27/11/13

La rivoluzione di Francesco: "Evangelii gaudium"


Tratto da "Avvenire" 26 novembre 2013



Viene pubblicata oggi l'esortazione apostolica Evangelii gaudium, e c'è dentro la summa del pensiero di papa Francesco sulla Chiesa di oggi e su quella che verrà.

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»: inizia così l’Esortazione apostolica con cui papa Francesco sviluppa il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, raccogliendo, tra l’altro, il contributo dei lavori del Sinodo che si è svolto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012 sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”. “Desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani – scrive il Papa - per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”.

«Stato di missione permanente». Un appello forte a tutti i battezzati perché portino agli altri l’amore di Gesù in uno “stato permanente di missione”, vincendo “il grande rischio del mondo attuale”: quello di cadere in “una tristezza individualista”. 

Il Papa invita a “recuperare la freschezza originale del Vangelo”, trovando “nuove strade” e “metodi creativi”, a non imprigionare Gesù nei nostri “schemi noiosi”. Occorre “una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” e una “riforma delle strutture” ecclesiali perché “diventino tutte più missionarie” . Il Pontefice pensa anche ad “una conversione del papato” perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. L’auspicio che le Conferenze episcopali potessero dare un contributo affinché “il senso di collegialità” si realizzasse “concretamente” – afferma - “non si è pienamente realizzato”. E’ necessaria “una salutare decentralizzazione”. 

«L'Eucaristia non è un premio per i perfetti». In questo rinnovamento non bisogna aver paura di rivedere consuetudini della Chiesa “non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia”. Segno dell’accoglienza di Dio è “avere dappertutto chiese con le porte aperte” perché quanti sono in ricerca non incontrino “la freddezza di una porta chiusa”. “Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. Così, l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia”. Ribadisce di preferire una Chiesa “ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa … preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci … è che tanti nostri fratelli vivono” senza l’amicizia di Gesù. Il Papa indica le “tentazioni degli operatori pastorali”: individualismo, crisi d’identità, calo del fervore. “La più grande minaccia” è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando”. 

«Dio ci liberi da una Chiesa mondana». Esorta a non lasciarsi prendere da un “pessimismo sterile” e ad essere segni di speranza attuando la “rivoluzione della tenerezza”. Occorre rifuggire dalla “spiritualità del benessere” che rifiuta “impegni fraterni” e vincere “la mondanità spirituale” che “consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana”. Il Papa parla di quanti “si sentono superiori agli altri” perché “irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato” e “invece di evangelizzare … classificano gli altri” o di quanti hanno una “cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo” nei bisogni della gente. Questa “è una tremenda corruzione con apparenza di bene … Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!” 

«Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?». Un appello è anche alle comunità ecclesiali a non cadere nelle invidie e nelle gelosie: “all’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre!”. “Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?”. Sottolinea la necessità di far crescere la responsabilità dei laici, tenuti “al margine delle decisioni” da “un eccessivo clericalismo”. Afferma che “c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa”, in particolare “nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”. “Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne …non si possono superficialmente eludere”. I giovani devono avere “un maggiore protagonismo”. Di fronte alla scarsità di vocazioni in alcuni luoghi afferma che “non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione”. Affrontando il tema dell’inculturazione, ricorda che “il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale” e che il volto della Chiesa è “pluriforme”. “Non possiamo pretendere che tutti i popoli … nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia”. 

«No a una teologia da tavolino». Il Papa ribadisce “la forza evangelizzatrice della pietà popolare” e incoraggia la ricerca dei teologi invitandoli ad avere “a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa” e a non accontentarsi “di una teologia da tavolino”. Si sofferma “con una certa meticolosità, sull’omelia” perché “molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie”. L’omelia “deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione”, deve saper dire “parole che fanno ardere i cuori”, rifuggendo da una “predicazione puramente moralista o indottrinante” (142). Sottolinea l’importanza della preparazione: “un predicatore che non si prepara non è ‘spirituale’, è disonesto ed irresponsabile”. “Una buona omelia … deve contenere ‘un’idea, un sentimento, un’immagine’” (157). La predicazione deve essere positiva perché offra “sempre speranza” e non lasci “prigionieri della negatività”.

«Questa economia uccide». Parlando delle sfide del mondo contemporaneo, il Papa denuncia l’attuale sistema economico: “è ingiusto alla radice”. “Questa economia uccide” perché prevale la “legge del più forte”. L’attuale cultura dello “scarto” ha creato “qualcosa di nuovo”: “gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”. Viviamo “una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale” di un “mercato divinizzato” dove regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista”.

Denuncia gli “attacchi alla libertà religiosa” e le “nuove situazioni di persecuzione dei cristiani … In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista”. La famiglia – prosegue il Papa – “attraversa una crisi culturale profonda”. Ribadendo “il contributo indispensabile del matrimonio alla società” sottolinea che “l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita … che snatura i vincoli familiari”. Ribadisce “l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana” e il diritto dei Pastori “di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone”. “Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza nella vita sociale”. Cita Giovanni Paolo II dove dice che la Chiesa “non può né deve rimanere al margine della lotta per la giustizia”.

“La politica, tanto denigrata” – afferma - “è una delle forme più preziose di carità”. “Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore … la vita dei poveri!”. Poi un monito: “Qualsiasi comunità all'interno della Chiesa” si dimentichi dei poveri corre “il rischio della dissoluzione”. 

«Chiamati a prenderci cura della fragilità», la difesa della vita umana. Il Papa invita ad avere cura dei più deboli: “i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati” e i migranti, per cui esorta i Paesi “ad una generosa apertura”. Parla delle vittime della tratta e di nuove forme di schiavismo: “Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta” . “Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza”. “Tra questi deboli di cui la Chiesa vuole prendersi cura” ci sono “i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana”. “Non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione … Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana”. Quindi, un appello al rispetto di tutto il creato: “siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo”.

da  www.avvenire.it

23/11/13

Cristo Re - XXIV T.O.

Lc 23, 35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio. Tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso».


E' una cosa scioccante pensare che nel giorno in cui proclamiamo la gloria di Cristo, Cristo Re, Signore dell'universo, del tempo e della storia, noi vediamo un povero disgraziato appeso ad una croce, insultato, che muore senza nessuna dignità. E questo sarebbe il Re?
E questa è infatti la domanda che gli viene fatta: Ma sei tu il Re? Ma questo sarebbe il Regno dei Cieli che ci hai portato? Sarebbe questa la tua regalità? Ma se un re è davvero tale, si mostra perché ha potere! «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» !  Ma che razza di re è mai questo?
Infatti ci sono i due malfattori crocifissi con lui. Uno dice: "Ma non sei tu il Messia? Salva te stesso e pure noi!". Noi non dobbiamo vedere in questa domanda solo un insulto, ma è anche una disperata richiesta: "Hai fatto tanti miracoli: ma fanne uno adesso, per favore! Salva te stesso e noi!"
[Questo ladrone è l'umanità sofferente con le sue rabbie, i suoi problemi; siamo un po' tutti noi, che solleviamo lo sguardo addolorati e diciamo: "se tu puoi fare qualche cosa, falla! Esci fuori da questo dolore e tira fuori anche me!"  Ma Gesù non risponde.]

Perché Gesù resta lì, sulla croce?
Il segreto è nelle parole dell'altro malfattore: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». Egli è davvero un innocente: allora perché non scende dalla croce e non salva se stesso? Ma perché è venuto per salvare noi, non se stesso! Se doveva salvare se stesso non sarebbe venuto proprio sulla terra! E' un innocente, ha un cuore d'amore e il suo è un atto d'amore.  Perché Lui non vive per se stesso, ma per noi. 
Questo è un re!  Un re vero, autentico, è quello che si occupa del popolo, che fa il bene del popolo.
Questa è una sferza per tutti coloro che hanno potere su questa terra, per tutti coloro che sono al governo delle Nazioni. Cos'è un re, chi è una persona che ha potere? Uno che perde la vita per gli altri

