29/09/13

Lazzaro e il ricco epulone - XXVI T.O.

Lc 16, 19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: 
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».


Possiamo leggere questo testo da varie prospettive e recepirlo secondo vari elementi di lettura. 
Il testo ci pone di fronte alla mancata carità di un ricco verso un povero, che egli non nota nemmeno. 
Possiamo iniziare a riflettere a partire da un momento ben preciso di questo racconto: quando il ricco muore e stando tra i tormenti degli inferi, «alzò gli occhi e vide». 
Ecco, è il momento in cui lui vede; è il momento della chiarezza, il momento del discernimento. 
Curiosamente, se noi andiamo a vedere bene, la storia prende poche righe e poi tutto il problema ruota attorno a cercare di capire che cosa è veramente successo. 

C’è un uomo ricco che veste in una certa maniera, mangia in una certa maniera, e c’è un povero che sta aspettando qualche cosa da lui, e non arriva; che sta cercando di sopravvivere ma solamente i cani hanno pietà di lui. Muoiono, e da quel momento comincia la lettura del fatto. 
Già di questo noi dovremmo far tesoro, perché la nostra vita è qualcosa di piccolo, di niente, a confronto dell’eternità che ci aspetta. La visione verso cui andiamo, il punto d’arrivo della nostra esistenza è il Paradiso, il Cielo: questo è ciò che Dio ha programmato per noi, ciò che Dio vuole per noi… o un Cielo mancato, un Paradiso che non c’è, che si vede solamente da lontano, secondo anche gli elementi narrativi, antropomorfici di questo testo. Ma il punto è che c’è un momento in cui si vede: la visio; c’è un momento in cui uno è capace di discernere quello che è successo in quel breve momento che è stato la vita. Ma tutto quello che è stato nel breve momento della nostra vita, decide dell’eternità! Noi non capiamo le cose se non guardandole dal Paradiso o dall’inferno… se non guardandole secondo il loro esito definitivo. 
Abbiamo un grande problema nella nostra esistenza, quello – molto spesso – di non capire che cosa abbiamo da fare veramente. La nostra infelicità è la storia delle nostre scelte sbagliate, la nostra incompiutezza è la storia delle strade non azzeccate, e delle nostre opzioni scelte con grande cecità: il “non aver visto”, l’esserci sperperati e aver sprecato molto del buono della nostra vita. Tante volte le storie non sono così spaventosamente drammatiche, semplicemente non sono “piene”, non sono “compiute”. 
E quando tutto questo è chiaro? Come facciamo noi a salvarci dal dramma di questo “ricco epulone”? Dal suo mancato discernimento, dal suo non aver visto che cosa si stava andando a procurare? E questo viene sottolineato anche nella parte finale della parabola, in cui quest’uomo, ormai all’inferno, chiede che i suoi fratelli vengano avvisati, che qualcuno venga dal Cielo… Qualcuno deve venire dall’ "Oltre” per dirmi che cosa sto facendo, perché solamente nell’ "Oltre”, solo oltre questa vita ci sta la luce, la compiutezza di quello che io sto vivendo, il senso di quello che sto vivendo. E' la realtà di ogni atto umano che ha la sua compiuta spiegazione nel suo esito, nel “dove va a finire”. 
Quando S. Ignazio insegna il principio del discernimento, tra le varie cose che insegna, è di chiedersi: “questo pensiero dove mi porta?” Mi porta a Dio o mi porta a ripiegarmi su me stesso? Qual è l’esito di ogni cosa che facciamo? Dobbiamo chiederci: ma questo mi porta al Paradiso o mi porta all’Inferno? Con questa scelta che sto per mettere in atto in questo tempo della mia esistenza, mi ci potrò presentare davanti a Dio o me ne dovrò vergognare? E’ qualcosa che sa di “eternità” o sa di “occasionalità”? Si vive in funzione di cosa? 
Io cammino, ma è la mia meta quello che da senso ai miei passi. In questa parabola noi capiamo una cosa: che gli atti umani hanno uno sfondo eterno, che ci piaccia oppure no. Noi con questo ci dobbiamo fare i conti: che quello che io faccio, avrà, comunque, un “rimbalzo” eterno, mi tornerà indietro nell’eternità, in una qualche maniera. C’è da fermarsi, da complicarsi un po’ il cuore, di fronte a queste cose, “problematizzarsi” un po’, perché ci serve, qualche volta, di essere un pochino meno spensierati… Come viene detto nella prima Lettura della Liturgia di questa domenica (Amos 6, 1a. 4-7) , in cui si parla degli “spensierati di Sion”. Come facciamo a uscire dalla condizione degli spensierati? di coloro che non sanno pensare, di coloro che non sanno ragionare, di coloro che non sanno vedere? Questo povero che sta qui è la mia occasione per andarmene in Paradiso. Non è una “scocciatura” che prima si scansa e meglio è… che una volta che è morto: per fortuna! Perché era solamente un maleodorante cencioso povero, alla mia porta. No: era la mia porta per il Paradiso! Come mai non l’ho capito? Solamente in questo momento, che sollevo gli occhi nel tormento, mentre io constato l’esito di ciò che sto vivendo… io finalmente capisco il vero senso di quello che facevo. 

E’ chiaro che questo testo ha un suo uso: Gesù parla ai farisei, a coloro che non stanno accogliendo, questa povertà di Dio che hanno davanti è Lui, questa mendicanza di Dio che sta cercando il loro cuore, sta cercando una briciola della loro fede, della loro attenzione: ci sono questi uomini che stanno “banchettando” con le cose di Dio… ma non si rendono conto che proprio Dio è davanti a loro. E il benedetto Figlio di Dio, sta bussando alla loro porta… E continuano a vivere delle cose sante che sono le più ricche, le più belle, le più gustose, senza averle capite veramente. 
Infatti questo si capisce nella frase finale «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»: ovverosia, lo straordinario di Dio diventa inutile, e soprattutto la Risurrezione di Cristo diventa inutile. 
Questo non è un problema dei farisei di duemila anni fa’, questo è un problema di tutti noi, che spesso siamo “banchettatori” di cose, sia materiali ma anche spirituali, e non ci rendiamo conto che dobbiamo misurarci con qualcosa che è più grande della morte, più grande del “momento”. Dobbiamo aprirci alla profondità dei nostri atti, alla serietà di quello che facciamo, ma non in senso repressivo e colpevolizzante! 

Questa Parabola non ha il senso di farci sentire tutti in colpa per quello che non facciamo, ma perché tutti ci rendiamo conto di quanto di meraviglioso abbiamo da fare! Di quanto è grande la nostra vita, di quanto è importante ciò che ci è dato e di come ogni atto è una porta aperta sul Paradiso. Si può vivere nel viaggio verso il Paradiso! Che viaggio è la mia vita? Dove mi sta portando? Questa parola cerca la nostra Verità: è una Parola che, se non l’ascoltiamo, può venire anche Cristo risorto a parlarci, ma non ci servirà a niente. Se non ascoltiamo questa nostra Verità profonda che è la nostra grandezza, il fatto di vivere non solo per “questo momento”, ma per qualcosa che non ha termine, qualcosa che è oltre il tempo, qualcosa che è la nostra “dignità immensa”. Come faremo noi a capire la volontà di Dio? Dovremmo vivere secondo l’eternità, leggere le cose secondo l’eternità. 

don Fabio Rosini



26/09/13

Camminare sotto la grazia - papa Francesco


«Non siete più sotto la Legge ma sotto la grazia»  (Rm 6,14)



lunedì 17 giugno 2013



25/09/13

Contemplazione sulle strade - Carlo Carretto

Charles de Foucauld un giorno ebbe a dire: «Se la vita contemplativa fosse solo possibile dietro le mura d'un convento o nel silenzio del deserto, dovremmo, per essere giusti, dare un piccolo convento ad ogni madre di famiglia e il lusso di un po' di deserto ad un povero manovale che è obbligato a vivere nel chiasso di una città per guadagnarsi duramente il pane».
Non è così?
Fu la visione stessa della realtà in cui vive molta parte dell'umanità povera a determinare in lui la crisi centrale della sua vita, quella crisi che lo doveva portare così lontano dalla sua prima concezione di vita religiosa.
Charles de Foucauld , come sapete, era trappista e aveva scelto la trappa più povera che esistesse, quella di Akbes in Siria. 
Un giorno il suo superiore lo mandò a vegliare un morto, vicino al convento. Era un arabo cristiano deceduto in una povera casa.  Quando fratel Carlo si trovò nel tugurio del morto e vide attorno al cadavere la vera povertà fatta di figli affamati e di una vedova indifesa, debole e senza alcuna sicurezza sul pane del giorno dopo, entrò in quella crisi spirituale che lo avrebbe fatto uscire dalla Trappa, cercando un quadro di vita religiosa così diverso dal primo.

