28/02/13

Il paradosso della fede - S. Kierkegaard


«No, nessuno sarà dimenticato di quelli che furono grandi; ma ciascuno fu grande a suo modo, ciascuno in proporzione alla grandezza che amò. Perché chi amò se stesso fu grande nella propria persona e chi amò altrui fu grande per la sua dedizione; ma chi amò Dio fu il più grande di tutti.
Ognuno rimarrà nel ricordo; ma ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile; un altro sperando l'eterno; ma chi sperò l'impossibile fu il più grande di tutti.
Ognuno rimarrà nel ricordo, ma ognuno sarà grande secondo l'importanza di quel che combatté. Perché chi combatté contro il mondo fu grande trionfando sul mondo, e chi combatté contro sé stesso fu più grande per la vittoria su sé stesso, ma chi lottò contro Dio fu il più grande di tutti.
 Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l'amore. Ma Abramo fu il più grande di tutti: grande per l'energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forza è demenza, grande per l'amore che è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una casa, la sua ragione terrestre, e un'altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all'assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. (…)

Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva. Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. È pur esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino e quell'uomo non ebbe la viltà di rinnegare una speranza, così anch'egli non sarà mai dimenticato. (…)

Grande è coglier l'eterno, ma è più grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatta rinuncia.
Così, dunque, tutto era perduto, oh sciagura atroce più che se il desiderio non fosse mai stato esaudito. Così il Signore si prendeva giuoco di Abramo! Ecco che, dopo aver realizzato l'assurdo con un miracolo, voleva veder annientata l'opera sua. Che pazzia! (…)
Tuttavia, Abramo credette; e credette per questa vita. Certo, se la sua fede fosse stata rivolta esclusivamente ad una vita avvenire, si sarebbe sbarazzato più facilmente di tutto, per uscir al più presto possibile da un mondo a cui non apparteneva più. (…) Ma Abramo aveva la fede per questa vita…
Credette per assurdo, perché non si poteva trattare di un calcolo umano. E l'assurdo era nel fatto che Dio, domandandogli quel sacrificio, avrebbe revocato la sua esigenza un momento dopo. Salì il monte, e persino nell'attimo in cui levò il coltello credette - che Iddio non gli avrebbe chiesto Isacco. Certo Abramo fu sorpreso per la soluzione della cosa, ma, con un doppio movimento, egli aveva già raggiunto la sua condizione originaria, e perciò ricevette Isacco con gioia anche più grande della prima volta.(…)

Se fosse stato un uomo diverso, avrebbe forse amato Iddio, ma non avrebbe creduto; perché amar Dio senza aver la fede, significa rispecchiarsi in sé stessi, ma amar Dio con la fede, significa rispecchiarsi in Dio.
Questa è la vetta sulla quale è Abramo.»


Søren Kierkegaard

tratto da   “Timore e tremore”


"Sacrificio di Isacco", Caravaggio.



Diciotto

Laggiù all'orizzonte sulle acque amare, 
deserte, 
naviga certe sere Dio 
con una sua barchetta, 
invisibile passerà accanto a te che nuoti disperato 
e ti toccherà con la sua mano. 

Dino Buzzati




"Walk"
Ludovico Einaudi


27/02/13

Ultima Udienza di papa Benedetto XVI

San Pietro, 27 febbraio 2013
UDIENZA GENERALE

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato! 
Distinte Autorità! 
Cari fratelli e sorelle!

Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa ultima Udienza generale del mio pontificato. Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo.
In questo momento il mio animo si allarga per di abbracciare tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo. Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10). In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e vive nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia. Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto ferma questa certezza che mi ha sempre accompagnato. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai.
E il Signore mi ha veramente guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore. Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio d’avermi creato, fatto cristiano…».
Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo! Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è sua la prima responsabilità; e io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, ad iniziare dal mio Segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la Segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella mia preghiera, con il cuore di padre. Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio. A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, non un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi poter toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi. Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy.
Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della loro comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui. Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio. Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che voglio vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito. Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia. Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!

papa Benedetto XVI

Nada y Todo - S. Giovanni della Croce

« Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.
Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.
Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.
Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.
Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.
Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.
Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.
Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. »

San Giovanni della Croce






26/02/13

Diciasette


Io voglio ciò che Tu vuoi, 
senza chiedermi se lo posso, 
senza chiedermi se lo desidero, 
senza chiedermi se lo voglio.

Madeleine Delbrêl 

Urge ritrovare il silenzio - A. Pronzato


«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)

E’ stato messo a tacere il silenzio
«Non c’è più silenzio…» potrebbe dire la Madonna a proposito del nostro mondo fracassone. Uno dei grandi delitti del tempo in cui viviamo è precisamente questo: è stato fatto sparire il silenzio, l’hanno sfrattato, messo a tacere, strozzato la sua voce. E quasi nessuno se ne accorge, lancia l’allarme. Pare, anzi, che l’uomo d’oggi viva meglio in mezzo al rumore, al frastuono assordante, alle chiacchiere. (…)
Il silenzio fa paura. Non lascia dormire. Mette addosso i brividi. Obbliga a fare i conti inquietanti con se stessi. Costringe ad ascoltare gli atti d’accusa di una coscienza troppo spesso disattesa. (…)

