,.

(...)

La salvezza dei giusti viene dal Signore:
nel tempo dell'angoscia è loro fortezza.
Il Signore li aiuta e li libera,
li libera dai malvagi e li salva,
perché in lui si sono rifugiati.


20/05/13

Allegria di naufragi - G. Ungaretti



E subito riprende 
il viaggio 
come 
dopo il naufragio 
un superstite 
lupo di mare.


Giuseppe Ungaretti
1917



Maria donna dell'attesa - Tonino Bello


La vera tristezza non è quando, a sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.
E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.
Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi siano fatti. E nessun'anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più né soprassalti di gioia per una buona notizia, né trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.
La vita allora scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.

Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle sue attese. Forse è vero.
Se è così, bisogna concludere che Maria è la più santa delle creature proprio perché tutta la sua vita appare cadenzata dai ritmi gaudiosi di chi aspetta qualcuno.
Già il contrassegno iniziale con cui il pennello di Luca la identifica è carico di attese: «Promessa sposa di un uomo della casa di Davide».
Fidanzata, cioè.
A nessuno sfugge a quale messe di speranze e di batticuori faccia allusione quella parola che ogni donna sperimenta come preludio di misteriose tenerezze. Prima ancora che nel Vangelo venga pronunciato il suo nome, di Maria si dice che era fidanzata. Vergine in attesa. In attesa di Giuseppe. In ascolto del frusciare dei suoi sandali, sul far della sera, quando, profumato di legni e di vernici, egli sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni.
Ma anche nell'ultimo fotogramma con cui Maria si congeda dalle Scritture essa viene colta dall'obiettivo nell'atteggiamento dell'attesa.
Lì, nel cenacolo, al piano superiore, in compagnia dei discepoli, in attesa dello Spirito. In ascolto del frusciare della sua ala, sul fare del giorno, quando, profumato di unzioni e di santità, egli sarebbe disceso sulla Chiesa per additarle la sua missione di salvezza.

Vergine in attesa, all'inizio.
Madre in attesa, alla fine.
E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti.
L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L'attesa del giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'ora: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.

Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.
Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci del tuo olio perché le nostre lampade si spengono. Vedi: le riserve si sono consumate. Non ci mandare ad altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli antichi fervori che ci bruciavano dentro quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia: l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno sorvegliava i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che giungevano dai palmenti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo che irrompeva quando si preparava una culla.

Se oggi non sappiamo attendere più, è perché siamo a corto di speranza. Se ne sono disseccate le sorgenti. Soffriamo una profonda crisi di desiderio. E, ormai paghi dei mille surrogati che ci assediano, rischiamo di non aspettarci più nulla neppure da quelle promesse ultraterrene che sono state firmate col sangue dal Dio dell'alleanza.
Santa Maria, donna dell' attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più, perché uccisi da un incidente stradale o perché sedotti dai richiami della giungla. Perché dispersi dalla furia della guerra o perché risucchiati dal turbine delle passioni. Perché travolti dalla tempesta del mare o perché travolti dalle tempeste della vita.
Riempi i silenzi di Antonella che non sa che farsene dei suoi giovani anni, dopo che lui se n'è andato con un' altra. Colma di pace il vuoto interiore di Massimo che nella vita le ha sbagliate tutte, e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti, e per la cattiveria della gente se li è visti così svanire a uno a uno, che ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.

Santa Maria, Vergine dell'attesa, donaci un'anima vigiliare. Giunti alle soglie del terzo millennio, ci sentiamo purtroppo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo, che si sente già vecchio. Portaci, finalmente, arpa e cetra, perché con te mattiniera possiamo svegliare l'aurora.
Di fronte ai cambi che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere: bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza. Rendici, perciò, ministri dell' attesa. E il Signore che viene, Vergine dell' avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con la lampada in mano.

don Tonino Bello
"Maria donna dei nostri giorni"

19/05/13

Preghiera allo Spirito - Maria Maddalena de' Pazzi


Vieni, Spirito di verità, luce delle tenebre, 
ricchezza dei poveri consolazione dei peregrini! 