«Noi che abbiamo scelto l'imitazione di Gesù e di Gesù crocifisso, siamo ben lontani dalle prove, dalle pene, dall'insicurezza e dalla povertà a cui sono sottoposte queste popolazioni.»
«Non voglio più un convento troppo stabile; voglio un convento piccolo come la casetta di un povero operaio che non è sicuro se domani troverà lavoro e pane e che partecipa con tutto il suo essere alla sofferenza del mondo».
«Oh, Gesù, un convento come la tua casa di Nazaret per annientarmi, scomparire come hai fatto Tu quando sei venuto fra noi».   (Charles De Foucauld, Ecrits spirituels)

E uscito dalla Trappa, costruirà la sua prima fraternità a Beni Abbes nel Sahara e poi a Tamanrasset, dove morirà trucidato dai Tuareg.
La "fraternità" doveva somigliare alla casa di Nazaret, quindi ad una delle molte case che tu incontri lungo le strade del mondo.
Ma allora aveva rinunciato alla contemplazione? Allora aveva affievolito il suo ardente spirito di preghiera? No; aveva fatto un passo avanti: aveva accettato di vivere la vita contemplativa lungo le strade, in un quadro di vita somigliante a quello di tutti gli uomini.
Ciò è ben più duro!
E Dio voglia che l'umanità faccia questo passo.
Per questo Charles De Foucauld è all'alba di un periodo nuovo, d'un periodo in cui molti si sforzeranno di fare la sintesi tra contemplazione e azione, attuando in una concretezza vitale il primo comandamento del Signore:  «Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso».
Contemplazione sulle strade: ecco l'impegno di domani per i piccoli fratelli, per tutti i poveri.


E incominciamo ad analizzare questo elemento "deserto", che dev'essere presente, specie oggi, nell'attuazione di un sì impegnativo programma. Quando si parla di deserto all'anima, quando si dice che il deserto deve essere presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel Sahara o nel deserto di Giudea, o dell'Alta Valle del Nilo.
E' certo che non tutti possono procurarsi questo lusso o attuare praticamente questo distacco dal vivere comune.  Il Signore mi ha condotto nel vero deserto per la durezza della mia pelle. Per me fu necessario così; e tanta sabbia non mi è bastata a raschiare la sporcizia della mia anima, come capitò alla marmitta di Ezechiele. 
Ma non per tutti c'è la stessa via. E se tu non potrai andare nel deserto, devi però "fare il deserto" nella tua vita spirituale.
Un'ora al giorno, un giorno al mese, otto giorni l'anno, devi abbandonare tutto e tutti e ritirarti solo con Dio. Se non cerchi questo, se non ami questo, non illuderti; non arriverai alla preghiera contemplativa; perché essere colpevole di non volersi - potendo - isolare per gustare l'intimità con Dio, è un segno che manca l'elemento primo del rapporto con l'Onnipotente: l'amore. E senza amore non c'è rivelazione possibile.
Ma il deserto non è il luogo definitivo; è una tappa. Perché, come ti dissi, la nostra vocazione è la contemplazione sulle strade. Lungo la via dobbiamo tornare dopo la pausa del deserto.
A me, questo, costa assai. E' così forte il desiderio di continuare a vivere qui per sempre, nel Sahara, che sento di già la sofferenza in previsione di un ordine dei superiori, che certamente verrà: "Fratel Carlo, parti per Marsiglia, parti per il Marocco, parti per il Venezuela, parti per Detroit..."
Devi tornare tra gli uomini, devi mescolarti a loro, devi vivere la tua intimità con Dio nel chiasso della loro città. Sarà più difficile; ma devi farlo. E non ti mancherà, per questo, la Grazia di Dio.
Ogni mattina prenderai la strada, dopo la S. Messa e la Meditazione, e andrai a lavorare in una bottega, in un cantiere; e quando tornerai la sera, stanco, come tutti gli uomini poveri costretti a guadagnarsi il pane, entrerai nella Cappellina della fraternità e resterai lungamente in adorazione; portando con te, alla preghiera, tutto quel mondo di sofferenza, di oscurità e sovente di peccato in mezzo al quale hai vissuto per otto ore, pagando la tua razione di pena e di fatica quotidiana.
Contemplazione sulle strade: è una bella frase, ma costa assai. Certo, sarebbe più facile e più dolce restare qui, nel deserto; ma sembra che Dio non voglia.
La voce stessa della Chiesa di fa sempre più sentire per indicare ai cristiani la realtà del Corpo Mistico e l'apostolato in esso, per richiamare alla carità vissuta, per invitare tutti ad un'azione, che partendo dalla contemplazione ritorna ad essa sul versante della testimonianza e della presenza tra gli uomini.
I muri dei conventi si fan sempre più sottili e più bassi; si moltiplicano coloro che vivono la verginità nel mondo; i laici stessi prendono coscienza della loro missione e cercano la loro spiritualità.
E' davvero l'alba di un mondo nuovo, al quale non parrebbe retorico dare come consegna "la contemplazione sulle strade" e gli esempi per attuarla.

Carlo Carretto

tratto da  "Lettere dal deserto"




21/09/13

L'amministratore disonesto - XXV T.O.

Lc 16, 10-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: 
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. 
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. 
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. 
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».


La parabola del fattore infedele si chiude con un messaggio sorprendente: l'uomo ricco loda il suo truffatore. Sorpreso a rubare, l'amministratore capisce che verrà licenziato e allora escogita un modo per cavarsela, un modo geniale: adotta la strategia dell'amicizia, creare una rete di amici, cancellando parte dei loro debiti. Con questa scelta, inconsapevolmente, egli compie un gesto profetico, fa ciò che Dio fa verso ogni uomo: dona e perdona, rimette i nostri debiti. Così da malfattore diventa benefattore: regala pane, olio, cioè vita, ai debitori. Lo fa per interesse, certo, ma intanto cambia il senso, rovescia la direzione del denaro, che non va più verso l'accumulo ma verso il dono, non genera più esclusione ma amicizia. 
Il personaggio più interessante della parabola, su cui fermare l'attenzione, è il ricco, figura di un Signore sorprendente: il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza, aveva puntato tutto sull'amicizia. 
Qui il Vangelo regala una perla: fatevi degli amici con la disonesta ricchezza perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne. Fatevi degli amici. Amicizia diventata comandamento, umanissimo e gioioso, elevata a progetto di vita, fatta misura dell'eternità. Il messaggio della parabola è chiaro: le persone contano più del denaro. Amici che vi accolgano nella casa del cielo: prima di Dio ci verranno incontro coloro che abbiamo aiutato, nel loro abbraccio riconoscente si annuncerà l'abbraccio di Dio, dentro un paradiso generato dalle nostre scelte di vita. 

Nessuno può servire due padroni. Non potete servire Dio e la ricchezza. Affermazione netta: il denaro e ogni altro bene materiale, sono solo dei mezzi utili per crescere nell'amore e nella amicizia. Sono ottimi servitori ma pessimi padroni. Il denaro non è in sé cattivo, ma può diventare un idolo e gli idoli sono crudeli perché si nutrono di carne umana, aggrediscono le fibre intime dell'umano, mangiano il cuore. Cominci a pensare al denaro, giorno e notte, e questo ti chiude progressivamente in una prigione. Non coltivi più le amicizie, perdi gli amici; li abbandoni o li sfrutti, oppure saranno loro a sfruttare la situazione. 
La parabola inverte il paradigma economico su cui si basa la società contemporanea: è il mercato che detta legge, l'obiettivo è una crescita infinita, più denaro è bene, meno denaro è male. Se invece legge comune fossero la sobrietà e la solidarietà, la condivisione e la cura del creato, non l'accumulo ma l'amicizia, crescerebbe la vita buona. Altrimenti nessun povero ci sarà che apra le porte della casa del cielo, che apra cioè fessure per il nascere di un mondo nuovo.