Ci si abitua, purtroppo…
(…) Quando le parole non lasciano spazio al silenzio, hanno il sopravvento, non c’è più armonia ma squilibrio nella vita di un individuo. Lo scopo essenziale del silenzio è quello di conferire spessore di significato alla parola, assicurare una risonanza alla parola. Attraverso il linguaggio, ciascuno di noi entra in rapporto coi propri simili, comunica con loro, si fa conoscere. La dimensione dialogica, tuttavia, implica anche la capacità di ascolto dell’altro, come “altro da sé”, diverso, da scoprire, comprendere e amare. Senza ascolto, non ci può essere dialogo, ma unicamente una serie di monologhi, e quindi non è possibile realizzare dei rapporti interpersonali.
Ora, la disponibilità all’ascolto è legata strettamente al silenzio. Nei nostri dialoghi, tutti si preoccupano di parlare. Pochi sanno – o vogliono – ascoltare. I più si accontentano di stare a sentire (…).
Ancora,: quando si smarrisce il senso del silenzio, si perde inevitabilmente il senso della bellezza, la capacità di stupirsi, di aprirsi alla meraviglia. Il bello, senza silenzio estatico, viene irrimediabilmente deturpato, banalizzato, oserei dire insultato. (…)
Naturalmente le conseguenze si rivelano gravi soprattutto in rapporto alla vita spirituale. (…) Una vera vita interiore risulta impossibile se viene a mancare il silenzio. Il silenzio, infatti, fa parte di quella dimensione delle profondità che deve caratterizzare ogni esperienza spirituale seria.

C’è silenzio e silenzio…
Onestamente, però, occorre intenderci sui connotati e le forme del silenzio.

1. Il silenzio (…) non si riduce alla semplice sospensione o all’eliminazione del rumore. Cessare di parlare non vuol dire ancora fare silenzio. Il silenzio non coincide necessariamente con l’assenza di parole, di chiasso, di discorsi. (…)
2. Il silenzio non va confuso col mutismo. Il mutismo rappresenta piuttosto la malattia mortale, la degenerazione del silenzio. (…) Dobbiamo imparare a tacere, non murarci nel mutismo, che è qualcosa che soffoca, opprime schiaccia. Il silenzio è pienezza, direi esplosione, liberazione della parola e quindi atto di amore e di libertà. Il mutismo è qualcosa di negativo, di ostile. E’ isolamento, rifiuto della comunicazione. Il silenzio, invece, è rapporto comunionale, comunicazione nelle profondità.
3. (…) Il silenzio è espressione di uno stato interiore di quiete, di riduzione all’essenziale, di non-preoccupazione di sé.
Si può tacere ed essere rumorosi, quando l’animo è in tumulto, agitato da mille pensieri, affanni, assilli dispersivi. L’interno di certe persone, che pure tacciono esteriormente, rassomiglia a una pentola in ebollizione, piena fino a scoppiare di sollecitudini e timori (…) Una pentola dove gorgogliano risentimenti, amarezze, dispetti (…).
4. (…) Non esiste un solo tipo di silenzio. Il silenzio può esprimere indifferenza, insensibilità, estraneità al dolore altrui, oppure partecipazione profonda al male del fratello, rispetto del mistero della sua sofferenza, sintonia – non mediata dalle parole o dalle frasi di circostanza – al suo dramma profondo. (…)

… E Dio vide che il silenzio era una cosa bella.
Pochi sono convinti che il silenzio può essere la lingua più adatta per la preghiera.
C’è chi ha imparato a pregare con le parole, solo con le parole. Ma non riesce a pregare con il silenzio. (…) Eppure Thomas Merton sostiene che «il silenzio costituisce la vita di preghiera». (…)
San Giovanni della Croce, da parte sua, ha coniato una formula indimenticabile: «Y callando para que hable Dios», tacere per consentire a Dio di parlare. (…) A mano a mano che la Parola si impossesso del tuo essere, le parole vengono meno. Potremmo parafrasare così: la preghiera “cresce” dentro di te in maniera inversamente proporzionale alle parole. O, se preferiamo, il progresso nella preghiera è parallelo al progredire nel silenzio.
L’acqua che cade in una brocca vuota fa molto rumore. Quando però il livello dell’acqua aumenta, il rumore si attenua sempre più, fino a sparire del tutto allorché il vaso è colmo. (…)
Stare in silenzio, nella preghiera, equivale a stare in ascolto. Proprio come gli alberi che, nel bosco, captano messaggi segreti portati dal vento.
 ****
(…) Direi che il silenzio non rappresenta tanto l’altra faccia della Parola, ma è Parola esso stesso.
Dopo aver parlato, Dio tace, ed esige da noi il silenzio, non perché la comunicazione sia terminata, ma perché restano altre cose da dire, altre confidenze, che possono essere espresse unicamente dal silenzio.
Le realtà più segrete vengono affidate al silenzio.
Il silenzio è il linguaggio dell’amore. (…) Il silenzio è il modo adottato da Dio per bussare alla porta. E il silenzio è il tuo modo di aprirGli.
Il Signore lascia parlare i libri, gli individui che parlano a nome di Lui. Lui, però, sta dietro alle pagine e alle parole, taciturno. Aspetta che quelli abbiano finito, perché tu ti accorga del Suo silenzio e capisca, attraverso il silenzio, ciò che di essenziale c’è da capire. (…)
Non per nulla i veri uomini di Dio sono dei solitari e dei taciturni. Chi si avvicina a Lui, si allontana necessariamente dalle chiacchiere e dal rumore. (…)
La vicinanza di Dio ammutolisce. La luce è esplosione di silenzio.
Prega, dunque, nel  silenzio.
Prega col silenzio.
Prega il  silenzio. (…)
… E se proprio non puoi fare a meno di parlare, accetta tuttavia che le tue parole vengano inghiottite nelle profondità del silenzio di Dio.

