08/11/15

I nostri deserti - Madeleine Delbrêl

Quando ci si ama, si vuol stare insieme
e quando si è insieme ci si desidera parlare.
Quando ci si ama, è penoso
avere sempre gente intorno.
Quando ci si ama, si vuole ascoltare l'altro,
solo,
senza che voci estranee ci vengano a turbare.
Per questo coloro che amano Dio
hanno sempre sognato il deserto,
per questo a coloro che l'amano
Dio non può rifiutarlo.
E sono sicura, mio Dio, che Tu mi ami
e che in questa vita così ostacolata,
stretta tutt'intorno dalla famiglia,
dagli amici e da tutti gli altri,
non può mancare quel deserto
in cui ti si può incontrare.
Non si arriva mai al deserto
senza avere attraversato molte cose,
senza essere affaticati da una lunga strada,
senza strappare i propri occhi al loro orizzonte abituale.
Si guadagnano i deserti, non si regalano.
I deserti della nostra vita, noi li strapperemo
al segreto delle nostre ore umane,
se non faremo violenza alle nostre abitudini,
alle nostre pigrizie.
E' difficile,
ma essenziale al nostro amore.
Lunghe ore di sonnolenza non valgono dieci minuti
di sonno vero. 

Così è della solitudine con Te.
Ore di quasi solitudine
sono per l'anima un riposo minore
che un tuffo istantaneo nella Tua presenza.
Non si tratta di imparare l'ozio.
Bisogna imparare a essere soli
ogni volta che la vita ci riserva una pausa.
E la vita è piena di pause,
che noi possiamo scoprire o sprecare.
Nella più pesante e grigia giornata,
quale splendida gioia per noi la previsione
di tutti questi incontri sgranati...
Quale gioia sapere che noi potremo al tuo solo volto
levare gli occhi, mentre la farinata diventerà densa,
mentre crepiterà il telefono occupato,
mentre, alla fermata, attenderemo l'autobus in ritardo,
mentre saliremo le scale,
mentre andremo a cercare,
in fondo al viale del giardino,
ciuffi di prezzemolo per condire l'insalata.
Che straordinaria passeggiata,
sarà per noi questa sera
il ritorno in metrò,
quando s'intravedranno appena
le persone incrociate sul marciapiede.
Quali "vantaggi" per te sono i nostri ritardi,
quando si attende un marito, degli amici e dei figli.
Ogni fretta di ciò che non arriva è molto spesso
il segno di un deserto.
Ma i nostri deserti hanno rudi divieti,
non fossero che le nostre impazienze
o le nostre fantasticherie vagabonde
o il nostro torpore.
Perché noi siamo fatti così,
che non possiamo preferirti senza un minimo di lotta,
e Tu, nostro Diletto,
sarai sempre messo da noi sulla bilancia
con questo fascino,
con questa ossessione logorante
delle nostre quisquilie. 


Madeleine Delbrêl   



23/10/15

Il popolo che camminava nelle tenebre... - papa Francesco


Omelia di papa Francesco al Madison Square Garden - New York

25 settembre 2015


Ci troviamo nel Madison Square Garden, luogo emblematico di questa città, sede di importanti incontri sportivi, artistici, musicali, che raduna persone provenienti da diverse parti, e non solo di questa città, ma del mondo intero. In questo luogo che rappresenta le diverse facce della vita dei cittadini che si radunano per interessi comuni, abbiamo ascoltato: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). 
Il popolo che camminava, il popolo in mezzo alle sue attività, alle sue occupazioni quotidiane; il popolo che camminava carico dei suoi successi ed errori, delle sue paure e opportunità; quel popolo ha visto una grande luce. Il popolo che camminava con le sue gioie e speranze, con le sue delusioni e amarezze, quel popolo ha visto una grande luce.
Il Popolo di Dio è chiamato in ogni epoca a contemplare questa luce. Luce che vuole illuminare le nazioni: così, pieno di giubilo, lo proclamava l’anziano Simeone. Luce che vuole giungere in ogni angolo di questa città, ai nostri concittadini, in ogni spazio della nostra vita.
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce». Una delle caratteristiche del Popolo credente passa per la sua capacità di vedere, di contemplare in mezzo alle sue “oscurità” la luce che Cristo viene a portare.