Ermes Ronchi

www.avvenire.it

19/09/13

La parrocchia e l'iniziazione cristiana - E. Bianchi


Intervista di Marco Guzzi ad Enzo Bianchi,  priore della Comunità monastica di Bose.

tratto da:   

"Ricominciare nell’anima, nella Chiesa, nel mondo"

La parrocchia: una comunità di estranei?

D: Nel tuo libro Il mantello di Elia scrivi: «Indubbiamente oggi è difficile discernere il dono della vita fraterna, perché viviamo in un tempo poco felice, in mezzo ad una generazione perversa e malvagia, che del termine “comunità” ha fatto uno scempio, svuotandolo di senso e annullandolo a forza di parlarne».
In che senso parli della nostra come di una generazione particolarmente perversa e malvagia, e in che senso ritieni che staremmo perdendo il significato più profondo e più vivo della parola “comunità”?

R: Quando parlo di generazione perversa e malvagia mi riferisco direttamente alle parole di Gesù, che connotava la sua generazione come perversa e malvagia, perché di fronte alla predicazione ascetica del Battista aveva risposto con un rifiuto, e di fronte alla predicazione di Gesù, condotta nella compagnia con gli uomini, ha risposto che lui era un mangione e un beone. Si tratta dunque di una generazione che pur di non ascoltare la verità svuota, contesta, consuma i messaggi che le vengono rivolti. Ma è pur vero che ogni generazione, di fronte alla verità, è definita perversa e malvagia dalle Scritture.
La parola comunità implica essenzialmente la comunione, la koinonìa, eppure è stata applicata in questi anni con una banalità tale da arrivare a essere svuotata completamente di senso, e la responsabilità è soprattutto dei cristiani. Ci sono dei giorni in cui sono tentato di cambiare il nome di “Comunità di Bose” con quello di “Monastero di Bose”. Poi mi suona un po’strano il nome “monastero”, perché significherebbe entrare in quell’ottica dell’esenzione rispetto alla chiesa, alla società e agli uomini, che non mi appartiene. E allora me lo impedisco.
Però in realtà la parola “comunità” che cosa richiama ormai alla mente della gente? Richiama i centri di servizio per gli emarginati, e in primo luogo per i tossicodipendenti. Ormai per la gente è questo una comunità. Ma penso all’uso che se ne è fatto in questi anni, in cui perfino un gruppetto di ragazzi doveva fare comunità, senza averne le possibilità reali, perché una comunità la possono creare soltanto uomini responsabili e soggetti a pieno titolo di rapporti, anche di rapporti economici. Questo abuso ha svuotato la tensione a riproporre la chiesa come comunità autentica, quella descritta negli Atti degli Apostoli, per i quali la comunità è koinonìa fraterna, è condivisione della vita, dei beni, delle speranze, delle angosce e dei drammi che informano la storia degli uomini. Condizione che si esprime nell’unanimità e nell’eucarestia, dove si forgia il corpo di Cristo.

D: Ti ponevo questa domanda proprio per iniziare una riflessione sulla crisi delle parrocchie. Tutte le parrocchie, appunto, si dicono comunità, e poi si scopre il più delle volte che non ci si conosce nemmeno per nome. Péguy riteneva che l’inizio di una rinascita del cristianesimo dovesse prendere le mosse da una rifondazione delle parrocchie, che effettivamente spesso manifestano una certa desolazione, un’incapacità di entusiasmo creativo e quindi di attrazione della gente. Viene da chiedersi che cosa abbia da dare al mondo, agli uomini che asfissiano nel mondo, questa chiesa che si incarna in forme che, più di tutte le altre, soffrono di capacità di respirazione, di mancanza di creatività, di credibilità, di forza auto generativa. Come è possibile, secondo te, ritrovare una sorgente di fuoco reale?

R: Oggi è molto difficile: purtroppo le parrocchie sono più luoghi di servizi offerti che non luoghi di epifania della koinonìa dei cristiani. Gli stessi cristiani che a volte si lamentano della mancanza di vita comunitaria sono poi poco disponibili a fare della domenica il luogo del loro incontro attorno alla tavola della Parola e dell’Eucarestia, perché si disperdono anziché radunarsi: il week-end li porta al mare, in montagna. Ma senza osservanza del giorno del Signore è possibile una vita ecclesiale? (…) Siccome la parrocchia non risponde più ad alcuni bisogni essenziali della vita cristiana, allora emergono i movimenti ecclesiali. E io, pur essendo molto critico nei confronti dei movimenti devo pur dire che essi assolvono a dei compiti che spetterebbero alla parrocchia, ma che questa non è più in grado di adempiere.
Che cosa dovrebbe essere la parrocchia? Innanzitutto una comunità di fede, in cui cioè la fede dev’essere celebrata insieme attorno all’eucarestia, e dev’essere anche vissuta insieme. La parrocchia dovrebbe essere il luogo in cui si accoglie la Parola di Dio, in cui la gente si sente convocata dalla Parola di Dio. Ma spesso la Parola di Dio non trova luogo, una centralità, nella parrocchia, ed ecco che allora sorgono movimenti che proprio attorno alla Parola di Dio riescono a raggruppare uomini e donne, sottraendoli alla parrocchia.
La parrocchia dovrebbe poi essere il luogo della vita fraterna, del riconoscimento degli uni nei confronti degli altri, della compaginazione dei doni e dei ministeri, il luogo dove è vissuta la carità fraterna. Ma se la parrocchia non riesce a essere questo, ecco allora sorgere dei movimenti che garantiscono la dimensione dell’affetto fraterno e del riconoscimento. 
La parrocchia dovrebbe essere un luogo di preghiera, ma se essa continua a offrire ai cristiani soltanto la messa, ecco allora i carismatici, che con la libertà e la creatività che sanno dare alla preghiera di invocazione, di ringraziamento, di gioia e di pianto, nuovamente tolgono forze alla parrocchia.
C’è poi il senso dell’appartenenza. La parrocchia dovrebbe essere il luogo in cui il cristiano sente la sua appartenenza alla chiesa; ma nell’anonimato attuale, in una parrocchia come quelle attuali che funzionano soltanto come datrici di servizi, ogni senso di appartenenza si affievolisce, per cui emerge addirittura l’ipotesi settaria. (…)

D: Ma il problema è che bisognerebbe interrompere il circolo vizioso della routine ormai paralizzata nei suoi schemi logori. Sarebbe necessario un momento di frattura, di ripensamento globale, di giudizio anche su tutto ciò che continuiamo a tenere in piedi e che non ha più alcun senso né evolutivo né tanto meno di conversione…

R: Certamente. Occorrerebbe innanzitutto prendere sul serio la chiesa locali, la chiesa che si raccoglie intorno all’eucarestia su un certo territorio. Bisogna intanto richiamare i cristiani al senso della domenica, affinché non si sottraggano ma vivano senza evasioni quello che è il momento centrale e irrinunciabile di incontro e riconoscimento reciproco nella fede. Il vivere concretamente l’eucarestia domenicale non può essere considerato, cosa che avviene anche da parte di molti cristiani che si vogliono coscienti e aperti, come un elemento marginale e alla fin fine trascurabile del vissuto cristiano, perché sul problema della santificazione del giorno del Signore è in gioco la sopravvivenza stessa della fede, che altrimenti si trova svuotata ad adesione gnostica, ad assenso intellettuale.
Occorrerebbe inoltre un’autentica attuazione della riforma liturgica avviata dal Vaticano II, affinché l’assemblea diventi veramente il soggetto liturgico (…).
Occorrerebbe poi che la carità, la carità con la “C” maiuscola, l’agape, non si risolvesse solo in un’organizzazione burocratica della carità con la “c” minuscola, ma che desse vita a una comunità capace di leggere e interpretare i bisogni dei poveri, degli emarginati e quindi andasse loro incontro realmente tramite l’incontro di volti, attraverso dei veri rapporti umani.
La carità cristiana non è solo filantropia.