Pregare nella sobrietà.
Maria a Cana ci fa comprendere che alla nostra preghiera oltre che il silenzio manca una caratteristica fondamentale, che è la sobrietà. E le due cose sono intimamente legate tra di loro. C’è un di più, un che di eccessivo in certe preghiere che è dato di ascoltare.
La bellezza non viene compromessa tanto dalla povertà e semplicità quanto dalla ridondanza, dall’esagerazione. (…). Sobrietà come espressione di amore del bello. Sobrietà come essenzialità, rigore, senso della misura, discrezione.
Oltre che costituire un attentato all’armonia, alcuni modi di pregare tradiscono una totale mancanza di fiducia. Certe insistenze, ripetitività esasperate, precisazioni pedanti, appaiono per lo meno sospette a questo riguardo. Affiora quasi la paura che Dio non abbia capito bene, o non sia troppo convinto, o abbia bisogno di suggerimenti più particolareggiati. (…)
Maria di Nazaret, a Cana, ci ha fornito un esempio luminoso di preghiera coraggiosa e discreta al tempo stesso. Rivolgendosi al Figlio, ha lasciato intendere, più che imporre. ha suggerito delicatamente, non ha preteso. Ha fatto intravvedere un desiderio, non ha dettato una soluzione. Ha accennato a un bisogno, senza preoccuparsi di fornire delle cifre o dei dati precisi relativi alla situazione.

Vergine piena di silenzio
Un tuo cantore, Padre David Maria Turoldo, ricordava: «Quando io ero piccolo c’era la banda del paese e c’era un tamburo grande che faceva: bum! bum! bum!, e c’era un tamburo piccolo che faceva: bim! bim! bim! E io non riuscivo mai a capire perché li chiamassero tutti e due “tamburo”: uno faceva un rumore piccolo e l’altro faceva un rumore grande. Qual era la differenza? La differenza stava semplicemente nel fatto che uno aveva il vuoto più grande e l’altro il vuoto più piccolo… Uno, più fa chiasso, più vuol dire che ha vuoto dentro». (…)
Maria, Vergine del silenzio, rendici consapevoli che il silenzio non lo troviamo già bell’e confezionato da nessuna parte. Non lo troviamo nel deserto, nelle foreste, neppure in certe abbazie secolari (so quello che dico!).
Il silenzio dobbiamo conquistarlo noi, anche nella bolgia infernale della città, con un atto di coraggio e di libertà. E portarlo dentro, ovunque andiamo.
Tu sei vissuta in mezzo agli altri, a Nazaret. Non ti sei rifugiata in nessuna zona protetta. Eppure, inserita nella vita e nelle occupazioni di tutti hai conservato dentro di te, e hai irradiato attorno a te, uno spazio sconfinato di silenzio. (…)
Tu Maria, sei la brocca colma di Lui. Per questo non hai bisogno di parlare. A mano a mano che la sua Parola cresceva in te, a mano a mano che la sua Presenza ti riempiva, non c’è più stato spazio in te né per il rumore né per le parole.
Il silenzio diventava il segno che eri totalmente occupata da Lui, abitata dalla Sua Parola, Sì, “piena di grazia”, perché “piena di silenzio”.

don Alessandro Pronzato

tratto da: "C'era la Madre di Gesù...
A Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca"

25/02/13

Avrei voluto... - Eugenio Montale

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e di determina.
Altri libri occorrevano 
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

Eugenio Montale

da  "Mediterraneo", 1924




"A longe o mar"
Madredeus

Sedici


Siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle.

Oscar Wilde



24/02/13

Uomini di fede: Abramo (3) - G. Ravasi


O Signore mio, amato e crudele!

«Una quercia fulminata era il Vegliardo. / Volavano sulla fronte nubi / come a una vetta alta e nuda. / Ma legato il basto al giumento / tagliò con lucida calma la legna. / Indi, la mano del fanciullo / perduta nella sua grande mano, / prese l'ombra di lui / a ondeggiare sull'altopiano / ... / O Vecchio, com'era il volto del Dio? / forse un lenzuolo di sangue? / o una roccia nera, un cratere in fiamme? /... / O Signore mio, amato e crudele!»