Il popolo credente che sa guardare, che sa discernere, che sa contemplare la presenza viva di Dio in mezzo alla sua vita, in mezzo alla sua città. Con il profeta oggi possiamo dire: il popolo che cammina, respira e vive dentro lo “smog” ha visto una grande luce, ha sperimentato un aria di vita.
Vivere in una città è qualcosa di piuttosto complesso: un contesto multiculturale con grandi sfide non facili da risolvere. Le grandi città ci ricordano la ricchezza nascosta nel nostro mondo: la varietà di culture, tradizioni e storie. La varietà di lingue, di vestiti, di cibi. Le grandi città diventano poli che sembrano presentare la pluralità dei modi che noi esseri umani abbiamo trovato di rispondere al senso della vita nelle circostanze in cui ci trovavamo. A loro volta, le grandi città nascondono il volto di tanti che sembrano non avere cittadinanza o essere cittadini di seconda categoria. Nelle grandi città, nel rumore del traffico, nel “ritmo dei cambiamenti”, rimangono coperte le voci di tanti volti che non hanno “diritto” alla cittadinanza, non hanno diritto a far parte della città – gli stranieri, i loro figli (e non solo) che non ottengono la scolarizzazione, le persone prive di assistenza medica, i senzatetto, gli anziani soli – confinati ai bordi delle nostre strade, nei
nostri marciapiedi in un anonimato assordante. Ed entrano a far parte di un paesaggio urbano che lentamente diventa naturale davanti ai nostri occhi e specialmente nel nostro cuore.
Sapere che Gesù continua a percorrere le vostre strade, mescolandosi vitalmente al suo popolo, coinvolgendosi e coinvolgendo le persone in un’unica storia di salvezza, ci riempie di speranza, una speranza che ci libera da quella forza che ci spinge ad isolarci, a ignorare la vita degli altri, la vita della nostra citta. Una speranza che ci libera da “connessioni” vuote, dalle analisi astratte, o dal bisogno di sensazioni forti. Una speranza che non ha paura di inserirsi agendo come fermento nei posti dove Ci tocca vivere e agire. Una speranza che ci chiama a guardare in mezzo allo “smog” la presenza di Dio che continua a camminare nella nostra città. Perché Dio è nella città.
Com’è questa luce che passa per le nostre strade? Come trovare Dio che vive con noi in mezzo allo “smog” delle nostre città? Come incontrarci con Gesù vivo e operante nell’oggi delle nostre città multiculturali?
Il profeta Isaia ci farà da guida in questo “imparare a guardare”. Ha parlato della luce, che è Gesù. E ora ci presenta Gesù come «Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (9,5). In questo modo, ci introdurrà nella vita del Figlio, perché sia anche la nostra vita.
Consigliere mirabile
I Vangeli ci narrano come tanti vanno a chiedergli: Maestro, che cosa dobbiamo fare?... Il primo movimento che Gesù genera con la sua risposta è proporre, incitare, motivare. Propone sempre ai suoi discepoli di andare, di uscire. Li spinge ad andare incontro agli altri, dove realmente sono e non dove ci piacerebbe che fossero. Andate, una, due, tre volte, andate senza paura, andate senza repulsione, andate e annunciate questa gioia che è per tutto il popolo.
Dio potente. In Gesù Dio si è fatto Emmanuel, il Dio con noi, il Dio che cammina al nostro fianco, che si è mescolato con le nostre cose, nelle nostre case, con i nostri “tegami”, come amava dire santa Teresa di Gesù.

Padre per sempre. 
Nulla e nessuna potrà separaci dal suo Amore. Andate e annunciate, andate e vivete che Dio è in mezzo a voi come un Padre misericordioso che esce ogni mattina e ogni sera per vedere se suo figlio torna a casa, e appena lo vede venire corre ad abbracciarlo. Questo è bello. Un abbraccio che vuole accogliere, vuole purificare ed elevare la dignità dei suoi figli. Padre che nel suo abbraccio è buona notizia per i poveri, sollievo per gli afflitti, libertà per gli oppressi, consolazione per i tristi (cfr Is 61,1).