Vieni, tu, refrigerio, sollazzo e nutrimento dell'anima nostra!
Vieni e togli tutto quello che è in me di mio 
e infondi in me solo quello che è Tuo! 

Vieni, tu che sei nutrimento d'ogni casto pensiero, 
circulo di ogni clementia e cumulo d'ogni purità!
Deh, vieni e consuma in me tutto quello che è cagione 
che io non possa esser consumato da te! 

Deh, vieni, o Spirito [Consolatore], 
che sei sempre col Padre e con lo Sposo Cristo Gesù 
e riposati sopra le spose dello Sposo. 

S. Maria Maddalena de' Pazzi




Il giorno della Pentecoste - At 2, 1-8

Atti degli Apostoli 2, 1-8



Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» 


Pentecostés - El Greco

18/05/13

Pentecoste

Gv 14, 15-16.23-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».


In questa festa di Pentecoste la nuova traduzione del testo ci permette di tornare al termine originale “Paraclito”, per parlare dello Spirito Santo. In questo testo compare due volte questo modo di definire il "dono dall’alto”, il dono che viene dal Padre e che procede dal Padre e dal Figlio e che ha questa definizione. “Paraclito”, “parakaleo”, in greco è “il chiamato dappresso”, quello che in latino si traduce “ad vocatus”, cioè “chiamato presso di me”. 
Che funzione ha il Paraclito? La funzione dell’”avvocato difensore”, il quale non poteva parlare al posto dell’imputato come invece avviene oggi, ma suggeriva all’imputato come parlare; stava dappresso all’imputato, parlava al suo orecchio e gli dava i consigli su come rispondere alle accuse. 
 Ecco, lo Spirito Santo arriva, ed è un Paraclito, non si sostituisce a noi, ma ci dice come fare, perché per Dio è tanto importante la nostra identità, non la abusa, non la bypassa, non la schiaccia, non la cancella. “Essere in Cristo”, vuol dire non essere più noi, ma essere “proprio noi”, fino in fondo. Lo Spirito Santo cerca proprio noi, vuole parlare con noi; è tutta una questione di accogliere, amare, la Parola di Cristo. 
«Se uno mi ama osserverà la mia Parola», dice questo testo. Questa consolazione, questa sapienza straordinaria, che viene insufflata nel nostro essere, passa però attraverso una nostra libera adesione a quello che è del Padre, a quello che è la Parola di Cristo, ed è una questione di amore. La relazione con Dio non è una relazione di “dovere”, non è una relazione di “obbligo”, non è una relazione di “imposizione”, non è come il male che ci schiavizza, ci costringe, non sappiamo come uscirne, un vizio ci prende e diventa nostro padrone. Con Dio noi restiamo sempre, comunque, con l’iniziativa e la libertà di dire “si” o “no”: «Se uno mi ama osserverà la mia Parola». Le parole di un amato uno se le tiene nel cuore: può capitare che diciamo a qualcuno «Non ci tieni a me, ti ho detto questa cosa e non ne hai manco tenuto conto, quando parlo non ascolti ciò che ti dico, non lo metti nel cuore, non lo difendi», perché, infatti, c’è questo “osservare la parola”, questo “tenere dentro”. Ci sono delle cose che noi ci teniamo molto strette perché sono legate alle persone a cui abbiamo voluto bene: certi ricordi di persone care; se abbiamo perso un genitore, un fratello, un amico… abbiamo delle cose che ce li ricordano, magari sono piccole cose e le teniamo da conto, c’è qualcosa di loro in noi. Questa è la relazione che Dio vuole stabilire con noi: che noi teniamo dentro di noi qualcosa di meraviglioso. Noi abbiamo urgenza, sempre, di fare molta molta attenzione a quei momenti di intimità che sono un dono e che Dio, nella sua Provvidenza, dona a tutti! Magari da bambini, magari all’inizio della nostra esistenza, con la nostra prima sensibilità o più grandi. Quando una parola entra nel nostro cuore, dobbiamo essere furbi, tenercela stretta, perché quella parola è la pista di atterraggio dello Spirito Santo dentro di noi; quella parola è la strada attraverso cui si crea proprio una “dimora”. Qui si parla del “prendere dimora”. Nell’Antico Testamento si parlava di una in abitazione di Dio nel Tempio: la dimora di Dio era il Tempio. Il nuovo Tempio è il nostro cuore, la nostra realtà più profonda; il nostro spirito, che è qualcosa di diverso dalla nostra sensibilità, dalla nostra psicologia… è un luogo più profondo della nostra psiche, un luogo più profondo dei nostri stati d’animo: lì c’è il luogo in cui Dio vuole abitare, vuole “prendere dimora”. Qui di parla di una “dimora stabile”; Dio non vuole con noi una relazione occasionale, Dio non vuole con noi uno “stare”, ma essere distratti mille volte, o riproporre più e più volte il suo passaggio “dalle nostre parti”: Lui vuole proprio prendere dimora, stare con noi. Fare casa con Lui. 
Quando si abita insieme a qualcuno iniziano delle convenzioni, delle intimità, dei piccoli rituali, momenti in cui ci si scambia qualcosa… Quand’è che si sta male? Quando questi rituali vengono usati male, lasciati andare e non c’è più quell’intimità. Noi abbiamo bisogno di fare casa con lo Spirito Santo, col Padre e con il Figlio, avere con loro le “nostre intimità”. Come si fa? Attraverso la sua Parola. La sua Parola sa fare questo in tutti noi, sa donarci questa dimensione. 