Abbiamo citato solo l'avvio e l'ultimo verso della bella poesia, simile ad una ballata, che David M. Turoldo ha dedicato a uno dei più celebri, laceranti e affascinanti passi della Genesi e dell'intera Bibbia, il capitolo 22 del primo libro sacro. (...) Qual'è il vero segreto di questa pagina superba e scandalosa?
Per l'analisi strutturalista «il centro di gravità del racconto si trova nei versetti 6-8: la decisione di Abramo resisterà alle domande del figlio che, ingenuamente, tormenta il suo amore paterno? Abramo resta fermo e supera la tentazione... Ciò che Dio ha preparato è un sacrificio-al-posto-del-figlio ma che implichi da parte di Abramo la volontà stessa di sacrificare il figlio» (Rèmi Lack nelle sue Letture strutturaliste della Bibbia). Per l'analisi psicoanalitica come quella proposta da Henri Linard de Guertechin, in questo racconto si celebra il contrasto tra la paternità tirannica e la filiazione: Abramo è liberato dall'onnipotenza illusoria della falsa paternità attraverso la rinuncia a una filiazione.possesso, oscuro oggetto del desiderio. Obbedendo a Dio, Abramo ritorna anch'egli a essere figlio. (...)
Al di là della foresta delle libere interpretazioni o delle letture parziali, qual è il significato originale di questa pagina, potente nella sua sobrietà narrativa? (...) Siamo di fronte al tema della fede "nuda", che non ha altri appoggi se non nella Parola trascendente. Fede che conosce, però, il baratro dell'oscurità, che brancola alla ricerca di un senso, che si scontra col mistero. Fede ricondotta al suo stadio più puro: il terribile cammino silenzioso di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova divenuta il paradigma di ogni itinerario di fede. E' un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell'iniziale, implacabile comando: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco [si noti l'insistenza], e offrilo in olocausto» (Gn 22,2). Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del figlio che un'unica volta, con ingenuità straziante, intesse un dialogo marcato in profondità dal contrasto affettivo, segno della solidarietà umana sotto un cielo così indifferente e crudele: «Padre mio! ...Eccomi, figlio mio... Dov'è l'agnello per l'olocausto ... Dio stesso provvederà, figlio mio» (Gn 22,7-8) (...).
Sul monte Moria «Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco, lo depose sull'altare sopra la legna; poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (Gn 22, 9-10). Fin dove si arriverà? Si crea una tensione spasmodica che verrà squarciata e risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio, chiamando ancora il patriarca come in apertura: «Abramo, Abramo!». Solo lui poteva in quel in quel momento trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e disperata. La fede è ora ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e tragico, essendo priva di alcun appoggio umano, razionale e religioso. Eppure una logica c'è: come figlio carnale Isacco doveva morire perché Abramo rinunciasse anche al sostegno della sua paternità e non avesse neppure le ragioni della carne e del sangue per credere nella promessa, ma solo quelle della parola divina. Per questo Dio lo invita alla distruzione del legame umano paterno-filiale. Abramo, dopo la prova, riceve Isacco non più come figlio ma in quanto "promessa" divina, grazia pura e assoluta. Non per nulla il finale del racconto è riempito dalla promessa: «Io ti benedirò di ogni benedizione e renderò immensa la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul litorale marino...» (Gn 22,17).


Il seno tinto di nero.

Genesi 22 è, dunque, un testo esemplare e paradigmatico sulla fede come lotta e Abramo ne è l'archetipo (...). Lo scandalo del testo biblico è tutto nel fatto che Dio giunge al punto di contraddire oltre alla ragione la sua stessa promessa, creando una contraddizione interna al credere: non era, infatti, Isacco dono della promessa di Dio? Eliminarla non è forse smentire la stessa promessa? La fede, quindi, supera se stessa eppure, si è già visto, non approda all'assurdo ma a un dono e a uno stato superiore. (...)
Il figlio della carne e del sangue scompare idealmente sul Moria, Abramo deve rinunciare a lui; quello che, scendendo dal monte, lo accompagnerà non sarà più un semplice erede o un figlio di Sara, sia pure avuto in modo prodigioso, sarà invece un figlio-dono, sarà il vero figlio "promesso". Per riceverlo, però, il patriarca ha dovuto affondare il coltello nella sua paternità. Solo rinunciando a tutto, nel giorno tempestoso della prova, si ottiene tutto, come ripeterà anche Gesù introducendo la legge del perdere per trovare, del lasciare per ricevere (Lc 18,28-30). (...)
L'obbedienza della fede alla fine dona pace e rivela che dietro il volto apparentemente crudele di Dio si cela un progetto non di morte ma di vita e di grazia. La Lettera agli Ebrei, che svolge il tema in chiave cristologica, giungerà ad affermare che Abramo offrì suo figlio perché era certo «che Dio è capace di far risorgere anche dai morti e per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,19); una lezione di speranza nella risurrezione. Ma è più vicino al significato originario del testo biblico della Genesi Kierkegaard che spiega il volto di Dio celato oltre il cielo del monte Moria con questa bella immagine materna: «Quando il bambino dev'essere svezzato, la madre si tinge di nero il seno. Sarebbe crudele che il seno restasse desiderabile quando il bambino non deve più attaccarsi. Così il bambino crede che il seno si sia modificato. Ma la madre è la stessa, il suo sguardo è sempre pieno di tenerezza e di amore». La discendenza di Abramo proseguirà, dunque, con Isacco, il figlio gioioso della promessa. Ma la promessa conserverà intatto il suo valore enigmatico: dov'è mai la prole numerosa come le stelle e i grani della rena marina? La fede rimane inchiodata alla croce del rischio.


Gianfranco Ravasi

tratto da "Il racconto del cielo"  (pp. 70-76)


Mariam Matrem Virginem - Llibre Vermell (XIV sec)


Mariam Matrem Virginem attolite Ihesum Christum extollite concorditer.

Maria seculi asilum defende nos. Ihesu tutum refugium exaudi nos.
Iam estis nos totaliter diffugium totum mundi confugium realiter.

Ihesu suprema bonitas verissima. Maria dulcis pietas gratissima.
Amplissima conformiter sit caritas ad nos quos pellit vanitas enormiter.