Ritrovare una parola che infiammi.

(…)  Occorre ripristinare questo primato della fede nella vita dei credenti, e che a questo primato della fede corrisponda un’autentica esperienza spirituale del fatto cristiano, una vita spirituale autentica e profonda. (…) Si deve fare uno sforzo affinché la qualità della vita dei cristiani sia una qualità adeguata alla crescita spirituale in cui sono iniziati, una qualità adeguata al messaggio evangelico. Altrimenti avremo sempre dei cristiani che ascoltano passivamente, una chiesa discente, come si diceva una volta, che resta però immatura, scolorita e incapace di rendere conto della speranza che è in lei, e di pronunciare una parola che in qualche misura sia anche profetica, che abbia peso, autorevolezza, che possa davvero essere una chiamata per gli altri, un appello, e che veicoli il messaggio evangelico.

D: Io ho poi l’impressione che la chiesa utilizzi spesso un linguaggio troppo ragionevole, ovvio, già sentito. Ma questa ragionevolezza non è già al potere di ogni dimensione, non è già acquisita e accettata quasi universalmente in questo mondo da politici, sindacalisti, intellettuali e giornalisti di ogni colore? E allora, se la chiesa si presenta agli uomini con questi argomenti, con queste parole e, solo o preminemente con questi accenti in buona parte ereditati dalla tradizione politica e sociale del moderno, come può pretendere di incarnare sulla terra qualcosa di nuovo e di inaudito? (…)

R: E’ la grande tentazione della chiesa presente in ogni tempo e già segnalata nel Nuovo Testamento. Tu parli di “ragionevolezza”, ma si potrebbe parlare anche di discorsi che vorrebbero aderire alla mentalità della gente del mondo. Ma noi dobbiamo ricordare il messaggio di Paolo, per cui sussiste una sophìa umana dinanzi alla quale la sapienza di Dio è stoltezza e follia. La fede cristiana ha questa possibilità di mostrarsi agli uomini come follia, come parola della croce, come scandalo. Se le togliamo questa forza, noi la annacquiamo, la depauperiamo, la svuotiamo, la riduciamo a un discorso intorno ai valori, tra i tanti discorsi che fanno gli uomini intorno ai valori.
Oggi d’altronde la situazione è ancora più drammatica di quanto tu non indichi, perché non si tratta più solo di un limite linguistico o di dialogo col mondo, ma è lo stesso atteggiamento pratico dei cristiani che rischia di vanificare ogni annuncio. Qual è oggi la pastorale dominante? E’ quella che porta i nomi del volontariato, dell’impegno, dell’attivismo, in cui cioè un cristiano passa praticamente il suo tempo di vita ecclesiale solo in opere filantropiche, impegnato nell’organizzazione della carità. Tutto questo trasforma la chiesa in un’istituzione filantropica tra le altre, in un’istituzione che non è più in grado di pronunciare quella parola di salvezza per la quale sussiste e solo attraverso la quale deve essere coordinata al mondo. 
Gli uomini sono tutti da amare, per la chiesa, per noi cristiani, ma amare gli uomini non può significare accettazione acritica della mondanità né conversione al mondo piegandosi semplicemente ai desideri che esso esprime. (…)
In una situazione di non persecuzione, anzi di buona accoglienza della chiesa nella società, non ci accorgiamo, come scriveva Ilario di Poitiers nel IV secolo che in realtà c’è «un persecutore molto più insidioso, che lusinga, che non colpisce alla schiena ma accarezza il ventre, non ci confisca i beni ma anzi ci finanzia per darci la morte, non ci spinge alla libertà imprigionandoci ma verso la schiavitù onorandoci nel palazzo, non ci flagella i fianchi ma ci prende il cuore, non ci taglia la testa con la spada ma ci uccide l’anima con il denaro…».

Sperimentare Cristo che vive in me.

D: Credo che molti giovani si allontanino, sfuggano a queste strutture parrocchiali, che poi vorrebbero mostrarsi come create appositamente per i giovani, proprio perché non vi incontrano la parola che può davvero cambiare e orientare tutta la nostra vita. Queste parrocchie sembrano troppe volte dei dopo scuola, e forse come tali svolgono anche una preziosa funzione, ma solo fino alla maturità, allorquando, intorno ai 18 anni, i ragazzi entrano nella vita seria e quindi lasciano la parrocchia (…)
Come avviare dunque un approccio più profondo alla spiritualità, che è poi ciò che tante persone vanno a cercare in Oriente? (…)

R: Il grande problema è quello della gnosi cristiana.
Non dobbiamo mai dimenticare che il cuore del cristianesimo è certamente una persona, Gesù Cristo; ma proprio perché è una persona storicamente vissuta, noi lo conosciamo solo attraverso le Scritture. Non sussiste un’altra via per conoscere Cristo. (…)
C’è in noi questo amore del Signore, che significa contemporaneamente conoscenza del Signore e adesione al Signore, oppure non c’è? La pastorale, la predicazione, la catechesi, hanno questo riferimento si o no? Io temo che sovente non si trovi questo riferimento in tutta la sua necessaria centralità. Si insegnano piuttosto dei valori, si insegnano delle vie etiche, ma non questo amore-fede-conoscenza-adesione al Signore.
Ora è chiaro che un giovane, che percepisce la chiesa come un’istituzione che detiene valori e che sovente finisce con i suoi precetti e divieti per sembrare un vigile urbano, a 18 anni, o anche prima, a12, 14, se ne andrà, lascerà la Chiesa, perché non ha per nulla conosciuto il Cristo. Il giovane crede e dice di aver lasciato la chiesa, ma in verità ha lasciato la vita parrocchiale, la frequentazione dei preti, del parroco. Lui nemmeno si sogna di aver lasciato Cristo, perché questo Cristo non lo ha mai conosciuto. Nessuno gli ha mai richiesto l’esperienza di fede, di amore e di conoscenza effettiva di Cristo. Nessuno gliel’ha mai insegnata.
Questo è uno dei nodi fondamentali della crisi attuale del cristianesimo.
Mi ha sempre impressionato un detto di un padre della chiesa del IV secolo, che parlando ai preti li interrogava: «Voi vi chiedete come mai i giovani crescendo si allontanino dalla chiesa? Ma è naturale: è come nella caccia alla volpe, dove i cani che non l’hanno mai vista, prima o poi si stancano, rinunciano, e tornano a casa; mentre quei pochi che hanno visto la volpe proseguiranno la loro caccia fino in fondo».




18/09/13

Cinquantatre


Quando aneli a felicità a cui non sai dare nome, e quando soffri senza capire perché, proprio allora stai crescendo con quanto cresce, e ti stai elevando verso il tuo io più grande.

Kahlil Gibran



17/09/13

Stigmate di San Francesco - Jacopone da Todi

(...)

«Quella altissima palma,
o' salisti, Francesco,
lo frutto pigliò êll'alma
de Cristo crucifisso;
fusti en Lui sì afisso,
mai non te nne amutasti;
S. Francesco riceve le stigmate - Giotto

con' te ce trasformasti
nel corpo n'è miniato.
L'Amor è 'n quest'offizio,
unir dui 'nn una forma:
Francesco nel sopplizio
de Cristo lo trasforma.
Empresa quella norma
de Cristo c'avìa en core,
la mustra fe' de fore
vestuto d'overgato.
L'Amor devino altissimo
con Cristo l'abracciao,
l'affetto suo ardentissimo
sì llo c'encorporao,
lo cor li stemperao
como cera ad segello;
empreméttece Quello
ov'era trasformato.
Parlar de tal figura
co la mea lengua taccio;
misteria sì oscura
d'entendarle suiaccio;
confesso che no 'l saccio
splicar tanta abundanza,
la smesurata amanza
de lo cor enfocato.
Quanto fusse quel foco
no lo potem sapere;
lo corpo suo tal ioco
no 'l pòtte contenere;
en cinqui parte aprire
lo fece la fortura,
per far demostratura
que 'n lui era albergato»

(...)