«Egli vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». 
Questa dimensione diventa una relazione col passato, illuminata dalla Parola di Cristo. E’ molto consolante iniziare a cercare nel nostro passato l’opera di Dio e non stare lì a guardare quelle cose disordinate, una affastellata sopra l’altra senza un vero senso, o certe volte essere solamente colpiti da quello che ci ha ferito, C’è Cristo in quello che ci è successo. E piano piano la Parola di Cristo inizia ad essere presente, in tutta la nostra storia, anche nel passato e nel tempo in cui non conoscevamo Cristo, se la nostra infanzia non è stata benedetta dalla fede. Ad un dato momento la Parola inizia ad inondare tutta la nostra memoria. Giovanni Paolo II parlava della purificazione della memoria, ed è molto molti importante ricordare quando nelle cose abbiamo iniziato a vedere che ci parlava Cristo. E’ un’esperienza di purificazione, è un’esperienza di cambiamento; quando una persona cambia il suo rapporto con il passato, veramente poi cambia radicalmente, perché la nostra memoria ci condiziona profondissimamente. Lo Spirito Santo, per la Parola di Cristo, ha il potere di toccare quella dimensione, la dimensione di ciò che ricordiamo; avere al centro della nostra memoria l’opera di Dio vuol dire iniziare ad illuminare tutto quello che è stato il nostro passato. Questa è un’opera che dobbiamo fare. Tante volte le persone sono molto ferite, arrivano con delle ulcere esistenziali che dobbiamo - sicuramente – lenire e accompagnare, ma non con una consolazione da quattro soldi: iniziando ad illuminare l’opera di Dio. Iniziando ad illuminare quello che solamente lo Spirito Santo sa insegnare - «Egli vi insegnerà ogni cosa» -: insegnarci il vero fine della nostra vita. Perché se il passato lo dobbiamo interpretare solamente in funzione del “benessere”, dello stare bene e conseguire i nostri obiettivi terreni, il nostro passato normalmente ci soddisfa poco: ci stanno delle cose da cancellare, o su cui restiamo un po’ rabbiosi, o tristi o autodistruttivi… Se invece la vita è un viaggio verso l’amore, verso il “saper amare”, ecco che il nostro passato comincia a diventare utile. Anche tutto il male subito diventa una strada per quella scuola lì, che è l’unica scuola che lo Spirito Santo viene a farci. 
Noi no riceviamo lo Spirito Santo per essere più bravi a far carriera, noi non riceviamo lo Spirito Santo per essere più contenti in questo mondo in maniera vana e stupida; noi riceviamo lo Spirito Santo per imparare ad amare, noi riceviamo lo Spirito Santo per diventare stabile dimora di Dio, noi riceviamo lo Spirito Santo perché Dio parli al nostro cuore, perché Dio sia visibile attraverso le cose che ci succedono ogni giorno, perché sappiamo ascoltare, percepire, perché sappiamo toccarlo nelle cose che viviamo… Lo Spirito Santo serve a questo, non serve ad altro, non serve come un fine occasionale come una certa "religione di consumo” oggi ci consiglia di cercare: serve a fare di noi una dimora stabile di Dio. 