Maria facta saeculis salvatio. Ihesu damnati hominis redemptio.
Pugnare quem viriliter per famulis percussus duris iaculis atrociter.




23/02/13

La trasfigurazione - II Quaresima

Lc  9, 28b-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.  Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: « Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.


Il cammino verso la Pasqua fa tappa, oggi, sul monte della trasfigurazione. Sul monte ci porta la testimonianza di coloro che hanno visto e ascoltato. "Siamo stati testimoni oculari della Sua grandezza" scriverà l'apostolo Pietro nella sua lettera. E ancora: "Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo quando eravamo con Lui sul santo monte". Per Pietro quel monte -forse il Tabor - diventa santo, per ciò che vi è accaduto. Che cosa? "Prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo" -scrive Luca - "e salì sul monte a pregare. 

Salì sul monte. E' il monte il luogo della trasfigurazione. Sembra quasi di leggere una simpatia -nella Bibbia- per i monti. Sì anche per il lago - Gesù amava il suo lago -, ma in modo particolare per i monti. Forse perché il monte è là dove il cielo sembra toccare la terra. E Dio sembra un Dio dei monti. Pensate che gli Aramei progettano di affrontare gli ebrei in pianura, perché -dicono- "il loro Dio è un Dio dei monti". (1 Re 20,23). 

E anche Mosè, anche Elia - accanto a Gesù nella Trasfigurazione - sono uomini del monte: pur di veder Dio, scalano il monte, quasi il monte fosse un luogo di avvicinamento. Poco importa come Dio si manifesterà, se con tuoni e lampi come a Mosè sul Sinai o se "con il mormorio di un silenzio che svanisce" come a Elia, sull'Oreb, sul Sinai. La scalata del monte come tentativo di uscire da tutto ciò che ti soffoca, æ da tutto ciò che restringe la visione ... da tutto ciò che tarpa le ali. 

Luca aggiunge "salì sul monte a pregare" "a pregare" Sembra una costante in Luca. Ricordate il battesimo di Gesù. Mentre pregava, "il cielo si aprì e vi fu una voce dal cielo". (Lc.3, 31-32) Quasi a suggerire che ogni uomo, ogni donna, ciascuno di noi,nella preghiera, può -in qualche misura- far esperienza dei cieli che si aprono e di una voce -sì, di una voce- dal cielo. E la voce, ancora una volta dice "Ascoltate Lui!" Non ascoltate tante favole, messaggi più o meno spuri e perfino banali. "Ascoltate Lui". Pietro e i suoi compagni" -è scritto- erano oppressi dal sonno: tuttavia restarono svegli, videro la Sua gloria. Ricordate gli stessi discepoli nell'orto degli ulivi: non resistono al sonno, non resistono al peso della tristezza: "Li trovò che dormivano per la tristezza": è scritto. (Lc.22,45) Ecco resistere, anche alla tristezza, resistere a pregare, per vedere la Sua gloria. 

E la gloria è questa trasfigurazione. Trasfigurazione -scrive Cirillo d'Alessandria, un Padre della chiesa orientale- e non trasformazione. Noi diciamo che c'è trasfigurazione non quando il corpo umano si trasforma in un altro corpo, ma quando la gloria luminosa lo avvolge. La forma del corpo rimane, ma il suo aspetto è penetrato dallo splendore luminoso di Dio. E' un grande mistero da contemplare. Da noi che così spesso, troppo spesso siamo ossessionati di cambiare: cambiare il nostro corpo, cambiare la nostra immagine, cambiare le situazioni, cambiare la casa. Cambiare o trasfigurare? Cambiare o lasciare penetrare, lasciarci illuminare dal mistero di Dio, dalla luce che abita in ciascuno di noi. Quel giorno -se così si può dire, perdonate l'espressione- Gesù lasciò libero sfogo al mistero di luce che lo abitava. 

Così anche noi ci trasfiguriamo, se lasciamo libero sfogo alla presenza di Dio, alla luce che dimora in ciascuno di noi. Pensate se non è vero. Ci sono esperienze che ci trasfigurano: penso all'esperienza di Dio, all'esperienza della natura, l'accoglienza dell'amore. Rimani quello che sei, ma il tuo volto è come preso dalla luce che hai dentro. Il tuo volto e perfino i tuoi vestiti -direbbe il Vangelo-: Marco, nel passo parallelo, annota: "Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime; nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche". 

Una trasfigurazione che finalmente ti svela, svela la personalità vera di una persona. Una personalità troppo a lungo soffocata e che ora appare in tutta la sua luminosità. Questo fa Dio, questo vuole Dio per ciascuno di noi. Che il tuo volto, come quello del Suo Figlio, sia splendente come il sole. 


don Angelo Casati

www.sullasoglia.it

Uomini di fede: Abramo (2) - G. Ravasi

Il riso di Sara.