Ma questo è solo un punto di partenza nella riflessione su questo testo, perché noi arriveremo a qualcosa di meraviglioso che si aprirà in questa scena così tenebrosa, fosca. 
Siamo sulla croce, immersi nel dolore; siamo nella morte incipiente che già sta mordendo i corpi di questi poveri disgraziati ed ecco che questo re emetterà la sua regalia: Lui  regalerà il Paradiso. Questo uomo che non ha niente, regalerà la cosa più grande: il Cielo. A chi la regala? Ad un malfattore: sarà il primo santo che è entrato in Paradiso dopo Cristo: «oggi sarai con me  nel paradiso».
Questo vuol dire tante cose: innanzitutto che il Paradiso è stare con Cristo
"Siccome oggi sei qui con me sulla croce, starai con me anche in Paradiso. Stare con me è stare in Paradiso." 
Cos'è che cambia un luogo, che può essere anche il patibolo, in un'anticamera del Paradiso? Lo stare con Cristo. Noi non dobbiamo preoccuparci di dove stiamo, ma di con chi stiamo. Non dobbiamo preoccuparci delle situazioni che si vanno creando attorno a noi, ma se stiamo con Cristo.
Come fa quest'uomo, ladro fino in fondo, a "rubarsi" anche il Paradiso? Quale saggezza ha mostrato questo malfattore per avere così tanto da Cristo? Quest'uomo, nelle sue poche parole, in realtà dice una serie di cose che sono molto importanti: innanzitutto riconosce le sue colpe.  
Lui ha appena detto: "io sto ricevendo il giusto per le mie azioni". Cominciamo col riconoscere le nostre colpe: questo ci mette fuori dall'inganno della tenebra e ci spalanca le porte del Paradiso. 
Secondo, riconosce l'innocenza di Cristo: "Egli che male ha fatto? E' innocente". 
Cominciare a mettersi davanti a Dio senza incolparlo, senza rimproverarlo: "Ma che cosa ha mai fatto contro di me? Perché lo rimprovero tanto? Lui è innocente"
Ancora: riconosce in un morente un potere. «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». 
 Riconosce il potere autentico, che non è il potere di chi sta crocifiggendo Cristo, ma di Cristo che sa amare chi lo crocifigge. Questo è il potere vero!
Il potere in sé non è una cosa cattiva, ma può essere un'occasione, anche di bene. Occorre però capire qual'è il potere vero e qual'è il potere falso. Il potere dei governanti della terra è un potere falso, è un potere da quattro soldi, è un potere che passa... Il potere vero è il potere di amare. Il fatto che Cristo decida di non scendere dalla croce dimostra qualche cosa che Lui ha la possibilità di fare: qualcosa che nessuno sa fare! Questo è veramente un re. Egli potrebbe scendere dalla croce e non lo fa: questo è il vero potente. 
Il malfattore crede, in fatti, che Egli è davvero un Re.  Vede in quest'uomo la verità della scritta che Egli porta sopra il capo: INRI, Gesù Nazareno Re dei Giudei.  Riconosce in Cristo l'unico potente. 
La cosa, infine, più assurda che crede questo malfattore, è che questo uomo che sta morendo in croce ha un futuro: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Nonostante le apparenze, il malfattore crede che quest'uomo morente, crocifisso, ha un "dopo".
[Quest'uomo non chiede di essere tirato giù dalla croce, né chiede che Cristo scenda da lì. Il ladrone cattivo chiede: "salvati e salva anche me!" Il ladrone buono dice: "vai al tuo Regno e lì porta anche me". Entrambi chiedono il cambiamento della situazione, ma mentre il primo vuole il cambiamento istantaneo, l'altro è aperto al futuro. Capisce che forse quella situazione lo sta portando da qualche parte... 
E solo adesso Cristo parlerà: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso». 
Lo stanno insultando, lo stanno torturando, ma lui non dà alcuna risposta. Non dice niente; parlerà solo a quest'uomo qui, perché ha aperto la prospettiva del futuro. Finalmente qualcuno che inizia a capire cosa sta accadendo lì, sulla croce! 
E questo futuro sarà azzerato da questa relazione con Cristo: «oggi sarai con me nel paradiso». L'esperienza cristiana dell'abbandono a Dio, nel nostro dolore, è un'esperienza curiosissima: è aver aperto il cuore a qualche cosa che Dio solo sa quando si risolverà, eppure sperimentare che la pace già oggi entra nel nostro cuore. Tutto questo non è ancora compiuto, eppure io già sono fuori, proiettato verso il futuro, e qualcosa è già cambiato dal di dentro.
Cosa è stato il resto del patibolo per quel ladrone? E' stato un tunnel con la luce in fondo. Il dolore c'è ma c'è già anche la luce: ormai so dove sto andando. Per l'altro malfattore invece è rimasta l'assurdità del dolore e basta.
Chi è il nostro Salvatore, chi è il nostro Re? Uno che non ci toglierà dalla croce ma ci darà il Paradiso. Non ci toglierà dalla croce se non quando questo è nel suo piano, ma sicuramente ci darà il Paradiso, per mezzo della croce stessa. Per il ladrone quella croce è diventato il luogo dove ha trovato il Signore Gesù. E per assurdo l'esito tragico, fallimentare della sua vita è diventato gloria.]
Dobbiamo imparare da questo ladrone sapiente. Egli infatti non è tanto "buono", ma sapiente, sa pregare. Il problema, infatti non è tanto essere di qualità, migliori degli altri, ma saper chiedere e saper riconoscere chi è il re vero. Saper chiedere, a Chi può darcelo, il regalo più importante, la cosa che veramente conta.
Che il Signore ci dia, in questa festa di Cristo Re, di somigliare a questo malfattore: riconoscere i nostri peccati, riconoscere l'innocenza di Dio, credere al Suo Regno e all'opera che Dio porterà a compimento e diventare sudditi di questo Re e smettere di essere sudditi di altri re.
[Egli forse non ci toglierà la miseria della nostra vita, ma ci porterà, per mezzo di questa miseria, nel cielo.]

don Fabio Rosini


22/11/13

Quando sarai triste... - Romano Battaglia


Quando sarai triste siediti sul ciglio della strada e attendi che il vento ti porti la voce dell’ignoto. Ascolta in silenzio quello che la voce ti dice e poi alla luce del sole, chiediti se tutto ciò è possibile. 
Rimani così nella calma sino a quando dal cielo scenderà la sera perché anch’essa avrà un messaggio per te.
Rimani seduto sul ciglio della strada sino a quando si accenderanno le stelle perché anche loro avranno qualcosa da dirti.
Poi verrà la notte con la sua lunga pausa di riflessione e ti verrà in mente la vita. 
Allora pensa di essere sempre te stesso a qualsiasi costo e non fingere mai con gli affetti. Accetta con serenità il passare degli anni perché anche la vecchiaia fa parte della vita. Non avere paura della vita.
L’uomo dimostra di essere piccolo o grande a seconda dell’importanza che dà alle grandi e piccole cose.
Ricorda che se sei venuto al mondo hai pieno diritto di esistere ed essere felice. Cerca un dio anche se non sai dove abita e abbi sempre comprensione per tutti.
Rimani seduto sul ciglio della strada fino all’alba. Passerà qualcuno e ti chiederà se ti sei perduto, e tu allora risponderai che ti stai cercando.

Romano Battaglia



18/11/13

La cenere e il fuoco - Enzo Bianchi

Fuoco e cenere non sono due elementi estranei: uno è strettamente legato all’altro. Il fuoco, bruciando, produce la cenere e la cenere testimonia che c’è stato il fuoco. Anzi, la cenere è capace di conservare a lungo la brace, in modo che il fuoco possa di nuovo accendersi, ardere, essere ravvivato. Proprio perché ho vissuto a lungo con un camino in cella, proprio perché, mancando di luce elettrica per tredici anni, soprattutto alla sera stavo presso il camino a meditare e a pregare, ho coniato questa immagine della chiesa quale cenere e del Vangelo quale fuoco-brace. D’altronde, Gesù stesso ha parlato del Vangelo quale fuoco che egli è venuto a portare sulla terra, fuoco che desiderava tanto veder ardere (cf. Lc 12,49).

La chiesa, costituita da noi uomini e donne, la chiesa evidente nei papi, nei vescovi e nei fedeli, religiosi o laici, la chiesa che i non cristiani vedono è una realtà sovente misera, inadempiente rispetto alla sua vocazione, ma è una necessità per il Vangelo. È lei che lo conserva e lo trasmette di generazione in generazione; è lei che permette che un uomo o una donna venienti nel mondo conoscano Gesù Cristo, il Vangelo, e decidano la loro vita per lui o senza di lui; è lei che con tutti i suoi mezzi – liturgia, sacramenti, predicazione, azioni di carità – plasma la comunione con il Signore; è lei la matrice che, grazie allo Spirito santo, diventa corpo di Cristo nel mondo. Dunque la chiesa è assolutamente necessaria! Ma tutto questo la chiesa lo fa più o meno bene, e a volte contraddicendo proprio il Vangelo che custodisce, trasmette e insegna. Soprattutto il potere, la ricchezza di cui la chiesa si ammanta, fanno sì che il fuoco del Vangelo nella comunità cristiana produca cenere più che fiamma… Perché il fuoco può essere fiamma che risplende, illumina, sfavilla, fiamma ardente, oppure può diventare un consumarsi fumoso del legno. C’è infatti la possibilità che la legna non bruci bene, che si consumi a poco a poco senza fare fuoco, e allora la cenere si accumula e seppellisce la brace.