Jacopone da Todi
tratto da "O Francesco Povero"


15/09/13

Le parabole della misericordia - XXIV T.O.

Lc 15, 1-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».


La lettura di tutte e tre le parabole ci permette di avere un quadro più limpido del messaggio di questo Vangelo.
Per comprenderle occorre partire dalla situazione entro la quale esse nascono: si avvicinavano al Signore Gesù «i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo». Non si parla di generici peccatori, che hanno fatto qualche genere di peccato, ma si parla dei pubblicani, persone, all'epoca, valutate come molto sgradevoli: erano dei collaborazionisti dei romani e il loro compito era di "rastrellare" le tasse per conto dei romani; erano persone che prendevano "il pizzo" dalla gente, secondo un modo da gestire le tasse che rovinava le persone. Erano, quindi, profondamente disonesti. Quindi qui per "peccatori" non si intende semplicemente chi è nella condizione del peccato, bensì si parla di peccatori pubblici, gente che ha notorietà di fare cose gravi. Non dobbiamo quindi avvicinarci a questo Vangelo con una sorta di comprensione mellifua di tenerezza: si sta parlando di persone sgradevoli, odiose! Pensiamo a quelle persone che più ci danno fastidio, quelle che riteniamo debbano essere punite, eliminate o comunque escluse! Quel tipo di persone che se uno le vede a messa, due banchi più avanti, si alza e se ne va, perché dice "Se questo sta a messa qui, io non ci voglio stare"
Per contro, i farisei e gli scribi erano invece persone molto amate dal popolo, la gente dava loro molto credito, perché erano persone che si occupavano della fede del popolo, persone di grandissima fedeltà alla Parola di Dio, di grandissima correttezza: persone integerrime, giuste.
A Gesù si avvicinano tutti i pubblicani e i peccatori. E' una cosa imbarazzante! Il testo è paradossale, perché sottolinea che, a prescindere da un loro supposto moto di conversione - non è detto che questi si stanno pentendo! - si avvicinano a Gesù proprio tutti. Non sono persone che hanno già fatto atti di penitenza, si avvicinano quelli che non hanno dato nient'altro che i segni di ciò che hanno fatto fino ad oggi... ma si stanno avvicinando a Gesù. E lui si lascia ascoltare.
I farisei e gli scribi mormorano. La buona società, la gente per bene, la gente impegnata, la gente che in parrocchia lavora, la gente su cui puoi fare affidamento dice: "Ma cosa stiamo facendo?! E Costui chi è? Quest'uomo accoglie i peccatori e mangia con loro!" Il mangiare insieme nel Vecchio Testamento aveva un significato importantissimo: era segno di convivialità, intimità.
E' una provocazione enorme. Come scandalose sono le tre parabole che Gesù racconterà immediatamente dopo.

Se uno «ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova». E' più importante la "perduta" di quelle possedute.
Se un giorno io vado a messa e vedo quattro banchi più in là un noto malfattore della zona, sta succedendo qualcosa di buono: c'è una possibilità. Che poi questo la sfrutti o non la sfrutti, è un altro discorso... Ma Dio come sta messo di fronte a questo uomo che comunque, in ogni caso, adesso sta qui?
Qual'è la realtà? E' che gli interessa di più la pecora perduta. E' imbarazzante questo.
Noi abbiamo una mentalità numerica: 99 o 100 non fa differenza! No, per Dio non è lo stesso.

C'è poi una donna che ha dieci monete e ne perde una.
Noi diremmo: e vabbè, fa' niente, è lo stesso! Per Dio non è lo stesso. Uno, uno solo in meno, non è lo stesso.
Noi siamo abituati ad una mentalità utilitarista, dove le cose vanno calcolate "di massima", secondo convenienza. Ce ne facciamo una ragione di "uno che si perde". Un fratello che si perde, una sorella che si perde... è veramente lo stesso?  Interrogo il mio cuore e dico: devo ancora arrivare fino in fondo a lasciarmi invadere dallo Spirito Santo, perché lo Spirito Santo mi fa capire che "uno", "uno solo" vale tutto.
Uno solo vale, che io fermi tutto quello che sto facendo, perché quello non si può perdere. "E vabbè, dai, c'è tanta altra gente..." No, quello è mio fratello, quella è la mia pecora, la mia moneta... quello è mio figlio.

Chi siamo noi per Dio? Siamo quello che non si può perdere, quello di cui si va in cerca.
Il Signore Gesù Cristo è venuto in cerca di qualcosa che non può perdere.
Noi viviamo, molto spesso, anche il rapporto con noi stessi, come qualcosa di giudicabile, di valutabile... e anche di disprezzabile.  Molto spesso ci abbandoniamo al peccato e al disordine, perché non abbiamo capito chi siamo, non abbiamo capito chi siamo per Dio: siamo qualcosa di imperdibile. Dio non ci può perdere.
Se avessimo dubbi, dobbiamo guardare intensamente la croce di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale muore per uno di noi. Muore perché noi non possiamo essere persi, non possiamo essere smarriti. Molte persone cadono nell'abisso del peccato perché si disprezzano, si lasciano andare, non si considerano più importanti. E tante volte perdiamo il treno della carità verso il prossimo perché non riteniamo così grave, così imprescindibile, il fatto di mancare rispetto alla carità: una persona sola che cosa è per Dio! Che cosa è per il Padre... Il buon pastore cerca la pecora perduta; la donna cerca la moneta perduta; e il padre aspetta il figlio che torni: «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Questo per il Padre è tutto, perché noi non possiamo essere smarriti.

don Fabio Rosini



13/09/13

Vocazione alla solitudine - T. Merton


Scopo della vita solitaria è, se si vuole, la contemplazione. Ma non la contemplazione nel senso pagano, di un’illuminazione intellettuale, esoterica, raggiunta attraverso una tecnica ascetica. La contemplazione del solita­rio cristiano è avere gli occhi spalancati sulla misericordia divina che trasforma ed eleva il suo vuoto e lo converte nella concretezza di un amore perfetto, di una pienezza perfetta.

La chiamata alla solitudine perfetta è una chiamata alla sofferenza, all’oscurità e all’annientamento. Eppure, quando un uomo vi è chiamato, la preferisce a qualsiasi altro paradiso terrestre. L’eremita rimane là per dimostrare, con la sua mancanza di utilità pratica e l’apparente sterilità della sua vocazione, che gli stessi monaci dovrebbero avere scarsa importanza nel mondo, o addirittura nessuna.
La sua povertà è spirituale. Pervade interamente la sua anima e il suo corpo, così che alla fine tutto il suo patrimonio è l’insicurezza. Sperimenta il dolore e l’indigenza spirituale e intellettuale di chi è davvero povero. Questa è esattamente la vocazione eremitica, una vocazione all’inferiorità a ogni livello, anche quello spirituale. E’ certo che vi è in essa un pizzico di follia.

L’eremita rimane nel mondo come un profeta che nessuno ascolta, come una voce che grida nel deserto, come un segno di contraddizione. Il mondo non lo vuole perché egli non ha niente in sé che appartenga al mondo, e lui non capisce più il mondo. Neanche il mondo lo capisce. Ma questa è la sua missione, essere rifiutato dal mondo che, con quel gesto, rifiuta la spaventosa solitudine di Dio stesso. Come ogni altro aspetto della vita cristiana, la vocazione alla solitudine può essere compresa solo nella prospettiva della mise­ricordia di Dio verso l’uomo. La vocazione alla solitudine è quindi, nello stesso tempo, una vocazione al silenzio, alla povertà e allo svuotamento. Ma lo svuotarsi è in vista della pienezza: scopo della vita solitaria è, se si vuole, la contemplazione. Ma non la contemplazione nel sen­so pagano, di un’illuminazione intellettuale, esoterica, raggiun­ta attraverso una tecnica ascetica. La contemplazione del solita­rio cristiano è avere gli occhi spalancati sulla misericordia divina che trasforma ed eleva il suo vuoto e lo converte nella concretezza di un amore perfetto, di una pienezza perfetta. Vi sono sempre stati, e sempre vi saranno, degli eremiti che sono soli in mezzo agli uomini senza conoscerne la ragione. So­no condannati al loro strano isolamento dal temperamento o dalle circostanze, e vi ci sono abituati.