Proprio perché rischio, la fede conosce il dubbio, il sospetto, l'esitazione, la sospensione. Atteggiamenti, questi, da non confondere con l'incredulità. che è invece il rifiuto del rischio, dell'accettazione di quell'imprevedibile iniziativa divina, della promessa di un Dio che si rivela e si vela. Della dialettica della fede fa parte anche il riso di Sara e di Abramo. Il patriarca si lascia sfuggire il primo sorriso dubbioso alla promessa di un figlio tutto suo e di Sara. Come dice Genesi 17,17, egli «si prostra con la faccia a terra» nell'adorazione del Dio che promette. Ma non può fare a meno di ridere, opponendo l'obiezione di una razionalità che accampa le sue ragioni: «A uno come me di cent'anni può nascere un figlio? E Sara all'età di novant'anni potrà partorire?». Più sonoro è il riso di Sara che scoppia dietro le quinte della scena della grande visita dei tre ospiti (Gn 18, 1-15), incarnazione della stessa divinità (...).
«Tra un anno Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gn 18,10). La moglie del patriarca, che è con l'orecchio incollato alla tenda dei maschi, reagisce ridendo. «Sara rise dentro di sé e disse: Sfiorita come sono, dovrei ancora provare piacere, mentre mio marito è vecchio?». L'autore nota maliziosamente che «Abramo e Sara erano vecchi e avanti negli anni ed era cessato a Sara ciò che le donne sogliono avere regolarmente» (Gn 18,11). Un uomo vecchio e impotente, una donna non più mestruata e ormai frigida e sterile e la promessa di un parto felice: un'evidente provocazione che non può non far scattare dell'ironia. Ma la reazione del Signore (i tre uomini si trasformano nel mistero che celavano) è tagliente: «Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, pur essendo vecchia? C'è forse qualcosa impossibile per il Signore? Al tempo stabilito tornerò da te a questa stessa data e Sara avrà un figlio!».
Imbarazzata e un po' impaurita, Sara tenta un'improbabile difesa: «Non ho riso!». Ma il Signore non ammette finzioni: «Sì, hai proprio riso!» (Gn 18,10-15). Alla fine, però, al riso dubbioso e scettico di Abramo e di Sara si opporrà il riso efficace e creatore di Dio: «Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato... E Sara disse: Motivo di riso gioioso mi ha dato Dio: chiunque lo verrà a sapere riderà di me» (Gn 21, 3.6). L'auotre infatti, in queste parole propone un'etimologia popolare del nome "Isacco" come "Jhwh ha riso". A risuonare per ultimo è, dunque, il riso allegro del bambino che è lo stesso riso di Dio che spazza via dubbi e perplessità. (...)
La fede è, allora, un riso dai due volti. C'è il tempo in cui si ride disperando, in cui la dialettica del credere precipita verso curve basse ove la speranza raggiunge i livelli di guardia. E' il riso di Abramo e Sara che, comunque, non è riso perverso, stupido, arrogante o incredulo spesso condannato dalla Bibbia. (...) Qui si fa balenare anche il secondo volto del riso, quello della festa per la promessa adempiuta, quello che sboccia sulle labbra di Dio e del figlio "impossibile", Isacco - "Jhwh ha riso".

Gianfranco Ravasi

tratto da "Il racconto del cielo"  (pp. 67-70)


22/02/13

Uomini di fede: Abramo (1) - G. Ravasi

Un forno fumante nella notte.

«La visione si manifestò ad Abramo di notte, mentre egli gemeva e piangeva. Dominato dai suoi tristi pensieri, Abramo non poteva dormire; per questo si alzò a pregare e, mentre pregava in tale intima tempesta, Dio gli apparve e parlò familiarmente con lui, cosicché Abramo, pur essendo sveglio, fu rapito totalmente fuori di sé da quella visione».
Così Lutero, a pochi mesi dalla morte, commentava il capitolo 15 della Genesi, aperto da un Abramo profeta e veggente, ma amareggiato per il suo destino di morire senza figli e di avere per erede il suo maggiordomo, Eliezer di Damasco. Comincia in tal modo la via erta che il credente dovrà affrontare (scoprendola irta di ostacoli), sul cui cielo si stampa una promessa così retorica e improbabile: «Conta le stelle, se riesci a contarle: tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,6). (...)

Credere è un atto di fiducia, il verbo ebraico che lo indica, scivolato nel nostro amen, posto a sigillo delle preghiere, esprime lo «stare stabili», il «basarsi» su qualcuno o qualcosa, affidandosi completamente a una persona o a una realtà. Credere è, quindi, rischiare su una persona per molti versi misteriosa come Dio ed è per questo che la fede non può perdere del tutto il sapere della paura e del sospetto. Agli squarci luminosi subentrano le tenebre in un incessante contrappunto. (...) Nella sua opera "Dio esiste?" Hans Küng afferma che la fede «non garantisce un'assoluta sicurezza (...) Il riconoscimento fiducioso non è preceduto da una conoscenza razionale. La realtà nascosta di Dio non s'impone di prepotenza alla ragione». (...)
Comprendere e credere s'intrecciano ma non si identificano, pena la rispettiva morte.