Sì, è proprio così: la chiesa può seppellire, nascondere il Vangelo. Il Vangelo resta in essa, non viene meno ma si occulta, e la cenere aumenta, cresce, finché diventa difficile non solo scorgere un bagliore di fuoco, ma addirittura percepire il tepore della brace sepolta. Ma la brace nascosta rimane: uomini e donne anonimi, conosciuti solo da chi li incontra, vivono il Vangelo e del Vangelo mostrano fiammelle portate nelle loro mani, che proteggono la fiamma dai colpi di vento. È il Vangelo vissuto quotidianamente e in modo nascosto da tanti cristiani, vissuto nella carità, nella perseveranza, nel non contare nulla, nell’essere irrilevanti. Si dirà: fuoco debole, anzi neppure fuoco, ma solo brace. Ecco la verità della chiesa: tanta cenere che nasconde la brace, dove il fuoco è custodito, conservato. Domina, alla vista della realtà che si impone, il grigio-nero, magari un mucchietto fumigante di cenere, eppure il fuoco del Vangelo è conservato.

Questa situazione a volte dura decenni, secoli: la cenere appare tantissima, il fuoco sembra essere spento, il Vangelo non è più visibile e la chiesa occulta il Cristo, anziché farlo risplendere. È la lampada sotto il moggio (cf. Mc 4,21 e par.)! E poi ecco, a un tratto, un po’ di vento nella cenere, vento che scopre i carboni ardenti; ecco qualcuno che rimuove la cenere, e allora il fuoco si accende di nuovo e divampa; ecco qualcuno che scopre le braci e vi depone un piccolo legno che si accende. Sì, il fuoco c’era, e ora arde! A volte penso che alcuni santi sono stati quelli che hanno smosso la cenere abbondante e hanno posto un piccolo legno, la loro vita, nel fuoco del Vangelo, permettendo al Vangelo di ardere e illuminare. Altre volte qualcuno con coraggio e forza toglie la cenere spessa da sopra la brace, ed ecco il fuoco, fuoco come a Pentecoste! Questi uomini, queste donne non sostituiscono la brace, non accendono un altro fuoco: muovono la cenere, e questo imbarazza e dà fastidio… Eppure senza di loro il fuoco resterebbe a covare, non tornerebbe ad ardere. Sarebbe fuoco seppellito, che tutt’al più riscalda il camino ma non la stanza, riscalda la chiesa ma non l’umanità. Gregorio Magno, Francesco e Chiara, Caterina da Siena, papa Marcello I, papa Giovanni e ora papa Francesco – per ricordare solo alcuni uomini e donne della chiesa di Roma – avevano la passione della “ricerca del fuoco”, non bastava loro la cenere. E nel cercare il fuoco hanno rimosso la cenere, hanno portato loro stessi nella cenere e, raggiunto il fuoco, hanno fatto sì che questo ricominciasse ad ardere.

Sì, il Vangelo nella chiesa resta sempre, non viene meno. E anche quando la cenere fosse una montagna, sotto di essa il fuoco non finisce; attende piuttosto qualcuno che lo cerchi, lo disseppellisca e gli permetta di ardere. Nella mia vita ho visto la cenere, poi un’ora in cui risplendeva il fuoco come in una novella Pentecoste, con Giovanni XXIII e il concilio, poi di nuovo cenere, tanta cenere, fino a far dubitare qualcuno della permanenza del fuoco. E ora nuovamente un po’ di cenere è rimossa… Rimuovere la cenere è compito di ogni cristiano, se cerca il fuoco, se cerca il Vangelo. Ma oggi c’è qualcuno come papa Francesco che chiama, che invita i cristiani a farlo e lo fa lui stesso con autorevolezza: dobbiamo dunque esultare!


Enzo Bianchi
tratto da  "JESUSnovembre 2013


17/11/13

Le persecuzioni e la testimonianza - XXXIII T.O.

Lc 21, 5-19


In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». 
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. 
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».



Alcuni parlano del Tempio che era ornato di belle pietre e di doni votivi, e Gesù dice:
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».  Parla del Tempio? Anche. Il suo discorso si allargherà ad una descrizione devastante, angosciante, della fine della cose, della distruzione delle cose. Ma accogliamola questa frase: perché è una frase crudamente vera. 
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Tutte le cose volgono al termine; tutte le cose sono in travaglio e vanno verso qualche cosa che non sappiamo cos'è. La nostra vita, il nostro essere catturati da tanta bellezza che noi crediamo essere solida... tante cose che hanno la loro apparenza... ma qual'è la loro durata? 
E' angosciante che l'uomo si debba confrontare col fatto che le cose finiscono. Perché non rimarrà "pietra su pietra"? Questa Parola è qualcosa che sembra solo negativa e destinata a tagliare con un colpo d'accetta secco la nostra esistenza e le cose belle che ne fanno parte. 
Ma Gesù inizierà a spiegare "il segreto della fine", il segreto della "distruzione". 
Non bisogna lasciarsi ingannare e non "sbagliare" Messia. Molti addomesticano la stessa Parola di Dio, per tirare fuori argomenti "catastrofisti" che Gesù non vuole assecondare. "Il tempo è vicino", ma non è questo il punto: dice Gesù, non andate dietro a questo tipo di visioni. Quando sentiamo parlare di guerre e rivoluzioni, non ci dobbiamo terrorizzare, perché queste cose non sono la fine
Quando nella vita della persona arriva qualcosa che lo fa misurare con la distruzione: non è quella la fine. Non è quello il punto d'arrivo: quelle cose sono una strada, un percorso. 
E mentre si sollevano nazioni contro nazioni, regno contro regno... e ci sono terremoti, carestie e pestilenze... fatti terrificanti, segni grandiosi nel cielo... Ossia quando la vita salta per aria, quando le cose diventano instabili, quando le cose più certe (il cielo, le stelle, la luna, che rappresentano la "stabilità") iniziano a dare segnali preoccupanti...  potremmo pensare che queste cose sono fuori di noi e non ci riguardano, dice Gesù: queste cose vi toccheranno personalmente. Ci saranno persone che vi metteranno le mani addosso, che perseguiteranno... Ma perché tutto questo? Che lettura gli diamo?

Tutto questo, in realtà, sembrerebbe abbastanza lontano da noi... Ma chi sono questi "voi" che saranno afferrati, maltrattati e perseguitati? Sono i discepoli di Gesù. Certo, queste cose non possono succedere a quelli che non seguono questo Messia, che non seguono questo Cristo. Non c'è problematica di questo genere per chi non segue il Signore Gesù. Seguire Gesù implica il problema di trovarsi, prima o poi, in mezzo a questo macello, in una situazione in cui vengono a mancare punti di riferimento sicuri. E quando la situazione diventa problematica, uno si trova a portare il peso, la colpa, i problemi della società addosso; a trovare qualcuno che ti accusa, ti calunnia, ti carica di responsabilità che non hai... Questo succede ai santi, ed è successo tante volte a coloro che sono costruttori del Regno dei Cieli. E il "regno di questo mondo" si ribella, aggredisce, morde, distrugge. 
Da questo testo, un cristiano, ha dunque una chiave per capire che in realtà tutte queste sofferenze sono occasioni. Essere perseguitati, essere consegnati alle sinagoghe, alle prigioni... tutto questo è occasione per dare testimonianza.  La nostra fede non è un sistema di sicurezza contro gli infortuni, ma è una risposta, quando Dio ci destina agli infortuni, quando dobbiamo affrontare i problemi e la cattiveria umana... e tutte quelle cose che sono più frequenti di quanto si possa pensare. In quel momento bisogna pensare: questa non è una distruzione, questa non è la fine, questo è l'inizio di un'avventura, l'avventura di una missione, essere chiamati a fare qualcosa di bello. Un terremoto può essere una chiamata all'amore; un'ingiustizia è una chiamata al perdono; un tribunale iniquo è una chiamata alla testimonianza. Ed è inutile, dice questo Vangelo, "prepararsi prima la difesa" perché queste cose non le gestisci mai come penseresti.
"Prepararsi la difesa": c'è gente che passa la vita a "prepararsi". C'è gente che passa la vita a rinserrarsi dentro i propri sistemi di sicurezza per evitare problemi... e così si diventa ingabbiati dentro alle proprie sicurezze. E' inutile prepararsi prima, perché in quel momento arriva la grazia "propria" di quel momento. E' inutile passare la vita ad organizzarsi perché non succedano problemi... perché alla fine il problema sarà che mi sono organizzato! Fare questo è stupido, è futile. 
Occorre invece aprire il cuore a questa luminosa speranza che c'è in questo testo che può apparire solo tenebroso. Tutte queste cose sono occasioni.
Essere traditi persino dai genitori, dai fratelli, dai parenti, dagli amici, essere uccisi, essere odiati da tutti.... vuol dire trovare la strada per salvare la vita che vale, per perdere la vita che non conta. Perché qui c'è un paradosso:
«
uccideranno alcuni di voi
» ma 
«
nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto
». Come si spiega questa contraddizione? Se vengo ucciso, anche i "capelli del mio capo" non sono perduti? 
C'è qualcosa che viene ucciso e c'è qualcosa che non si perde. Io posso perdere la vita, ma non la salvezza. Questo è ciò che si sperimenta in questo stato di persecuzione, di sofferenza, di assurdità... quando "va in onda" il caos nel mondo e il caos ti viene addosso. In quel momento forse una vita si perde, ma c'è la salvezza che uno può acquisire in Gesù Cristo, che nemmeno un capello del mio capo non è redento, non è salvo.