Non è di questi che io sto parlando, ma di coloro che, avendo condotto un’esistenza impe­gnata e multiforme nel mondo degli uomini, si lasciano alle spal­le la loro vita di un tempo, per andare nel deserto. Una tale vocazione, in genere, non è per i giovani. Non può sgorgare solamente da un fermento di idealismo o da una ribel­lione adolescenziale, dal semplice disgusto per gli atteggiamenti e i modi convenzionali del vivere. Ma arriva un momento in cui uno è proprio stanco di conservare le finzioni necessariamente presenti nella vita sociale. Capisce che non ne può più. Certo, chiunque è fornito di buon senso vede, di tanto in tan­to, in un momento di chiarezza, la follia e la superficialità dei nostri atteggiamenti convenzionali. Tutti possono sognare la libertà. Ma assumere la disarmata austerità del vivere in completa onestà, senza convenzionalismi, e quindi senza sostegno, è tutta un’altra cosa. la vita solitaria è un’arida, aspra purificazione del cuore. Girolamo ed Eucherio hanno scritto rapsodie sul deserto fiori­to, ma Girolamo era l’eremita più indaffarato che sia mai esistito ed Eucherio era un vescovo che ammirava la comunità eremitica di Lérins solo da lontano. Gli eremi cultores,i coltivatori della sabbia del deserto, hanno avuto meno da dire su tale esperienza. Sono stati inariditi dalla siccità e le loro labbra bruciate sono stanche di parole. Se un solitario dovesse un giorno trovare la propria strada, per grazia e misericordia di Dio, in un luogo deserto dove non è co­nosciuto, e se gli venisse concesso dalla pietà divina di vivere lì, e di rimanere sconosciuto, egli forse potrà fare maggiormente del bene all’umanità come solitario di quanto ne avrebbe mai potuto fare rimanendo prigioniero della società in cui viveva.

La solitudine fisica assume talvolta l’aspetto di una sconfitta amara. E’ un paradiso terrestre solo nell’immaginazione di colo­ro che trovano la loro solitudine nella città affollata, o che sanno fare gli eremiti per alcuni giorni o per alcune ore, non di più. Ma la chiamata alla solitudine perfetta è una chiamata alla sofferen­za, all’oscurità e all’annientamento. Eppure, quando un uomo vi è chiamato, la preferisce a qualsiasi altro paradiso terrestre.

Il solitario che non comunica più con gli altri uomini se non per le necessità fondamentali della vita, è un uomo con una vo­cazione difficile e particolare. Per il resto del mondo egli perde immediatamente ogni valore. Eppure quel valore è grande. L’e­remita ha un ruolo molto significativo in un mondo come il no­stro, che ha degradato la persona umana e ha perduto ogni ri­spetto per la solitudine. Ma in un mondo cosiffatto la vocazione dell’eremita e più ter­ribile che mai. Agli occhi del nostro mondo l’eremita non è altro che un fallito. Deve essere un fallito: non abbiamo assolutamen­te bisogno di lui, non c’è posto per lui. E al di fuori di tutti i nostri progetti, programmi, movimenti, assemblee. Lo possiamo tollerare finché rimane una finzione, o un sogno. Non appena diviene reale, siamo disgustati dalla sua insignificanza, dalla sua povertà, dalla sua trasandatezza. Anche chi si considera contemplativo, spesso nutre un segreto disprezzo per l’eremita. Per­ché nella vita contemplativa dell’eremita non vi è niente di quel­la nobile sicurezza, di quella profondità intellettuale, di quella finezza artistica che il contemplativo professionista cerca nella sua tranquilla comunità. Eppure l’eremita deve sempre rimanere il vero modello del mo­naco. L’uomo che indossa la calda tonaca ben stirata dovrebbe ricordare che quanto egli stesso sta tentando di essere, ha una qualche somiglianza con il solitario dalle mani screpolate, che la­vora come un matto all’esterno della sua baracca nei boschi, o che magari si dedica a occupazioni prive di onore e di utilità. E’ la mancanza di utilità dell’eremita il grande scandalo. E’ senza effi­cacia, senza sicurezze: in un certo senso, indolente. Assomiglia fin troppo a un vagabondo.

La vita solitaria è qualcosa che non può minimamente smuovere la sua scala di valori. E’ “niente”, una non-entità. Ep­pure Paolo dice: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobi­le e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28). L’eremita rimane là per dimostrare, con la sua mancanza di utilità pratica e l’apparente sterilità della sua vocazione, che gli stessi monaci dovrebbero avere scarsa importanza nel mondo, o addirittura nessuna. Sono morti al mondo, non dovrebbero più apparire in esso. E il mondo è morto per loro. Sono pellegrini, testimoni appartati di un altro regno. La vita dell’eremita è una vita di povertà materiale e fisica senza sostegno visibile.
Dobbiamo ricordare che Ro­binson Crusoe fu uno dei grandi miti della borghesia, della civil­tà commerciale del XVIII e XIX secolo: il mito non di una solitu­dine eremitica ma di un individualismo pragmatico. Crusoe è una figura simbolica in un’era in cui la casa di ogni uomo era un castello fra gli alberi, ma solo perché ogni uomo era un cittadino molto prudente e ingegnoso, che sapeva trarre il massimo da ogni situazione e condurre a proprio vantaggio un affare con qualsiasi concorrente, anche con la vita stessa. Il Crusoe senza preoccupazioni era felice perché aveva una risposta per ogni co­sa. Il vero eremita non è così sicuro di avere una risposta a tutto.

In verità, l’eremita non dovrebbe essere una persona comple­tamente sprovveduta. Dovrebbe avere qualcosa dell’abilità ma­nuale di Crusoe, così da essere autosufficiente almeno a un cer­to livello. Ma esiste un limite all’autosufficienza. E anche nel campo spirituale la vita eremitica non è totalmente indipenden­te. L’eremita non è sottoposto alla complessità dell’istituzionali­smo religioso e alle sue vanità, ma talvolta necessita di uno che lo guidi, e se non ce l’ha.
L’eremita, nella nostra epoca, è unicamente e soltanto un uomo di Dio. Questo dovreb­be essere chiaro.Ma quale preghiera! Quale meditazione! Nien­te più che pane e acqua questa sua preghiera interiore! Povertà radicale. L’eremita, giorno e notte, sbatte la testa contro un muro di dub­bio. Questa è la sua contemplazione. Non fraintendetemi. Non è una questione di dubbio intellettuale, una ricerca analitica di verità teologiche, filosofiche o di altro genere. E’ qualcosa d’altro, una specie di non conoscenza del proprio io, una specie di dubbio che interroga le radici più profonde della sua vita, un dubbio che mina le ragioni stesse del suo esistere e di quanto va facendo. E’ questo dubbio che lo porta definitivamente al silen­zio, e nel silenzio che cessa di porre domande egli riceve l’unica certezza che conosce: la presenza di Dio nel cuore dell’incertez­za e del nulla, come unica realtà, ma come una realtà che non può essere “localizzata” o identificata. Ecco perché l’eremita non parla. Compie il suo lavoro ed è paziente, ma generalmente ha pace. Non è il genere di pace del mondo. Egli è felice, ma non si diverte mai. Sa dove sta an­dando, ma non è sicuro della sua strada, lo sa solo andandoci.

Tutto quello che possiamo dire di questa indigenza del vero eremita non deve farci dimenticare che egli è felice nella sua so­litudine, ma particolarmente perché ha cessato di considerarsi come un solitario in contrapposizione ad altri che non sono soli­tari. Egli semplicemente lo è. E se è stato reso povero e messo in disparte dalla volontà di Dio, questa non è una distinzione ma soltanto un dato di fatto. La sua solitudine è qualcosa di spaven­toso, talvolta è un fardello pesante, eppure gli è più preziosa di ogni altra cosa perché è la volontà di Dio per lui. La sua solitudine è, per lui, l’ovvia realtà.
L’eremita rimane nel mondo come un profeta che nessuno ascolta, come una voce che grida nel deserto, come un segno di contraddizione. Il mondo non lo vuole perché egli non ha niente in sé che appartenga al mondo, e lui non capisce più il mondo. Neanche il mondo lo capisce. Ma questa è la sua missione, esse­re rifiutato dal mondo che, con quel gesto, rifiuta la spaventosa solitudine di Dio stesso.