Abramo, dopo l'illuminazione della promessa, è riportato a un'altra lezione sulla fede, "sceneggiata" ancora nel capitolo 15 della Genesi, che riflette un'arcaica tradizione.
Terrore e rivelazione s'incrociano sul fondale d'un tramonto che sconfina nella notte. Prima è chiesto al patriarca di compiere un rituale truculento di giuramento o di alleanza. Sulla polvere della steppa vengono disposti lungo due file alcuni animali squartati e sanguinolenti. E' un rito di automaledizione: gli stipulatori di un patto, passando in mezzo a quei lacerti di carne, si augurano la stessa sorte (lo squartamento) in caso di violazione del patto. (...) Intanto sul patriarca si stende un velo di sonno, ma anche di terrore: «Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abramo ed un oscuro terrore lo assalì». (Gn 15,12).
La teofania comporta per l'uomo il venir a contatto col tremendum del mistero e il sonno e la visione sono la rappresentazione simbolica della necessità di un diverso canale di conoscenza per ascoltare e dialogare con Dio. Ma «quando il sole tramontò e si fece buio fitto», ecco la sorpresa: «un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi» (Gn 15,17). Si sa che il fuoco è per eccellenza un segno del divino, che è inafferrabile, incontrollabile e vivo come il fuoco e quindi trascendente, ma capace di riscaldare e illuminare, e quindi vicino e immanente. E' dunque, sorprendentemente solo Dio, sotto l'emblema igneo del forno e della fiaccola, a transitare in mezzo agli animali squartati; Abramo assiste ma non entra in quel corridoio sanguinolento. L'alleanza-berît, di cui si parlerà spesso nella Bibbia, è un dono che nasce da un'iniziativa divina unilaterale e gratuita. All'uomo spetta unicamente accoglierla nella fede e rifiutarla nell'incredulità. Le ragioni del credere sono fondate in ultima istanza sulla fedeltà divina. La discendenza e la terra sono soltanto "promesse" che si ancorano al giuramento di Dio: «Alla tua discendenza / io do questa terra / dal fiume d'Egitto / al grande fiume, l'Eufrate» (Gn 15,18).
Si tratta di due orizzonti lontani verso i quali l'uomo si deve incamminare con un lungo e defatigante itinerario che raffigura la dialettica della fede, sempre sospesa alla promessa e al rischio. (...) Oscar Cullmann affermava che «credere significa fare umilmente astrazione da me stesso e contemplare la luce radiosa di un evento al quale non collaboro affatto». In realtà Abramo collabora: il rito degli animali è preparato da lui, l'azione umana è occasione per la rivelazione divina. L'atto di fede non è magia sacrale e l'uomo non è un automa mosso da un fato prevaricatore. (...) Questa visione prevalentemente "strumentale" dell'uomo è respinta dalla Bibbia, pur convinta che è solo il forno ardente simbolo del divino, che può passare tra gli animali squartati senza correre il rischio di trovarsi automaledetto. Deboli, sì, ma non oggetti. Fedeli, magari, ma non prevaricati.

Gianfranco Ravasi

tratto da "Il racconto del cielo" (pp. 65-67)


Salmo 22

«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla e si commosse per loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6, 34)


Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acqua tranquille mi conduce.

Rinfranca l'anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.

Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.


21/02/13

Le ferite aperte del Vaticano - E. Bianchi


L'ultima liturgia pubblica di papa Benedetto XVI sarà stata una liturgia penitenziale anzi, la liturgia penitenziale per eccellenza: il rito dell'imposizione delle ceneri all'inizio della Quaresima durante il quale risuonano le parole di Gesù: "Convertitevi e credete nel Vangelo" o l'ammonimento "Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai". Con questa celebrazione è iniziato, come ogni anno, il tempo della penitenza quaresimale ma, caso unico ella storia della Chiesa, questa volta è iniziato anche il tempo del discernimento per l'elezione di un nuovo successore di Pietro mentre il predecessore è ancora in vita e nell'esercizio del suo ministero di vescovo di Roma. 
E papa Benedetto XVI ha voluto che questo passaggio cruciale avvenisse nel segno del pentimento e della richiesta di perdono.  Già lunedì, nel dare l'annuncio sorprendente della sua rinuncia al papato, aveva aggiunto un sincero "chiedo perdono per tutti i miei difetti".  Oggi l'omelia rivolta ai cardinali, ai vescovi, al clero e ai fedeli di Roma che partecipavano al rito penitenziale in San Pietro è stata anche un esigente richiamo a riflettere su come "il volto della Chiesa venga a volte deturpato da colpe contro l'unità della Chiesa e divisioni del corpo ecclesiale".
Una riflessione che deve condurre alla conversione e alla rinuncia ad ogni comportamento e azione che contrastino con l'unità voluta dal Signore per i suoi discepoli.