Principe della pace.
Andare verso gli altri per condividere la buona notizia che Dio è nostro Padre. Che cammina al nostro fianco, ci libera dall’anonimato, da una vita senza volti, una vita vuota, e ci introduce alla scuola dell’incontro. Ci libera dalla guerra della competizione, dell’autoreferenzialità, per aprirci al cammino della pace. Quella pace che nasce dal riconoscimento dell’altro, quella pace che emerge nel cuore guardando specialmente al più bisognoso come a un fratello.
Dio vive nelle nostre città, la Chiesa vive nelle nostre città. E Dio e la Chiesa che vivono nelle nostre città vogliono essere fermento nella massa, vogliono mescolarsi con tutti, accompagnando tutti, annunciando le meraviglie di Colui che è Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce», e noi, cristiani, siamo
testimoni.

papa Francesco

www.vatican.va

11/10/15

Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice - Sal 115

Alleluia.
Amo il Signore perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l'orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.
Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi.
Mi opprimevano tristezza e angoscia
e ho invocato il nome del Signore:
«Ti prego, Signore, salvami».
Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge gli umili:
ero misero ed egli mi ha salvato.
Ritorna, anima mia, alla tua pace,
poiché il Signore ti ha beneficato;
egli mi ha sottratto dalla morte,
ha liberato i miei occhi dalle lacrime,
ha preservato i miei piedi dalla caduta.
Camminerò alla presenza del Signore
sulla terra dei viventi.
 

Alleluia.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
Ho detto con sgomento:
«Ogni uomo è inganno».
Che cosa renderò al Signore
per quanto mi ha dato?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore,
davanti a tutto il suo popolo.
Preziosa agli occhi del Signore
è la morte dei suoi fedeli.
Sì, io sono il tuo servo, Signore,
io sono tuo servo, figlio della tua ancella;
hai spezzato le mie catene.
A te offrirò sacrifici di lode
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
e davanti a tutto il suo popolo,
negli atri della casa del Signore,
in mezzo a te, Gerusalemme.


10/10/15

L'amicizia - Kahlil Gibran


 E un giovinetto disse: Parlaci dell'Amicizia.
Ed egli rispose, dicendo:


Il vostro amico è il vostro bisogno saziato.
E' il campo che seminate con più amore e che mietete con riconoscenza.
E' la vostra mensa e il vostro focolare.
Poiché, affamati, vi rifugite in lui e lo ricercate per la vostra pace.
Quando il vostro amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approvazione, né abbiate paura di contraddirlo.
E quando egli tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore: poiché nell'amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni attesa nasce in silenzio, e viene condiviso con inesprimibile gioia.
Se vi separate dall'amico non rattristatevi: poiché ciò che maggiormente amate in lui può meglio risplendere nell'assenza, così come una vetta appare allo scalatore più chiara dalla pianura.
 E non vi sia nell'amicizia altro scopo che l'approfondimento dello spirito.
Poiché l'amore che non cerca in tutti i modi lo schiudersi del proprio mistero non è amore, ma una rete lanciata a caso, che afferra solo ciò che è vano.
 E il meglio di voi sia per il vostro amico.
Se lui dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena.
Quale amico è il vostro, pe cercarlo solo nelle ore di morte?
Cercatelo sempre nelle ore di vita.
Poiché lui può colmare ogni vostro bisogno, ma non il vostro vuoto.
E nella dolcezza dell'amicizia fate che vi siano il riso e la condivisione dei piaceri.
 Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore ritrova il suo mattino e si ristora.


Kahlil Gibran


22/09/15

Restano tre cose - Fernando Pessoa



Di tutto restano tre cose:
la certezza che stiamo sempre iniziando;
la certezza che abbiamo bisogno di continuare;
la certezza che saremo interrotti prima di finire.

Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione, un nuovo cammino;
della caduta un passo di danza;
della paura, una scala;
del sogno, un ponte;
del bisogno, un incontro.

Fernando Pessoa



 

19/08/15

Sessantacinque


Se si potesse supporre che Dio può sbagliare, direi che tutto ciò è capitato a me per errore. Ma forse Dio si compiace di utilizzare le scorie, gli scarti, i rifiuti.
Dopotutto, anche se il pane dell'ostia fosse ammuffito, diventerebbe ugualmente il corpo di Cristo dopo che il prete lo ha consacrato.

Simone Weil



 

13/06/15

Il chicco di grano e il granello di senape - XI T.O.

 Mc 4, 26-34
 
Gesù diceva ai suoi apostoli: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 
 dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.


Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui.