Thomas Merton 

tratto da  "Un vivere alternativo" 

09/09/13

Seguendo la corrente della vita - Etty Hillesum

Vedi, Dio, farò del mio meglio. Non mi sottrarrò a questa vita. Continuerò a parteciparvi e cercherò di sviluppare tutte le doti che ho, se ne ho. Non saboterò nulla. Ma dammi ogni tanto un segno.
Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l'irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi prenda per mano.  Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po' d quell'amore, d quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo "amore". Non so se lo possiedo. 
Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l'isolamento in un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti.
Certe volte mi viene da pensare che la mia vita sia appena all'inizio e che le difficoltà debbano ancora cominciare, altre volte mi sembra di aver già lottato abbastanza.
Studierò e cercherò di capire, ma credo che dovrò pur lasciarmi confondere da quel che mi capita e che apparentemente mi svia: mi lascerò sempre confondere, per arrivare forse a una sempre maggior sicurezza.

Etty Hillesum

dal "Diario 1941-1943"

08/09/13

Il primato di Gesù nella sequela - XXIII T.O.

Lc 14, 25-33

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».


Questo è uno di quei brani in cui abbiamo a che fare col radicalismo evangelico e potremmo pensare che questo radicalismo evangelico è improntato all'esigenza. Ma se uno legge bene questo testo, l'esigenza non è la parola giusta per interpretare questo brano, ma piuttosto si parla di possibilità.
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo», ossia non ce la fa', non ci arriva, non è in grado. Infatti il testo va avanti parlando di costruire una torre e riuscire a farlo! Di partire per una guerra e avere le possibilità di combatterla. Questi due esempi sono quindi la chiave con cui deve essere aperta questa missione, questa sequela, così seria. 
Essere discepoli del Signore richiede quindi che uno sia arrivato ad uno stadio, una condizione: quella di chi non ha il cuore schiavo di alcune cose, non è incastrato in certe dipendenze.  Non è assolutamente possibile varcare la soglia dell'eternità, dell'essere di Cristo che appella l'uomo alla vita, se non si sono cambiati gli assoluti del proprio cuore, le priorità e necessità della propria esistenza. E qui si spazia dalla dimensione relazionale, alla dimensione del possesso e dei beni di questo mondo.

«Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Partiamo da quest'ultimo caso, che, in un certo senso è il più scandaloso. Il punto è che se gli averi di questa terra non sono "beni rinunciabili", sono padroni della nostra vita. Se non sono beni a cui si possa dire di "no", diventano coordinate imprescindibili del nostro agire. Gli esempi classici sono quelli della condizione in cui uno debba scegliere di amare, di fare un atto di carità, imboccare la strada del servizio. Se il possesso, se il denaro resta un dato intoccabile condizionerà il mio modo di amare. Nessuno può amare veramente e non è disposto a perdere tutto. Se c'è qualcosa che mi porta a dire: "tutto ma questo no!", significa che quella cosa è più importante dell'atto d'amore, di ciò che viene amato.
Questo vuol dire che c'è una chiamata assoluta e indiscutibile, evangelica, alla povertà.  Siamo chiamati ad un distacco dalle cose e ad essere liberi dai beni di questo mondo. Possiamo illuderci, tante volte, di aver imboccato una via di povertà mentre in realtà sguazziamo in un'abbondanza! Si dice che la povertà non è tanto nel possesso quanto nell'uso: se una cosa non è mia ma ne posso usare, possiamo davvero parlare di povertà, quando tutto quello che abbiamo è iper garantito?  Tante volte anche la vita consacrata è tutt'altro che povera, anche se poi, non si rivendica niente come mio veramente, però in realtà io sto in una serie di cose che mi consentono un confort, una sicurezza di vita.  Ecco questo deve passare assolutamente secondario rispetto al mio seguire Gesù Cristo: io non posso seguire Gesù se questo non può e non deve toccare il mio confort, non può e non deve toccare ciò che poi, di fatto, è nella realtà "mio".
Siamo davanti al messaggio dell'assoluto che è Dio. Troppo siamo stati annoiati, scoraggiati, sviliti, dall'immagine di tanto cristianesimo che, in realtà, non entrava neanche lontanamente in combattimento con l'argomento del "possesso", che non toccava neanche lontanamente la relazione con il denaro: un cristianesimo ritagliato a misura di convenienza. Questo non è semplicemente sbagliato: non è seguire il Signore Gesù! Chi sta in queste condizioni non ce la fa, non va avanti. Chi vuole seguire il Signore senza toccare i propri beni, presto o tardi non ce la fa più, perché non ha punti d'appoggio ulteriori che gli consentano di mantenere una certa facciata, crollerà.
Questa Parola non va letta come un'esigenza, ma piuttosto come parametro di riferimento.
Questo è valido anche per le relazioni affettive, come sottolinea questo testo.  Noi abbiamo la tendenza a non vedere pericolosità nei legami affettivi, invece questi possono diventare delle catene che legano interiormente, tagliano le ali a tante vocazioni, a tante maturità che non arrivano mai, a tanta umanità che resta in uno stato infantile, perché resta legata ad una cosa importantissima ma mai del tutto assoluta.
Per capire meglio questo testo possiamo pensare al caso di Abramo il quale deve entrare nella fede mettendo Dio davanti all'affetto per suo figlio... non perché perderà suo figlio ma perché avrà suo figlio in un ordine di priorità più giusto, secondo quello che è la luce, la sorgente della vita. Da Dio verrà Isacco: non può essere che Isacco è un assoluto intoccabile per cui lui debba anteporre il rapporto con Isacco al rapporto con Dio che gli ha donato Isacco.
Questo potrebbe essere un discorso che rischia di apparire privo di umanità, di senso del reale; occorre tenere davanti a noi quello che è lo scopo: il rapporto con il Signore Gesù Cristo, da cui deriva tanto amore, da cui deriva tanta generosità, da cui deriva tanta gioia anche nello stare in questo mondo. Non può esserci niente che viene prima del nostro rapporto con il Signore Gesù.
Se marito e moglie hanno come primario il loro rapporto orizzontale, il loro matrimonio è fragile. Se il primo rapporto è il rapporto con Dio, da questo deriva tanto amore per il coniuge e un amore disinteressato. Perchè quando i nostri rapporti affettivi orizzontali diventano così imprescindibili diventano un investimento con un certo rischio, perché l'altro ha diritto ad essere debole, ha diritto di sbagliare e anche di morire. Non possiamo basare una vita su un padre, una madre, una moglie, un figlio, un fratello... Non possiamo basare tutta la nostra esistenza nemmeno sulla nostra vita! Dobbiamo amare il Signore di più! Perché il testo greco usa addirittura la parola odiare? Può sembrare un po' crudo con queste realtà affettive, certamente buone, ma che possono diventare molto malate. Amare il Signore Gesù Cristo significa un essere completamente suoi e da quello venire alla moglie, ai figli, ai genitori, e anche a sé stessi. Si torna agli altri dopo essere stati con il Signore. Se prima stiamo con gli altri e poi con il Signore, dal Signore non arriviamo mai. Se i nostri beni prendono uno spazio di intangibilità, non arriveremo mai dal Signore. Diventeranno dei veri e propri ostacoli per essere completamente nella vita, la vita vera, autentica. Quando si dona, nulla si perde.

don Fabio Rosini


04/09/13

Accogliere il dolore dell'umanità - Etty Hillesum


Ho provato a guardare in faccia il "dolore" dell'umanità, coraggiosamente e onestamente, ho affrontato questo dolore o piuttosto lo ha fatto qualcosa in me stessa, molti interrogativi disperati hanno trovato risposta, l'assurdità completa ha ceduto il posto a un po' più d'ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. E' stata un'altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più.
Ho scritto che mi sono confrontata con il "dolore dell'umanità" (questi paroloni mi fanno ancora paura) ma non è del tutto esatto. Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire. Forse, su questo punto, io sono davvero molto ospitale, a volte sono come un campo di battaglia insanguinato e poi lo pago con un gran sfinimento e con un forte mal di capo. Ma ora sono semplicemente me stessa: Etty Hillesum, una laboriosa studentessa in una camera ospitale (...).
Poi all'improvviso ho ritrovato il contatto con me stessa, con la parte migliore e più profonda del mio essere, quella che io chiamo Dio, e quindi anche con te. E' stata un'ora in cui sono maturata di un ulteriore tratto, in cui ho appreso molte cose nuove su di me es i miei rapporti con te e con gli altri. Sono già passati alcuni giorni, e quell'ora per me così importante è sempre racchiusa dentro di me come un tutto compiuto e perfetto, ma non riesco ancora a trovare le parole per descriverla.