don Fabio Rosini


17/05/13

Chiedere lo Spirito - A. De Mello


«Lo Spirito Santo è puro dono del Padre. Il problema che ci troviamo di fronte è lo stesso affrontato dagli apostoli. Essi, come noi, avevano bisogno dello Spirito Santo per il loro apostolato. Gesù aveva impartito loro delle istruzioni su come riceverlo. Aveva detto di attendere che si adempisse la promessa del Padre. Non possiamo produrre lo Spirito. Possiamo solo attenderne la venuta. E questa è una cosa che la nostra povera natura umana trova difficilissima da fare. Siamo troppo irrequieti, troppo impazienti. Dobbiamo essere presenti e attivi. Preferiamo molte ore di duro lavoro piuttosto che sopportare la sofferenza di attendere quietamente qualcosa che sfugge al nostro controllo; qualcosa che non sappiamo quando verrà. Eppure dobbiamo aspettare; e così aspettiamo, ma non accade nulla (o piuttosto, nulla che possiamo percepire con la nostra vista spirituale non raffinata), e così ci stanchiamo di aspettare e pregare. Ci sentiamo più a nostro agio “lavorando per Dio” e perciò ci immergiamo nuovamente nell’attività. Tuttavia lo Spirito è dato solo a coloro che attendono; a coloro che espongono giorno dopo giorno i propri cuori (tutto il proprio essere) a Dio e alla sua Parola nella preghiera; che investono ore in ciò che sembra una pura perdita di tempo alle nostre menti orientate alla produzione. Gesù ha detto: “Riceverete forza…”. Ricevere è una parola appropriata. Gesù non si aspetta che produciamo la forza, perché questo tipo di forza non può essere prodotta, per quanti sforzi si facciano. La si può solo ricevere.».

«Avere un atteggiamento di grande attesa. Giovanni della Croce dice che una persona riceve da Dio tanto quanto si aspetta da lui. Chi si aspetta poco, di solito riceve poco. Chi si aspetta molto riceve molto. Dio non abbandona mai quando le aspettative verso di lui sono elevate; può lasciare aspettare o venir subito; o può arrivare improvvisamente e inaspettatamente, ma di certo verrà, se si aspetta che venga. Qualcuno ha detto che il peccato contro lo Spirito Santo è quello di non credere più che possa cambiare il mondo, di non credere più che possa cambiarci. E’ un tipo di ateismo più pericoloso d quello che fa dire: “Dio non esiste”. Attendere finché non sentiremo di avere sufficiente fede nelle parole di Gesù da chiedere realmente lo Spirito Santo con fiducia assoluta. E poi, chiedere! Chiedere ripetutamente, persino con impudenza, come l’uomo che bussa alla porta dell’amico nel cuore della notte e non vuole sentirsi dire di no. Ci sono alcune cose che possiamo chiedere a Dio solo con la condizione “se questa è la tua volontà”. 
Qui non c’è una condizione del genere. E’ chiaramente la volontà di Dio, la sua chiara promessa, darci lo Spirito. Ciò che manca non è il suo desiderio di donarci lo Spirito, ma la nostra fede nella sua intenzione di darcelo e la richiesta costante da parte nostra. Perciò non esitare a chiederlo. E lo Spirito Santo è dato in risposta ad una preghiera, più che in risposta a meditazioni abilmente elaborate. Pregare non solo per se stessi ma per tutti. E, se desidera che la preghiera raggiunga il massimo della forza e dell’intensità, occorre fare ciò che fecero gli apostoli mentre attendevano lo Spirito prima della Pentecoste: pregare con Maria.».