«
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». 
Allora di fronte alle cose che ci angosciano nella vita, se non siamo seguaci di Cristo, possiamo scansarle, evitarle... passare la vita a ripararci da queste; oppure possiamo accoglierle, sapendo che è la perseveranza quella di cui abbiamo bisogno, quella capacità di stare nelle cose, di "stare sotto ai fatti" (traducendo dal termine greco). Essere di fronte alle cose come chi crede che Dio sta portandomi da qualche parte, verso qualcosa che va molto oltre quella che è l'apparenza di questo momento. Posso anche morire, ma nemmeno un capello del mio capo non è redento.

don Fabio Rosini


16/11/13

I nostri idoli e Dio (2) - André Louf


Maledire Dio

Dio ci sorprende con la sua pazienza disarmante: a volte lascia che questo stato di illusione duri anni, per poi intervenire all’improvviso nella nostra vita, per farvi irruzione e detronizzare in un istante tutti questi idoli mandandoli in frantumi.
E’ quanto di meglio ci può capitare, ma è anche un’esperienza terribile, che inizia in modo brutale, con una tentazione dolorosa e sconcertante. Meno eravamo coscienti di sacrificare al nostro idolo e più velocemente affiora in questo momento la peggior bestemmia mai sgorgata nel nostro cuore: Dio non esiste, Dio è morto! Dio era l’illusione
Effettivamente il Dio davanti al quale per anni ho bruciato incenso, quel Dio non esiste, non è mai esistito al di fuori della mia immaginazione: quel Dio è morto. (…) Anche una vita di fede impegnata in diversi modi per il regno di Gesù può inconsciamente accompagnarsi all’idolatria ed essere, a nostra insaputa, nient’altro che opera delle nostre mani. Misuriamo questa vita sul metro dell’ideale che ci siamo fissati o che ci imponiamo a noi stessi e agli altri e al quale siamo pronti a dedicarci, progettando incessantemente di realizzarlo meglio. (…) A volte abbiamo l’impressione che questo ideale sia troppo elevato per noi, che alla fine ci sfugga. Grazie a Dio! Ci sfuggirà e deve sfuggirci. (…) La conseguente delusione e l’impressione costante di scacco che ci affligge costituiscono la piccola fessura, appena visibile, attraverso la quale la grazia cerca di infilarsi in noi. (…)
Il passaggio dall’idolo al vero Dio crea sempre un momento di sconforto, in cui siamo esposti alla dolorosissima tentazione di credere che Dio forse è veramente morto, oppure che, se esiste, non è Dio ma un terribile tiranno. Eccoci spinti al sacrilegio e alla bestemmia! E, meraviglia delle meraviglie, al cuore stesso della Bibbia: in certi libri della Bibbia la bestemmia è presente. (..) Il libro di Giobbe ne è l’esempio più lampante: vibra e scoppia di bestemmie. (…) Forse la bestemmia è un primo modo, molto imperfetto o, piuttosto, a rovescio, di dire qualcosa che si avvicini un poco alla verità su Dio.
Giobbe non è capace di riconoscere Dio c’è un muro, il muro della buona teologia del suo tempo. Giobbe pensava che, essendo giusto, tutte le prove dovessero essergli risparmiate. Tale era l’immagine che ci si faceva di Dio a quell’epoca: Dio punisce solo i peccatori, mentre i giusti vengono ricompensati con la prosperità. (…)
“Dio ti punisce - dicono a Giobbe - (…) e se gli piace trattarti così, significa che ne avevi bisogno. Dio vuole convertirti e correggerti: basta che tu riconosca di aver peccato e i tuoi beni ti saranno restituiti”. Il Dio di cui parlano (…) è il Dio di un sistema, a misura umana, facile da consolare e da calmare, ma altrettanto facile da lusingare e da ingannare. E’ il Dio che possiamo attirare dalla nostra parte, rendere favorevole (…) E’ il Dio di cui abbiamo bisogno per essere degni di ammirazione, il Dio sui cui applausi possiamo sempre contare. Naturalmente a condizione di fare sempre al meglio ciò che è in nostro potere fare… (…)
Giobbe ha bisogno di un Dio che lo approvi e si congratuli con lui, che lo applauda per il bene che ha fatto. E se Dio non lo fa, Giobbe lo accusa e minaccia di intentargli un processo pubblico (…).Giobbe vorrebbe tutto sommato essere il salvatore di se stesso. Giobbe ha ancora bisogno di Dio se la propria destra può salvarlo? (…)
Ma quando il Dio vivo e vero si rivela, deve fare i conti con questo atteggiamento inconscio di Giobbe e con l’idolo che solo lui può infrangere. Giobbe stesso afferma che Dio interviene in modo sconcertante, che lo assale. Urla il proprio lamento:
«Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero… Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete… Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre… Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, ha sradicato, come un albero, la mia speranza.. Insieme sono accorse le sue schiere… e hanno posto l’assedio interno alla mia tenda» (Gb 16, 12-14).

Le opportunità di Dio

Come reagisce Giobbe e come reagiamo noi a questa sfida di Dio? Facciamo così fatica ad abbandonare il nostro idolo per convertirci al vero Dio che ci sono solo due sbocchi possibili: negare Dio oppure negare noi stessi, cioè la bestemmia o il suicidio. O “Dio è morto”, oppure “Magari non fossi nato!”. Quando il nostro idolo va in frantumi, è tale il nostro smarrimento ed è talmente grande la nostra vulnerabilità di fronte al vero Dio che ci sembra più facile negare lui, oppure noi stessi - se Dio esiste, allora è meglio che noi scompariamo! - piuttosto che arrischiarci a un autentico incontro con lui. «Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: "Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E' stato concepito un maschio! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce"» (Gb 3, 1-4). Giobbe anela alla morte e lo ammette, la cerca come altri cercano una sorgente d'acqua viva.  Che Dio lo riduca a nulla, lo stermini: «Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un qualche conforto e gioirei, pur nell'angoscia. Che non mi risparmi!»  (Gb 6, 9-10) (...)  Lo sguardo stesso di Dio diventa insopportabile (...) : «Che è l'uomo che tu ne fai conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai  inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell'uomo? Perché m'hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso? ... Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!» (Gb 7, 17-21). (...) Giobbe accusa Dio di fare di lui il bersaglio della sua azione sconcertante: ai suoi occhi Dio è un mostro, un custode disumano. Quest'ultimo termine è forse la bestemmia più orribile che Giobbe abbia potuto inventare. Stravolge le parole stesse di Dio, per poi scagliargliele contro. Nella Bibbia, infatti, Dio è chiamato sovente lo Shomer Jisra'el, il custode d'Israele, colui che con sguardo attento e paterno osserva il suo popolo (cf. Sal 121). Per il momento Giobbe non può sopportare questo sguardo d'amore: è uno sguardo che, senza motivo spiegabile, lo ferisce a morte.