Etty Hillesum

dal  "Diario 1941 - 1943"


02/09/13

Il coraggio di arrendersi a Dio - A. De Mello

Il Dio che noi incontriamo nella preghiera richiede coraggio, perché smaschera le nostre razionalizzazioni, spezza le nostre difese, ci fa vedere noi stessi come realmente siamo, e questo può essere molto penoso. L’incontro con Dio non è sempre un’esperienza piacevole consolante. Qualcuno ha detto giustamente che l’incontro è chirurgico prima di essere lenitivo. Il Dio della Bibbia lo si incontra in un comando. Ogni volta che qualcuno lo sperimenta nella Bibbia è in connessione con (...)  qualche compito da assolvere, in genere un compito spiacevole. Osserviamo la riluttanza di gente come Geremia e Mosè ad accettare i compiti spiacevoli che Dio pone sulle loro spalle. Se vogliamo incontrare Dio dobbiamo essere pronti ad ascoltare la sua voce che ci chiama a fare qualcosa che potrebbe non piacerci: “Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Ciò non significa che dobbiamo avere paura. Le parole che udiremo non saranno solo parole esigenti. Saranno parole d’amore, parole che danno forza. Dio ci darà l’amore e la forza di cui abbiamo bisogno per essere all’altezza delle sue richieste. Ma non possiamo dissimulare il fatto che le sue richieste ci sono, che egli ci chiama a morire a noi stessi. E la morte è qualcosa che inizialmente spaventa. Dobbiamo avvicinarci a Dio senza condizioni in uno stato di resa completa. Non sto solo dicendo che dobbiamo avere la forza di dare ciò che Dio vuole da noi, povere e deboli creature quali siamo. La forza è qualcosa che viene da Dio, non da noi stessi. E’ affar suo procurarla.

Ciò che ci si aspetta da noi è l’onestà. Che non inganniamo noi stessi. Che affrontiamo la verità su noi stessi, la nostra codardia, il nostro egoismo, la nostra possessività e abbandoniamo le nostre razionalizzazioni. Il momento in cui cominciamo a pregare, noteremo voci che sorgono dentro di noi e che preferiremmo non ascoltare. Ciò che ci viene chiesto è il coraggio di ascoltare, di non chiudere i nostri orecchi, di non voltare la testa, per quanto sgradevole possa essere. 
Dio non ha inibizioni di sorta a chiederci cose sciocche e stupide. Cosa potrebbe essere più folle del fatto che la salvezza passi attraverso la croce? Cosa più ridicolo del fatto che gli apostoli debbano parlare le lingue ed esporsi all’accusa di essere ubriachi? In realtà il nostro prepotente desiderio di essere sempre razionali, equilibrati e rispettabili è uno dei maggiori ostacoli alla santità. Lo Spirito santo può essere assolutamente “irrazionale” in base agli standard del mondo. Perciò non escludiamo le cose “pazze” dalla lista delle cose che Dio potrebbe chiederci. Avviciniamoci a lui con mente e cuore aperti a tutto ciò che vuole, per quanto folle o difficile possa apparire a prima vista.

Antony De Mello

tratto da  "L'incontro con Dio. Un cammino di preghiera"


01/09/13

L'ultimo posto - XXII T.O.

Lc 14, 1. 7-14

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».


Le letture odierne contengono un messaggio sull’umiltà: umiltà quale attitudine umana gradita a Dio e che rende amabile colui che la vive (I lettura); umiltà quale atteggiamento che riproduce il modo di scegliere e di vivere che fu di Cristo Gesù (vangelo).

In effetti, il testo evangelico parla innanzitutto di Gesù. Esso ha una portata cristologica: Cristo è colui che essendo in forma di Dio si è abbassato, fatto uomo, ha assunto la forma di schiavo fino a condividere la condizione mortale dell’uomo, anzi, fino a morire della morte di croce. Gesù è colui che ha scelto l’ultimo posto che nessuno potrà mai sottrargli. Ed è colui che, umiliatosi, è stato esaltato dal Padre (cf. Fil 2,5-11). È Gesù che nella sua vita ha accordato un privilegio a poveri e piccoli, a malati e deboli, a storpi, zoppi e ciechi, narrando l’amore e la vicinanza di Dio innanzitutto a coloro che erano scartati dagli altri. È Gesù che ha vissuto la dimensione di unilateralità dell’amore, amando senza attendere di essere riamato, senza cercare reciprocità.

Il testo mette in guardia dal protagonismo e dall’esibizionismo di chi cerca i primi posti nei conviti, rischiando di essere “retrocesso” all’ultimo posto dal padrone di casa se arriva un ospite più ragguardevole di lui. Ovviamente l’umiltà non si oppone solo alla smania di apparire di chi si mette in mostra, di chi “ama i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe” (Mt 23,6), di chi usa le chiese e il religioso per esibirsi, per “farsi vedere”, ma anche all’atteggiamento del falso umile che si mette in fondo, all’ultimo posto, ma nutrendo in cuor suo la speranza di essere fatto avanzare. Umiltà è stare al posto che il Signore ha assegnato. Umiltà è essere fedeli al compito che il Signore ha affidato e al luogo in cui ci ha collocati.

Umiltà è anche la sapienza di chi ha una giusta valutazione di se stesso, di chi non ambisce cose troppo alte, di chi aderisce alla realtà e non la fugge né in alto né in basso. Scrive Paolo: “Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato” (Rm 12,3).

Anche parlando di un ricevimento, di un banchetto, Gesù riesce a parlare dell’agire sorprendente di Dio: nel banchetto del Regno sono i poveri ad avere i posti privilegiati, gli ultimi a essere i primi (cf. Lc 14,11). Per noi uomini che cosa di più sensato e quotidiano che invitare a cena a casa propria le persone amiche, quelle a cui siamo legati da vincoli di amicizia e amore, quelle che ci hanno già invitato e ci inviteranno ancora? Ma Gesù sta obbedendo alla logica “strana”, “folle”, “inusuale” di Dio e del Regno. Il discorso di Gesù è mosso da una “logica illogica”, se considerata a partire dal nostro buon senso: quella reciprocità che noi normalmente cerchiamo, Gesù afferma che è estranea all’agire di Dio. E rivela che, per l’uomo, questa logica diviene fonte di beatitudine: “sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14).

La beatitudine consiste proprio nella partecipazione alla sorte di Gesù che ha amato unilateralmente gli uomini nel loro peccato e nella loro inimicizia (cf. Rm 5,6 ss.), che si è inchinato anche davanti a Giuda che aveva in animo di tradirlo per lavargli i piedi (cf. Gv 13,1-30), che non ha cercato ricompense terrene e non ha preteso di essere riamato in cambio del suo amore. Gesù dice: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,12) e non dice: “Come io vi ho amati, così anche voi amatemi”. La beatitudine insita in questo amore è la totale gratuità, la gioia dell’amare in pura perdita, nella coscienza che l’amore basta all’amore, che amare è ricompensa per chi ama. È la beatitudine di chi è libero dalla paura di perdere qualcosa amando; è la beatitudine di chi spera e attende come unica ricompensa la comunione escatologica con Dio nel Regno (cf. Lc 14,14b); è la beatitudine di chi trova nel dono la propria gioia; è la beatitudine di chi non agisce in vista di un contraccambio, ma donandosi interamente in ciò che vive e che compie.


Luciano Manicardi

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