Dopo il tempo pasquale e le due domeniche del tempo Ordinario sulle quali sono state innestate due feste teologiche, quella della Triunità di Dio e quella del Corpo e Sangue di Cristo, la chiesa ci fa riprendere la lettura cursiva del vangelo secondo Marco, quello proprio del ciclo liturgico B.
Nel vangelo più antico Gesù pronuncia un discorso in parabole come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro” (cf. Mc 3,31-32; 4,11). Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, quelli che narrava nelle parabole.
Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli (cf. Mc 4,1-20) e i due brevi detti sulla lampada “che viene” e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra altre due parabole. Egli afferma che “così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e muore; in realtà, però, genera vita, che diventa una pianta e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura niente. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio. Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo! Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.
 
Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo intelligente e sapiente, e anche in questa parabola le sue parole mostrano come egli non fosse mai distratto, ma tutto e tutti vedesse e pensasse. Egli sa bene che il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale; eppure anch’esso, se seminato in terra, diventa un albero che si impone. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare un albero tanto rigoglioso: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani… Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature.
Queste parabole ci devono interrogare sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma pensiamoci un momento: chi pronunciava queste parabole era un oscuro laico di Galilea, non sacerdote e neppure rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza cultura; una realtà piccola e oscura ma significativa. Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati…
 
Enzo Bianchi
 
tratto da   www.monasterodibose.it



12/06/15

Il cuore di Dio (Os 11,1.3-4.8-9 )


Quando Israele era fanciullo,
io l’ho amato
e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
A Èfraim io insegnavo a camminare
tenendolo per mano,
ma essi non compresero
che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore,
ero per loro
come chi solleva un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di lui
per dargli da mangiare.
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Èfraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò da te nella mia ira.

dal Libro del profeta Osea




04/06/15

E' proibito - Pablo Neruda

È proibito
piangere senza imparare,
svegliarti la mattina senza sapere che fare
avere paura dei tuoi ricordi.
È proibito non sorridere ai problemi,
non lottare per quello in cui credi
e desistere, per paura.
Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà.

È proibito non dimostrare il tuo amore,
fare pagare agli altri i tuoi malumori.
È proibito abbandonare i tuoi amici,
non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto
e chiamarli solo quando ne hai bisogno.
È proibito non essere te stesso davanti alla gente,
fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.

È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.

È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perche’ le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
Dimenticare il passato e farlo scontare al presente.
È proibito non cercare di comprendere le persone,
pensare che le loro vite valgono meno della tua,
non credere che ciascuno tiene il proprio cammino
nelle proprie mani.

È proibito non creare la tua storia,
non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te,
non comprendere che ciò che la vita ti dona,
allo stesso modo te lo può togliere.
È proibito non cercare la tua felicita’,
non vivere la tua vita pensando positivo,
non pensare che possiamo solo migliorare,
non sentire che, senza di te,
questo mondo non sarebbe lo stesso.


Pablo Neruda





31/05/15

Elevazione alla SS. Trinità - Elisabetta della Trinità


Mio Dio, Trinità che adoro,
aiutatemi a dimenticarmi interamente,
per fissarmi in voi, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell'eternità;
che nulla possa turbare la mia pace o farmi uscire da voi, mio immutabile Bene,
ma che ogni istante mi porti più addentro nella profondità del vostro mistero.
Pacificate la mia anima,
fatene il vostro cielo, la vostra dimora preferita e il luogo del riposo;
che io non vi lasci mai solo, ma sia là tutta quanta, tutta desta nella mia fede,
tutta in adorazione, tutta abbandonata alla vostra azione creatrice.

O mio amato Cristo, crocifisso per amore,
vorrei essere una sposa del vostro Cuore;
vorrei coprirvi di gloria e vi chiedo di rivestirmi di Voi stesso,
di immedesimare la mia anima con tutti i movimenti della vostra Anima,
di sommergermi, d'invadermi, di sostituirvi a me,
affinché la mia vita non sia che un'irradiazione della vostra vita.
Venite nella mia anima come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore.
O Verbo Eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarvi;
voglio farmi tutta docilità per imparare tutto da voi.
Poi, attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze,
voglio fissare sempre Voi e restare sotto la vostra grande luce.
O mio Astro amato,
incantatemi, perché non possa più uscire dallo splendore dei vostri raggi.

O Fuoco consumatore, Spirito d'amore,
scendete sopra di me,
affinché si faccia della mia anima come un'incarnazione del Verbo,
ed io sia per Lui un'aggiunta d'umanità nella quale Egli rinnovi tutto il suo mistero.