Il Dio conosciuto per sentito dire

Ma questo sguardo è lo stesso che può anche curare Giobbe e infine guarirlo: dopo interminabili bestemmie, il libro di Giobbe termina con un epilogo liberatore. Attraverso lo smarrimento e la disperazione, Giobbe ha pur imparato qualcosa, ha potuto intuire il volto del vero Dio: «Allora Giobbe rispose al Signore e disse: "Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto"» (Gb 42, 1.3b-5).  Il libro di Giobbe non si dilunga oltre sul modo in cui Giobbe è arrivato a questa comprensione, ma queste poche parole sono sufficienti per intuirlo. Giobbe non conosceva il vero Dio: si aspettava infatti un semplice idolo domestico, modellato da lui stesso, a sua misura e secondo i suoi gusti, l'opera delle proprie mani. (...) All'improvviso, al cuore della prova cui il suo idolo non può fornire soluzione, si imbatte nel vero Dio, che è fuoco divorante. (...) Lo sguardo di Dio è infatti è così diverso da come se lo aspettava... E' uno sguardo che non approva né condanna, ma che lascia a Giobbe tutta la sua libertà: è uno sguardo unicamente d'amore, di un amore infinito. Dio rimane sempre accanto a Giobbe, nella buona come nella cattiva sorte, nella malattia come nella morte. Dio non è a misura umana, non risponde puntualmente ai desideri di Giobbe, né ai suoi timori: Dio ascolta Giobbe e lo prende così com'è. Non ascolta solo le sue buone intenzioni e i suoi progetti, ascolta anche le sue bestemmie, le sue invettive sacrileghe, la sua disperazione: ascolta con attenzione e amore. (...) Ora gli occhi di Giobbe si possono aprire. Solo la disperazione poteva insegnare a Giobbe qualcosa su Dio. 

Anche noi conosciamo Dio solo per sentito dire, a volte addirittura per molti anni. Anche noi, nella prova, reagiamo subito come Giobbe: il vero Dio viene a infrangere qualcosa in noi e noi cerchiamo di difenderci. Dio viene a spezzare i nostri idoli. C'è in noi una tale sicurezza, alla quale siamo pronti ad aggrapparci fino alla disperazione e contro la quale Dio non trova antidoto. Il suo scopo è quello di toglierci questa sicurezza, ma questo ci fa talmente soffrire e noi siamo talmente delusi da Dio che preferiamo maledirlo e bestemmiarlo, e a volte arriviamo fino a dubitare della sua esistenza, vorremmo vendicarci di Dio. Tutto questo non è grave perché anche nelle nostre bestemmie più amare continuiamo a gridare la nostra fede. Dietro ogni bestemmia si nasconde il vero volto di Dio, anche se viene presentato a rovescio. Dio stesso ci prende per mano per spossessarci di ciò che meglio conosciamo e a cui siamo attaccati corpo e anima: il piccolo idolo domestico che ci trasciniamo dietro da anni e al quale offriamo un culto come al vero Dio.
Eccoci spalle al muro: (...) come Giobbe, eccoci diventati il bersaglio vivente che  Dio vuole mandare in frantumi per costruire qualcos'altro. Egli è infatti colui che «ferisce e medica la piaga» (Gb 5,18): dovremo accettarlo con una calma fiduciosa e un umile abbandono. Dovremo aspettare, con una gioia segreta ma profonda: a poco a poco Dio ci apre gli occhi, il suo sguardo libera il nostro. Finora l'avevamo conosciuto solo per sentito dire; presto, molto presto, lo vedremo con i nostri occhi.


André Louf

tratto da "Sotto la guida dello Spirito" ed. Qiqajon


14/11/13

I nostri idoli e Dio (1) - André Louf

(…)  «Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Piccoli figli, guardatevi dagli idoli!» (1Gv 5,20-21).

La sposa infedele

Guardarsi dagli idoli e confessare l’autentico Dio sono aspetti costitutivi dell’esistenza del credente: questi si trova incessantemente nello sconvolgimento della conversione, nell’abbandono degli idoli per convertirsi al Dio unico e vero.

L’esistenza di un solo Dio è diventata chiara per Israele a poco a poco: nei testi più antichi della Bibbia è dato per scontato che ogni popolo possieda il proprio dio, e quindi Israele ha diritto al suo Dio così come gli altri popoli dispongono del loro.
Con il tempo emerge che questi altri dèi non sono altro che idoli privi di significato, mentre il Dio di Israele è il Dio unico e universale, un Dio per tutti, il Dio vero e sempre fedele, al di fuori del quale non c’è Dio: «Ascolta, Israele: JHWH è il nostro Dio, il solo Dio, JHWH solo. Tu amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6, 4-5).  Un Dio talmente più grande rispetto ai nostri piccoli dèi privati che non ce ne si può fare un’immagine, non può essere colto né fissato in forme legate allo spazio. Ma esiste per Israele, in virtù del suo amore e della sua forza (…) Egli è l’inesprimibile e l’Ineffabile di cui si potrà avere esperienza solo all’interno dell’alleanza conclusa con il suo popolo. Un’alleanza eterna, che attraverserà i secoli, e in cui la fedeltà e la pazienza di Dio prevarranno sempre sull’infedeltà degli uomini.
Israele tuttavia sarà fortemente tentato di allontanarsi da un Dio lontano e invisibile per volgersi alle forme di culto ben più concrete, proprie delle popolazioni circostanti (…): i riti delle religioni naturali sono molto più attraenti della fede spoglia nell’Inaccessibile.

L’idolatria resta sempre una sorta di vena sotterranea nel popolo credente; idolatria da cui Israele deve incessantemente essere liberato perché il pericolo di allontanarsi dal vero Dio e di essere sollecitato dagli idoli è enorme. (…)
Nella maggior parte dei casi, molto prima che il problema diventi troppo grave, Dio interviene personalmente, delineando lui stesso la cornice dell’intervento che farà nella nostra vita.
In un modo o nell’altro corrisponde alla dinamica di ogni conversione, come l’ha descritta con efficacia Osea: 
«Oracolo di Jhwh: ecco, le sbarrerò la strada di spine e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima, perché ero più felice di ora”» (Os 2,8-9). 

Ritornerò traduce la nozione veterotestamentaria che esprime la conversione e che il greco dei Settanta rende con metanoeîn. Il racconto simbolico della sposa infedele che ritorna sui suoi passi per ritrovare il primo marito esprime nel modo più esatto ciò che la Bibbia intende per “conversione”: 
«E avverrà in quel giorno – oracolo di Jhwh – mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio Baal. Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal, che non saranno più nemmeno pronunciati… Ti farò mia sposa per sempre. ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai Jhwh» (Os 2, 18-19.21-22).

Dopo i numerosi profeti dell’Antico Testamento, anche Gesù (…) deve intervenire per liberare il suo popolo dal ritualismo. Per Gesù la difficoltà era maggiore: innanzitutto veniva a portare la buona novella definitiva, alla quale l’ebreo medio non era preparato (…); doveva rivelare il mistero più profondo di Dio: l’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. (…) Ma Gesù doveva morire a causa di questo messaggio, perché lo Jhwh degli ebrei del suo tempo, onorato con un culto quasi fanatico, era stato da loro trasformato a tal punto in un falso dio che non erano più in grado di riconoscerlo in Gesù e nel Padre suo.
Anche la giovane chiesa di Gesù dovrà lottare contro questa tentazione: il cristianesimo aveva appena messo radici nei cuori e l’evangelo cominciava appena a portare frutti, che già si affacciava la tentazione di deviare verso le più svariate forme di idolatria (…) : non la legge ma solo la fede, l’abbandono in Gesù ha il potere di portare salvezza.

E i falsi idoli di oggi?

Dobbiamo chiederci se [questo pericolo] non si applica a noi, ancora oggi. Pensiamo forse che, almeno nei nostro paesi, venti secoli ininterrotti di cristianesimo abbiano allontanato il pericolo dell’idolatria? Ma ci sono numerosi tipi di idoli, e i più pericolosi non sono quelli che plasmiamo con le nostre mani bensì quelli che portiamo inconsciamente nel cuore. Non esiste forse ancor oggi una religiosità che ha poco a che vedere con l’azione dello Spirito in noi? (…) Anche noi potremmo deviare, a volte impercettibilmente, verso pratiche che non hanno nulla a che vedere con l’evangelo di Gesù, e sulle quali la grazia ha pochissima presa; atteggiamenti che al contrario rischiano di paralizzare la grazia nei nostri cuori. (…)
Ciascuno di noi porta in sé dei germi di culti naturali, di osservanze legaliste, di ritualismi. La maggior parte degli uomini prova un sentimento vago e universale di Dio: esiste un Dio panteista, così come ne esiste uno romantico, c’è anche un Dio per i farisei – quel Dio al quale Gesù si oppose così strenuamente – grazie al quale possiamo porre tutta la nostra sicurezza fiducia in noi stessi e nelle nostre opere.