Antony De Mello
tratto da  "L’incontro con Dio. Un cammino di preghiera”

Trentasei


Spesso ci sono più cose naufragate in fondo a un’anima che in fondo al mare

Victor Hugo


16/05/13

"Cristiani da salotto" - Omelia di Papa Francesco

da  www.avvenire.it
16 maggio 2013

La Chiesa ha tanto bisogno del fervore apostolico che ci spinge avanti nell’annuncio di Gesù. E’ quanto sottolineato, stamani, da Papa Francesco nella Messa alla Casa Santa Marta. Il Papa ha inoltre messo in guardia dall’essere «cristiani da salotto» senza il coraggio anche di «dare fastidio alle cose troppo tranquille». Alla Messa, concelebrata con il cardinale Peter Turkson e mons. Mario Toso, presidente e segretario di “Giustizia e Pace”, ha preso parte un gruppo di dipendenti del dicastero e della Radio Vaticana.

Tutta la vita di Paolo è stata «una battaglia campale», una «vita con tante prove». Papa Francesco ha incentrato la sua omelia sull’Apostolo delle Genti, che, ha detto, passa la sua vita di «persecuzione in persecuzione», ma non si scoraggia. Il destino di Paolo, ha sottolineato, «è un destino con tante croci, ma lui va avanti; lui guarda il Signore e va avanti».

«Paolo dà fastidio: è un uomo che con la sua predica, con il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio, perché proprio annunzia Gesù Cristo e l’annunzio di Gesù Cristo alle nostre comodità, tante volte alle nostre strutture comode - anche cristiane, no? - dà fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più avanti, più avanti… Che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o nelle strutture caduche, queste cose, no? Il Signore… E Paolo, predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché lui aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di compromesso. No! La verità: avanti! L’annunzio di Gesù Cristo: avanti!».

Certo, ha osservato Papa Francesco, San Paolo «era un uomo focoso». Ma qui non si tratta solo del suo temperamento. E’ il Signore che «si immischia in questo», in questa battaglia campale. Anzi, ha continuato, è proprio il Signore che lo spinge «ad andare avanti», a dare testimonianza anche a Roma.

«Fra parentesi, a me piace che il Signore si preoccupi di questa diocesi, fin da quel tempo… Siamo privilegiati! E Lo zelo apostolico non è un entusiasmo per avere il potere, per avere qualcosa. E’ qualcosa che viene da dentro, che lo stesso Signore lo vuole da noi: cristiano con zelo apostolico. E da dove viene questo zelo apostolico? Viene dalla conoscenza di Gesù Cristo. Paolo ha trovato Gesù Cristo, ha incontrato Gesù Cristo, ma non con una conoscenza intellettuale, scientifica - quello è importante, perché ci aiuta - ma con quella conoscenza prima, quella del cuore, dell’incontro personale».

Ecco cosa spinge Paolo ad andare avanti, «ad annunziare Gesù sempre». E ha aggiunto: «E’ sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù», annunciando Gesù «le conseguenze sono queste». Il fervore apostolico, ha sottolineato, si capisce solo «in un’atmosfera d’amore». Lo zelo apostolico, ha detto ancora, «ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia». E Paolo «aveva questa sana pazzia». Il Papa ha dunque invitato tutti i fedeli a chiedere allo Spirito Santo che faccia crescere in noi lo zelo apostolico che non deve appartenere solo ai missionari. D'altro canto, ha avvertito, anche nella Chiesa ci sono «cristiani tiepidi», che «non sentono di andare avanti».

«Anche ci sono i cristiani da salotto, no? Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annunzio e il fervore apostolico. Oggi possiamo chiedere allo Spirito Santo che ci dia questo fervore apostolico a tutti noi, anche ci dia la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. Tanto bisogno ha la Chiesa di questo! Non soltanto in terra lontana, nelle chiese giovani, nei popoli che ancora non conoscono Gesù Cristo, ma qui in città, in città proprio, hanno bisogno di questo annuncio di Gesù Cristo. Dunque chiediamo allo Spirito Santo questa grazia dello zelo apostolico, cristiani con zelo apostolico. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: ‘Coraggio’!».

Alessandro Gisotti - Radio Vaticana