E Voi, o Padre,
chinatevi sulla vostra piccola creatura,
copritela con la vostra ombra, e non guardate in lei che il Diletto
nel quale avete riposto tutte le vostre compiacenze.

O miei TRE, mio Tutto,
mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo,
mi consegno a Voi come una preda.
Seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in Voi,
in attesa di venite a contemplare, nella vostra luce,
l'abisso delle vostre grandezze.


Beata Elisabetta della Trinità 



Andrej Rublëv - La Trinità


29/05/15

Il deserto nella città - Carlo Carretto

Fu al diciasettesimo piano di un immenso building popolare, dove mi avevano dato appuntamento dei giovani cinesi per un incontro.
Da ore si parlava del Vangelo, di impegno, di preghiera.
«Fratel Carlo», mi chiese uno studente cinese di architettura che viveva ad Hong Kong ma aveva i genitori nella Repubblica Popolare nelle vicinanze di Shanghai, «ho letto le tue Lettere dal deserto e ho desiderato conoscerti. Tu sei talmente entusiasta del tempo che hai trascorso laggiù nel Sahara che puoi dare l'impressione della insostituibilità di quella solitudine. Io non posso andare laggiù. Che cosa devo fare? Devo trovare il mio Dio qui nella babele della mia città. Quale strada devo percorrere? E' possibile? E se è possibile ti chiedo una cosa: perché non scrivi per noi un libro che ci aiuti a trovare il nostro deserto qui nella città?...». (...)
Fuori dalla finestra vedevo l'ammasso di grattacieli di Hong Kong che incominciavano ad accendere le luci perché era sera.
Mi ricordai che la stessa scena di grattacieli illuminati l'avevo vista la prima volta a New York. I grattacieli illuminati sembrano diamanti.
Pare impossibile che le cose più brutte diventino così vive e belle investite dalla luce.
No, non c'è niente di veramente negativo. Anche la città, sentina di corruzione e giungla d'asfalto, può avere la sua luce e la sua "trasparenza".
«Il deserto nella città...» continuavo a ripetere tra me guardando fuori dalla finestra e spingendomi lontano, lontano fino all'origine di quella parola "deserto" che era stata depositata nel mio cuore nel più bel momento della mia vita. Ripensai in quel momento alle notti sahariane, alle dune, alle interminabili piste che avevo percorso alla ricerca dell'intimità con Dio, alle stelle indimenticabili che trapuntavano la dolcezza delle notti africane, simbolo profondo delle notti in cui la mia fede era immersa e in cui mi sentivo così bene e così al sicuro.
Il deserto vero, quello di sabbia e di stelle, era stato il mio primo amore e non mi sarei più staccato da esso se non fosse stata l'obbedienza a richiamarmi lontano.
«Fratel Carlo, hai conosciuto l'assoluto di Dio, ora devi conoscere l'assoluto dell'uomo».
Ed ero ripartito alle ricerca degli uomini.
Ero frastornato e dovetti impiegare un po' di tempo per ritrovare il mio equilibrio e la mia gioia profonda. Ma poi Dio mi fece sperimentare che non c'era "luogo" privilegiato dove Lui abitava, ma che il Tutto era "luogo" della Sua abitazione e che ovunque tu lo potevi trovare.
«Fare il deserto nella propria vita» mi dicevo, allontanandomi a piccoli passi dalla stabilità di quella solitudine e camminando verso un mondo totalmente diverso. Non bastava.
Mi ci voleva Hong Kong per farmi dire che anche la città aveva la possibilità del deserto e che anche i grattacieli potevano diventare luminosi come diamanti.
Bastava avvolgerli nel buio della fede in modo che le luci apparisero come stelle nella notte.