Un Dio simile ci sbarra la strada e ci impedisce di vedere il vero Dio e di riposarci in lui solo. (…) Anche la grazia può essere stornata in modo estremamente sottile, per essere offerta – nel momento stesso in cui è ridotta a nulla – in onore al nostro idolo. Anche la Parola di Dio può essere mutilata, al punto che Paolo arriva a scrivere che a volte è falsificata (cf 2Cor 4,2). La Parola può addirittura diventare una scappatoia, un pretesto per astenerci da un impegno nei confronti di Dio: possiamo maneggiare e manipolare la Parola di Dio con tale facilità da trasformarla in un baluardo fortificato attraverso il quale la grazia non può più aprirsi una breccia. (…)
La virtù, la generosità, i desideri di perfezione o di santità, la liturgia, le tecniche di preghiera, addirittura quella che consideriamo come la nostra preghiera più intima, gli stessi sacrosanti principi della morale possono diventare un modo di fuggire Dio, uno sforzo disperato per evitare di ascoltarne la voce, per nasconderci lontano dal suo volto e da ciò che vuole dirci. Perfino quello che facciamo per gli altri e per la chiesa di Cristo può essere solo un espediente, estraneo al nostro io più profondo, molto lontano anche da Dio e dalla sua voce nel nostro cuore. (…)
Ammettiamo onestamente di correre tutti questo rischio e anche di aver a volte ceduto all’illusione, bruciando ogni tanto qualche grano d’incenso davanti al nostro idolo. Eppure, anche questo è ancora una grazia e, per molti di noi, la prima grazia che ci tocca in sorte inevitabilmente: poco alla volta ci rendiamo conto che, durante lunghi periodi della nostra vita, siamo rimasti in quest’illusione, tagliati fuori dalla grazia e quindi anche da Dio, mentre continuavamo a immolare sacrifici al nostro idolo domestico. 

D’altronde tutto questo non ha nulla di tragico (…) capita così frequentemente da poter dire che, per la maggior parte di noi, questa illusione costituisce una tappa normale; (…) Dio lo consente in modo provvisorio, e questo provvisorio può durare anche a lungo. (…)
Da secoli Dio si preoccupa instancabilmente di mostrarci il cammino verso di lui (…). Lo faceva nel passato con i pagani, continua a farlo con i pagani di oggi e quindi anche con il pagano che si nasconde in ciascuno di noi, sotto la maschera della fede.

André Louf

tratto da "Sotto la guida dello Spirito" ed. Qiqajon


13/11/13

Rinnovare il volto di Dio - A. Pronzato

«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)



Credere in Dio. Ma quale Dio?
Mi vado sempre più convincendo che il vero problema non è tanto quello del credere, quanto piuttosto: in quale Dio credere.
Ci sono, in circolazione, troppe immagini contraffatte, deformi, quasi caricaturali, di Dio.
Domina incontrastata, sopratutto, l'immagine del Dio giudice severo, giustiziere, inesorabile, che incombe sull'uomo.
Ad ogni immagine falsificata di Dio corrisponde una religiosità non autentica, adulterata e quindi pericolosa. Ed ecco, allora una pratica religiosa volontaristica, all'insegna dello sforzo, con la preoccupazione ossessiva di guadagnarsi dei meriti. 
Ecco una concezione della fede in chiave legalista, colpevolizzante, a causa della quale prevale la paura di non essere a posto, di non aver sistemato tutti i conti. Ecco un culto formale, senza spontaneità né vita. Ecco certe esistenze cristiane perennemente tormentate, problematiche, contorte, complicate fino all'assurdo. Ecco un rapporto con Dio visto esclusivamente in chiave di doveri, prescrizioni, divieti, dove tutto è ridotto a colpa, rimorsi, timori, angoscia, sena l'abbandono dell'intimità, della poesia, della musica, della contemplazione, della mistica, del gioco. Sì, proprio del gioco. (...)
Occorre avere l'onestà di ammettere che troppi cristiani esibiscono la loro fede come qualcosa di vecchio, stantìo, tetro, rancido, rigido. Manca, appunto, il senso del gioco. 
Secondo quanto afferma un proverbio inglese: «non smettiamo di giocare perché siamo vecchi; invecchiamo perché abbiamo smesso di giocare». E la cosa incide negativamente anche su un certo stile religioso. Urge, dunque, guardando a ciò che è accaduto a Cana, ritrovare il vero volto di Dio.
Vorrei esprimere tutto ciò sotto forma di colloquio diretto col Signore. Più o meno così.

Tu sei un Dio senza fischietto
Signore, Tu non hai mai usato il fischietto con me. E - ho motivo di ritenere - con nessuno.
Quando ero bambino, chiunque passasse sotto la finestra di casa suonando il violino o la tromba, il flauto o il piffero, la chitarra o la zampogna, l'organino o semplicemente l'armonica a bocca, o uno zufolo rudimentale, mi buttava in strada.
Chiunque suonasse uno strumento qualsiasi - corno violoncello piatti - mi poteva portare dove voleva.
Tu sapevi questa mia debolezza e tutte le volte - quante sono state! - che volevi sloggiarmi, hai pizzicato una corda, premuto un tasto, soffiato una nota, accennato un arpeggio, liberato nell'aria un motivetto... Se penso alla mia chiamata al sacerdozio, non posso dire di aver sentito una voce. Credo di aver avvertito un suono, forse qualche accordo d'organo, come quelli che tira fuori il mio amico Piero, o la mia "sirocchia" clarissa suor Raffaella...
E io ti ho seguito, sia pure arrancando (chissà perché le tue strade non sono mai in discesa...). Ma non ha fatto ricorso al fischietto, neppure le volte che mi presentavi la croce - e non sono state poche -, nemmeno quando pretendevi ti tenessi dietro lungo la via dolorosa - ed è capitato spesso -.
Comunque, se avessi adottato il fischietto, non sarei venuto perché non ti avrei riconosciuto. 
Ho incocciato, invece, parecchi tuoi rappresentanti che si sono intestarditi a farmi rigar dritto a colpi di fischietto. Il prete all'oratorio, dopo aver fischiato i falli nella partita di pallone, usava lo stesso fischietto per mandarci in chiesa (nella tua e nostra casa!), a Messa (alla tua festa!), o a confessarci (all'abbraccio del tuo perdono!), o al catechismo (ad ascoltare notizie sul tuo conto!).
Troppi, lungo la mia strada, mi hanno parlato di Te e delle tue esigenze modulando - si fa per dire - il messaggio a colpi di fischietto. Colpi secchi rabbiosi cattivi. E io avvertivo e avverto ancor oggi, che in quel fischietto sibila un fiato che viene da un fegato guasto, risultato inequivocabile di una cattiva digestione della tua Parola, un'aria gelida, non riscaldata dal cuore, non rigenerata dalla misericordia, non percorsa dalla tua tenerezza.
E provo una ripugnanza istintiva a imboccare quella strada irta di divieti e imposizioni, dove la tirannia del codice ha soppiantato il gusto dell'esplorazione e il fascino dell'avventura.

Tu sei un Dio che mi fa cantare
Io vorrei danzare, correre per i sentieri, ruzzolare nei prati, scavalcare le siepi, scorticarmi i piedi suoi sassi, appostarmi su un roccione per contemplare il paesaggio, arrampicarmi su un albero come Zaccheo, mettermi ad urlare al tuo passaggio come il cieco Bartimeo... 
E lor, invece, si accaniscono a mettermi in riga, impormi il silenzio, e farmi procedere a passo di militare, cadenzato, con la divisa inappuntabile, disciplinatamente, come a una parata ( o a un funerale?).
Io vorrei cantare a squarciagola. E loro mi ammoniscono che non sta bene. Mi costringono a gargarizzare formule che sanno di cenere. 
Io vorrei lodarti, inventando parole nuove, fresche, da innamorato. E loro mi cacciano nella strozza pagine ingiallite di vecchi libri carichi di polvere.
Perfino quando parlano d'amore, invece di imbastire un canto delicato, si preoccupano prima di tutto ossessivamente di scandirne le "regole" a colpi di fischietto che sembrano altrettanti segnali di allarme (...) sirene spiegate contro la vita e la spontaneità (...). 
Tu sei il Signore del canto e della danza e lor non si rendono conto che soltanto cantando e danzando lungo la tua difficile strada è possibile staccarsi dalle calcagna il demonio.
Tu hai fatto del Venerdì Santo una festa.
E loro riescono a trasformare tutte le feste in un cupo Venerdì Santo, senza nemmeno un pallido presagio di Risurrezione.

Tu sei un Dio che mi fa danzare
Signore, fa' che i tuoi rappresentanti, quando parlano di Te, non mortifichino la musica e la poesia, non abbiano paura della bellezza, non dimentichino la cetra.
E fa' che sul loro spartito non ci siano le aride norme di un codice, ma il canto gioioso del tuo Vangelo, molto più esigente e impegnativo. 
Signore, che nessuno mi faccia sentire in colpa se ho voglia di fischiettare, perché Tu mi metti in bocca il sapore della libertà e mi nascondi nel cuore il segreto della follia, e mi fai camminare su per un sentiero aspro verso l'appuntamento segreto del tuo amore. Signore, forse dico un'enormità: ma la tromba del giudizio universale mi fa meno paura del fischietto del tutore dell'ordine (che non è mai l'ordine sognato dalla fantasia del tuo amore...).
Signore, mi raccomando, non cessare di pizzicare almeno una corda su una chitarra qualsiasi,
di dare un colpo di manovella a un organetto sgangherato,
di soffiare una nota in una tromba sfiatata,
di picchiare un colpo su un tamburo ammaccato
- conosco quel richiamo! - 
e io, anche se carico di artriti e reumatismi e acciacchi vari,
mi precipiterò ancora in strada, come un bambino.
E mi lascerò portare ovunque Tu vorrai.
All'inferno, no. All'inferno proprio non voglio andarci.
... Perché ho troppa paura del fischietto.

Tu sei un Dio che mi tiri in faccia una canzone
Molti amano raffigurarti con il grosso libro della legge in mano. Altri hanno l'impressione che Tu gli sventoli sempre sotto il naso le pagine di un regolamento.
Io preferisco riferirmi allo stupendo canto della vigna (Is 5,1-7), lamento struggente per una vendemmia sfortunata, che diventa simbolo trasparente di un amore tradito.
Se non sto troppo a distanza, mi accorgo che quel poema risuona ancor oggi alle mie orecchie, non semplicemente come qualcosa di patetico; so che mi viene gettato in faccia, quale preciso e documentato capo d'imputazione per le mie innumerevoli inadempienze.
Sì. tu continui a rinfacciarmi, ossia a scaraventarmi in faccia, una canzone d'amore.
Signore, non stancarti di attendere, non smettere di replicare quella canzone.
Sarà il tuo canto appassionato, più che le minacce, a farmi prendere coscienza delle mie mancate risposte e a far maturare dentro di me una voglia di fiori e poi, chissà, perfino i frutti.
Guai se venisse a cessare quel canto d'amore...

Sei riuscita a farlo uscire allo scoperto
Maria, permettimi questo sfogo.  Non riesco proprio a capacitarmi come mai i teologi, pur abituati ad argomentare su una virgola, non abbiano sfruttato l'episodio di Cana per proporci l'immagine autentica di un Dio della festa, amante della vita e della gioia di vivere.(...)
Io ho il sospetto che quando hai fatto notare a Gesù che su quella tavola stava esaurendosi il vino, tu non fossi soltanto preoccupata per quella gente. Pensavi anche a noi.
Il tuo intento segreto era quello di far uscire allo scoperto tuo Figlio. E, attraverso di Lui, far emergere il volto nuovo di Dio, che liquidasse definitivamente le vecchie estinte immagini terrificanti di un Dio minaccioso, despota inesorabile, gendarme dell'universo, inquisitore implacabile, che gli uomini si erano fabbricati.
Maria, aiutaci tu a "rinnovare" il volto di Dio, cominciando col togliere tutte le incrostazioni abusive che ci abbiamo appiccicato sopra.
L'immagine cui leghiamo la nostra fede e la nostra pietà si è coperta della patina grigia dell'abitudine, che ha tolto splendore, bellezza, fascino a quel volto.  La distrazione, la sbadataggine, le ipocrisie, l'hanno reso scolorito, privo di espressività.
Rinnoviamo il mobilio di casa, la cucina, le stoviglie, le varie suppellettili, gli arredamenti dell'ufficio. E non ci preoccupiamo di quell'immagine sbiadita, polverosa, sempre la stessa, priva di vita, appiattita, spenta, insulsa o addirittura ripugnante. (...)

Maria aiutaci a scoprire il volto intriso di luce del Dio che ci guarda con simpatia e benevolenza., ci è favorevole, ci manifesta protezione, ci invita al gioco.
M;aria, facci scoprire che Dio sta "voltato" dalla nostra parte. Non è minaccioso ma ci comunica pace, serenità, tranquillità. Non  ci incute terrore, ma al contrario ci vuole liberi dalla paura.
Maria, Dio ha giocato con te quando ti ha scelta, oscura ragazza di un oscuro villaggio mai nominato prima nelle Scritture, proponendoti un'avventura inimmaginabile.
E tu hai avuto, a tua volta, la fortuna di giocare con Lui, anche se pochi ne parlano. Sì, perché non posso impedirmi di pensare che tu Gli abbi a insegnato anche a giocare, e abbia giocato più volte con Lui. (...)
Vedi, Maria. Le nostre vite assomigliano a quelle giare di pietra che stagliavano nella sala delle nozze a Cana. Pesanti - e tanto più pesanti quanto più vuote -, rigide, immobili, impassibili, inappuntabili, come sull'attenti...
Tu fai intervenire tuo Figlio. Ed ecco che comincia il gioco, e le anfore non stanno più al loro posto, si muovono, mettono tutto e tutti in movimento, riservano sorprese incredibili: sono state riempite d'acqua e regalano il vino.
Non è un gioco di magia.
E' il gioco della vita nuova del cristiano, vigilato non da un arbitro munito di fischietto, col regolamento in mano, ma da un Volto sorridente...


don Alessandro Pronzato

tratto da  «C'era la Madre di Gesù. A Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca»

12/11/13

Cinquantasei

A un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. Io ho cominciato ad accettare già da molto tempo … Io non posso fare nulla non l’ho mai potuto, posso solo prendere le cose su di me e soffrire. In questo sta la mia forza ed è una grande forza.

Etty Hillesum


09/11/13

La risurrezione dai morti - XXXII T.O.

Lc  20, 27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».