* * * * *

(...) Ed eccomi qui a rispondere a chi mi ha chiesto di aiutarlo a cercare in città l'unione con Dio, l'intimità con l'Assoluto, la pace e la gioia del cuore, l'Invisibile presente, la realtà divina, l'Eterno.
Intendiamoci subito: non è cosa facile!
Noi viviamo in un secolo tragico in cui gli uomini, anch i più forti, sono tentati nella fede.
E' un'epoca di idolatria, di angosce, di paura; un'epoca in cui la potenza e la ricchezza hanno oscurato nello spirito dell'uomo la richiesta fondamentale del primo comandamento della Legge: «Amerai Dio con tutto il tuo cuore...».
Come fare a vincere queste tenebre che opprimono l'uomo moderno? Come affrontare questo demone del mezzogiorno che attacca il credente nella maturità della sua esistenza?
Non dubito nel dare una risposta che ho provato sulla mia pelle in un momento difficile della mia vita:
Deserto... deserto... deserto!
Quando pronuncio questa parola sento dentro di me che tutto il mio essere si scuote e si mette in cammino, anche restando materialmente immobile là dove si trova.
E' la presa di coscienza che è Dio che salva, che senza di Lui sono «nell'ombra di morte» e che per uscire dalle tenebre devo mettermi sul cammino che Lui stesso mi indicherà.
E' il cammino dell'Esodo, è la marcia del popolo di Dio dalla schiavitù degli idoli alla libertà della Terra promessa, alla luminosità e alla gioia del Regno. E questo attraverso il deserto.
Questa parola, "deserto", è ben di più che una espressione geografica che ci richiama alla mente un pezzo di terra disabitato, assetato, arido e vuoto di presenze.
Per chi si lascia cogliere dallo Spirito che anima la Parola di Dio, "deserto" è la ricerca di Dio nel silenzio, è un ponte sospeso gettato dall'anima innamorata di Dio sull'abisso tenebroso del proprio spirito, sui profondi crepacci della tentazione, sui precipizi insondabili delle proprie paure che fanno ostacolo al cammino verso Dio.  (...)
Vi dicevo che la parola deserto significa ben di più di un semplice luogo geografico.
I russi che se ne intendono e che su questo ci sono maestri lo chiamano "pustinia".
"Pustinia" può significare deserto geografico, ma nello stesso tempo può significare luogo dove si sono ritirati i padri del deserto, può significare eremo, luogo tranquillo dove ci si ritira per torvare Dio nel silenzio e nella preghiera, dove - come dice una mistica russa che vive in America, Caterina de Hueck Doherty - «si può elevare verso Dio le braccia della preghiera e della penitenza in espiazione, in intercessione, in riparazione dei propri peccati e per quelli dei fratelli. Il deserto è il luogo dove possiamo riprendere coraggio, dove pronunciare le parole della verità ricordandoci che Dio è verità. Il deserto è il luogo dove ci purifichiamo e ci prepariamo ad agire come toccati dal carbone ardente che l'angelo pose sulle labbra del Profeta».
In ogni caso, e qui è la caratteristica che voglio sottolineare, "pustinia" per i russi, e per noi che siamo sulla stessa linea spirituale dell'esperienza mistica, segue l'uomo là dove si trova e non lo abbandona quando di deserto ha più bisogno.
Se l'uomo non può raggiungere il deserto, il deserto può raggiungere l'uomo.
Ecco perché si dice: «fare deserto nella città».
Fatti una piccola "pustinia" nella tua casa, nel tuo giardino, nella tua soffitta. Non staccare il concetto di deserto dai luoghi frequentati dagli uomini, prova a pensare, e sopratutto a vivere, questa espressione veramente esaltante: «il deserto nel cuore della città».
Il padre de Foucauld, che fu uno dei più vivaci ricercatori della spiritualità moderna, pose il suo eremitaggio a Beni-Abbès in un contesto tale da rendersi con facilità presente a Dio e presente agli uomini nello stesso momento. E quando volle costruirvi attorno un alto muro, giunto a mezzo metro lo interruppe, per permettere agli abitanti dell'oasi di oltrepassarlo e venirlo a trovare.
Il muro rimase come "segno" del suo monastico isolamento. Il deserto occupò più profondamente la sua vita.
Sì, dobbiamo fare il deserto nel cuore dei luoghi abitati.
E' un modo concreto per aiutare l'uomo di oggi.
E' un problema attuale. Se ne parla con insistenza. E' nell'aria.
Un mio amico, Pierre Delfieux, che fu con me per due anni nel Sahara, ha iniziato a Parigi una forma di vita religiosa basata proprio sull'impegno di vivere nella grande città l'ideale monasticodi lavoro, preghiera, silenzio, liturgia, carità.
Non dubito quanto affermo che in pochi decenni ogni città  vedrà il miracolo di queste fondazioni "di urto" e lo splendore di uomini e di donne che sanno trasformare Babele in Gerusalemme e la "deportazione" in luogo di preghiera.


Carlo Carretto
 tratto da: "Il deserto nella città"