I sadducei pongono a Gesù un problema. 
I sadducei erano la classe più autorevole, concreta, del popolo ebraico; molto legati alla logica del potere, erano quelli che avevano in mano il Tempio di Gerusalemme ed erano molto vicini alla classe sacerdotale ed interlocutori del potere romano. Erano quindi "i potenti" della religione ed avevano una visione della vita molto immanente.
Qui abbiamo un problema che fa corto circuito con una realtà di oggi: si tratta di un tipo di mentalità che entra perniciosamente spesso anche nella nostra prassi cristiana. I sadducei, infatti avevano messo in piedi un sistema religioso senza risurrezione: credevano in Mosè, così come seguivano tutte le regole e i rituali della religione, ma non credevano che vi fosse la risurrezione. Avevano una visione della religione, del rapporto con il Dio di Israele, totalmente finalizzato a questa vita: tutto si risolveva in un problema di giustizia in questa vita. Il religioso diventava un "dato vantaggioso" per una vita pensata senza futuro.
Questa mentalità, abbiamo detto, rischia di infilarsi perniciosamente anche nel nostro cristianesimo. Si può predicare un cristianesimo senza risurrezione? Si può parlare di Vangelo, di tutto ciò che è la nostra fede cristiana senza toccare il tema del paradiso, della vita eterna...?  Si, riducendo il cristianesimo ad un'etica. Ovverosia, riducendo il cristianesimo ad un problema di giustizia, di correttezza, di coerenza, di opere buone... Questa cosa è molto più frequente di quanto noi possiamo pensare!  In realtà, oggi come oggi, parlare della escatologia (delle cose ultime, le cose che verranno alla fine!), tutto sommato va abbastanza di moda. Ma è piuttosto scomodo mettersi a spiegare che nessun atto cristiano è veramente tale senza implicare una relazione con la risurrezione: non semplicemente l'eternità o una vita post-mortem che tutto sommato moltissime religioni proclamano... ma la mia vita che risorge, la mia vita che si mantiene identicamente sé stessa oltre il muro devastante della morte. Pensate che Paolo, nella Prima Lettera ai Corinti deve dedicare un intero capitolo (il 15° capitolo) per parlare della risurrezione. E dice che se noi credessimo in Cristo solamente per questa vita, saremmo da compatire, perché seguiremmo una semplice filosofia, non qualcosa che viene dal Cielo, che è oltre la carne, e oltre ciò che i nostri genitori ci hanno consegnato. Perché se tutto quello che dobbiamo fare è solamente per questa vita qui, il cristianesimo e tutta la fede è solamente una questione di "cucina" del nostro essere: non c'è variazione, non c'è cambiamento, non c'è soprannaturale... e Gesù è solamente uno che ci ha dato delle indicazioni, non cambia la nostra vita.
Perché la risurrezione non è solamente il fatto di risorgere dopo la morte, ma è una qualità di vita che già assaggiamo oggi, è la vittoria sul nulla, che è già alla nostra portata. Credere alla resurrezione è essenziale, totalmente necessario, per ogni singolo atto di vero amore cristiano: quelle cose che si chiamano "opere di vita eterna"
Gesù infatti non risponderà ai sadducei che gli pongono un caso grottesco, assurdo, inconsistente: la storia di una donna a cui le muoiono sette mariti, uno dopo l'altro... e infine il quesito: di chi sarà moglie? Il grottesco nasce nel voler spiegare con le categorie di questa terra qualcosa che è "oltre", è più grande, di quello che noi vediamo qui. Non sono queste le categorie di riferimento per spiegare "l'eternità"; e infatti, dice Gesù: i figli di questo mondo prendono moglie, muoiono, vivono nella carne, vivono per sé stessi,  vivono secondo altre priorità - come emerge in altri testi evangelici - non entrano nel banchetto di Dio perché hanno altre cose da fare, piccole, mediocri... E questi siamo tutti noi, che possiamo vivere per cose mediocri, cose che muoiono, cose che non durano; invece i "figli degni della vita futura", degni della risurrezione dei morti (che sono tutti, ogni uomo, per cui il Signore Gesù ha portato la sua salvezza!) hanno delle caratteristiche: "non prendono moglie, né marito". 
Cosa significa? E' una proclamazione del celibato? No, è qualcosa di molto più profondo. Dobbiamo tornare a quel testo di San Paolo che dice: «Chi è sposato viva come se non lo fosse...». Nel prendere marito, nel prendere moglie, c'è un possesso, che non è più concepibile per chi ha conosciuto Cristo, laddove il matrimonio non è una mia iniziativa, ma una strada per il Cielo!
Nel nuovo rituale delle nozze si dice che il matrimonio è la nuova via della santificazione di questi due battezzati. Avevano la loro via di santificazione individuale, ora questa diventa il matrimonio: il fine del matrimonio è il Cielo. Io non "prendo moglie", io sto camminando per il Cielo, amando questa donna, amando questo uomo, costruendo una famiglia; altro è costruire una famiglia senza risurrezione; altro è costruire un mondo senza risurrezione! dove quello che conta è come sto oggi. E questo mi negherà degli atti di vera donazione, degli atti di vera oblatività.  Altro è vivere secondo il Cielo, che non appartiene più allo schema di questo mondo. L'indissolubilità del matrimonio cristiano, non è concepibile, non è veramente comprensibile senza la risurrezione, senza la capacità di vincere il nulla, che in tutti i rapporti, presto o tardi, si fa presente. 
Questi uomini rigenerati dal Cielo hanno altre relazioni, non vivono secondo la carne, non devono "far tornare i conti": non possono più morire, sono uguali agli angeli, ossia, non hanno più la morte come loro orizzonte di comprensione delle cose - tutte le cose hanno un confine, è come se noi avessimo una "riga nera" attorno alla nostra esistenza: è la nostra morte, la nostra fine - .  Invece gli uomini rigenerati per il Cielo, non hanno più quella "riga nera" di contorno: la morte non è l'ultima parola. E "sono uguali agli angeli": gli angeli sono dei messaggeri di Dio, sono gli inviati, vivono la loro vita come una missione. E' tutta un'altra forma di vivere. Altro è invece vivere il matrimonio per appagare la propria fame affettiva, altro è "vivere come inviati", vivere il matrimonio come una missione, altro è lavorare come una missione, altro è intrecciare relazioni come una missione... come inviati di Dio, come "parole" che Dio sta dicendo al mondo. Essere figli della risurrezione, essere servi del Dio dei vivi. 
Ecco, il problema fondamentale che noi abbiamo, non è avere dei beni, avere successo, avere moglie... ma essere vivi. Essere vivi. 

don Fabio Rosini

Cinquantacinque


Vi sono momenti in cui uno si trova nella necessità di scegliere fra il vivere la propria vita piena, intera, completa, o trascinare una falsa, vergognosa, degradante esistenza quale il mondo, nella sua grande ipocrisia, gli domanda. 

Oscar Wilde 

05/11/13

Felice l'uomo... - Salmo 1

Felice l'uomo 
che non camminò secondo il progetto dei malvagi
che non indugiò nella via dei traviati
che non sedette nel consesso dei derisori.

Invece, egli trova gusto nella Parola del Signore
la sua Parola sussurra giorno e notte.

Sarà come albero trapiantato in riva ai canali d'acqua,
che porta frutto alla sua stagione
e non vede marcire la sue foglie.
Tutto ciò che fa, gli riesce.

Non così i malvagi, non così!
Saranno come pula sospinta dal vento.
Perciò i malvagi non si alzeranno nel giudizio,
né i traviati nell'adunanza dei giusti,
poiché il Signore conosce il cammino dei giusti,
ma il cammino dei malvagi finisce nel nulla.




03/11/13

Zaccheo - XXXI T.O.

Lc 19, 1-10



In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

(...)

Piccolezze e piccinerie 
Zaccheo è un manager riuscito: ha fatto soldi a palate, grazie all’appalto delle tasse dall’invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani che squartano la finanza italiana, al centro il profitto, il resto è relativo. 
È rispettato, temuto dai suoi concittadini: basta un suo gesto e i soldati romani intervengono. 
Ma è rimasto solo. 
La ricchezza e il potere sono avari di amici e di gratuità.
Zaccheo ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere. 
Luca, grande scrittore, introduce il suo personaggio in maniera negativa: è il capo dei pubblicani ed è ricco. E, allora come oggi, chi è ricco è sempre ammirato. E odiato.
Ma, ironia della sorte, il suo nome fa sorridere: si chiama Zaccheo che significa “il giusto”.
No, non è giusto come i farisei, non scherziamo: non mette piede in chiesa.
Ma, ed è questo che conta, è un curioso.
La folla, però, non lo lascia passare. Come a volte accade (tristemente) anche a noi Chiesa: diventiamo muro e non trasparenza.
La soluzione, allora, è correre avanti e salire sull’albero.
Come vorrei che la Chiesa diventasse un albero su cui arrampicarsi per veder passare Gesù!

Coup de Thèatre
E accade l’inatteso: Rabbì Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: come fa a conoscere il suo nome? Cosa vuole da lui? Forse lo ha confuso con qualcun altro? Non importa: Zaccheo scende, di corsa. 
Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato,vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph, il nazoreo, è venuto a casa sua. 
Si sente ribaltato come un calzino, Zaccheo. Proprio lui cercava Gesù, non si è sbagliato di persona. 
Proprio lui voleva, non c’è dubbio. 
Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.
Una pagina così imbarazzante che anche la prima comunità cristiana si sentiva a disagio. Leggete, leggete bene: Gesù non pone alcuna condizione alla sua visita, non gli chiede la conversione.
Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina (leggete! Restituisce quattro volte ciò che ha rubato!), ma che importa? È salvo ora. Non più solo sazio, solo temuto, solo potente. 
No, salvo, discepolo, finalmente. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.
Il più improbabile fra i discepoli.

Meditando
Dio ti cerca, lui prende l’iniziativa; Dio ti ama, senza giudicarti. 
Noi cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita è una specie di rimpiattino, lasciamoci raggiungere, finalmente! 
Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta. 
L’amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama poiché siamo buoni ma, amandoci ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni. 
Se Gesù avesse detto: “Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua”, credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero. 
Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta a conversione.

Ai discepoli
L’incontro con Zaccheo conclude la vita pubblica di Gesù.
Da Gerico a Gerusalemme mancano meno di trenta chilometri. A Gerusalemme Gesù morirà.
Solo i curiosi incontrano il Maestro. Non importa quale sia la loro vita o i loro limiti: lo sguardo del Signore, la sua accoglienza, la sua benevolenza scioglie le nostre tenebre e ci rende nuovi, ci fa santi.
Eccoci, amici, discepoli. 
Chi vuole seguire Rabbì Gesù batta un colpo, scenda dall’albero, si schieri. 
Non importa chi sei, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore. 
Non importa se scruti il passaggio del Rabbì per curiosità. 
Oggi, adesso, Gesù vuole entrare nella tua casa.


Paolo Curtaz
www.tiraccontolaparola.it