Un papa che si dimette deve interrogarci, anche se ha dichiarato - e noi gli crediamo radicalmente perché Benedetto XVI si è mostrato affidabile - di farlo nella libertà, per il bene della chiesa e per essere giunto in coscienza alla valutazione di insufficienza delle proprie forze. Man mano che passano i giorni, le domande crescono, anche perché il pontificato è stato sovente scosse da eventi che hanno turbato tutta la chiesa e quindi tanto più chi in essa ha ricevuto dal Signore responsabilità e compiti così particolari. Nel suo primo discorso dopo l'elezione, Benedetto XVI disse che non aveva programmi ma che voleva servire la comunione e fare di tutto perché la rete della chiesa ormai strappata non fosse lacerata ancor di più ma conoscesse una dinamica di ricomposizione. E invece... la mano tesa ai seguaci di Lefebvre non è stata accolta, la sua esortazione ad evitare ricerca di poteri, interessi personali, disonestà e malaffare economico è stata troppe volte evasa, la sua volontà di eliminare la sporcizia ha trovato macigni enormi. Conosco abbastanza la persona del papa per affermare che non si è scoraggiato, che non fugge né diserta, ma comprendo la sua fatica, la sua stanchezza e il suo desiderio di mostrare a tutti che non ha mai ritenuto la chiesa come qualcosa di suo, di cui potersi servire, bensì solo e sempre una proprietà del Signore. L'ho detto e lo ripeto, c'è in Benedetto XVI una capacità di decentrarsi rispetto a Cristo che molti non sanno neanche cosa sia e quanto costi in termini di abbassamento e anche di svuotamento. 
Le parole pronunciate ieri dal papa sono parse dirette alle ferite rese alla comunione ecclesiale dalle tensioni e divisioni vissute all'interno stesso della chiesa cattolica e anche tra coloro che sono pastori e hanno in essa un particolare ed essenziale ministero di comunione. Sono parse riecheggiare le parole forti già usate da Benedetto XVI in altre circostanze riguardo a quello "sbranarsi a vicenda" che pare aver preso piede anche tra cristiani. Basilio di Cesarea, il grande padre della chiesa tanto amato anche dal papa, in un testo dal titolo significativo - "il giudizio di Dio" - stigmatizza severamente le divisioni, le rivalità, le lotte, la ricerca di potere, il carrierismo presenti nella chiesa del suo tempo: "Vedo nella chiesa di Dio grandissimo disaccordo... e i capi, che con giudizi contrapposti lacerano le chiese, turbano il gregge". 
Devono essere parole ben presenti alla mente e al cuore di Benedetto XVI in questo momento particolarissimo del suo pontificato: ci pare di scorgere nel suo accorato appello all'unità anche la sofferenza di chi ha visto il proprio ministero di comunione compreso da qualcuno come causa di divisione. Dobbiamo riconoscerlo con la stessa parresia usata dal papa: la chiesa è oggi lacerata da divisioni e contrapposizioni, sovente si registra anche una confusione che non permette alla comunità ecclesiale di pervenire pur con fatica a quell'unanimità possibile, mai piena ma sempre da ricercarsi, in modo da essere reale comunione animata dall'amore ed essere testimonianza e profezia per il mondo.
Questo dato non è solo fonte di sofferenza, ma anche opportunità di ritorno al Signore, di discernimento della volontà di Dio: ogni volta che nella storia appare con maggior chiarezza il segno della croce di Cristo, le forze avverse alla logica scandalosa della croce si scatenano. E' stato così nei confronti di Gesù, è stato, è e sarà così di fronte alla chiesa ogni qualvolta questa cerca di essere più fedele al suo Signore. E in questi anni recenti abbiamo purtroppo assistito anche allo svelamento di una cattiveria che sembra regnare di diritto anche nello spazio ecclesiale ed essere utilizzata come strumento per prevalere sugli altri, per delegittimarli. Io stesso più volte l'ho denunciato come il male più evidente nell'attuale tessuto ecclesiale.

Credo che questa liturgia penitenziale conclusiva del ministero petrino di Benedetto XVI possa allora essere accostata a un altro grande segno evangelico lasciato dal suo predecessore: la liturgia del perdono celebrata in San Pietro per la Quaresima dell'anno giubilare. Allora come oggi, il successore dell'umile pescatore di Galilea riconduce la chiesa intera ai piedi della croce per implorare il perdono di Dio e per intraprendere ancora una volta il cammino di conversione verso l'unico Signore: discernere e confessare il peccato, infatti, è condizione essenziale per ritrovare, per pura grazia, la vera identità propria. 

Enzo Bianchi

tratto da "La Repubblica", 14 febbraio 2013

Quindici

E anche se il vento ci soffia contro, abbiamo sempre mangiato pane e tempesta, e passeremo anche questa. 

Stefano Benni


20/02/13

Prendimi... - Emily Dickinson

Il mio Fiume corre a Te -
Azzurro Mare - Mi accoglierai? 

Il mio Fiume aspetta risposta -
Oh Mare - sii benigno! 

Ti porterò Ruscelli
Da umbratili nascondigli - 

Ehi, Mare - mi prendi?

Emily Dickinson



18/02/13

Cercati in me - S. Teresa d'Avila

Santa Teresa ebbe la grazia di udire, un giorno, la voce di Gesù che le dettava nell'anima queste parole: 
«Cercati in Me» e «CercaMi in te». 
Così compose questa poesia:


«In tal modo poté Amore,
o anima, nel Mio intimo ritrarti
che mai nessun pittore 
potrà meglio immaginarti.

Bella, per amor fosti creata,
e nel Mio stesso cuor volli formarti
ché, se per caso, ti perdessi, o amata,
in Me dovrai sempre ritrovarti

Ti troverai dipinta nel Mio petto
e così al vivo ti vedrai formata
che in contemplarti tu n'avrai diletto
vedendoti sì bene immaginata.

Ma se non sapessi ove cercarMi
non andare vagando inutilmente.
Se veramente tu vorrai trovarMi
in te devi cercarMi alacremente.

Tu sei il Castello ov'io dimoro e dove
ti chiamo dal profondo del tuo cuore,
quando ti vedo divagare altrove,
e chiudere la porta dell'amore.

Non perdere il tuo centro per cercarMi
ti basterà gridare il Nome mio
che in te verrò, dove potrai trovarMi
senza tardar, per essere il tuo Dio.»

Santa Teresa d'Avila



Cercati in me
una canzone di Giuni Russo
da uno scritto di S. Teresa d'Avila

17/02/13

Salmo 90

Chi abita al riparo dell'Altissimo
passerà la notte all'ombra dell'Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
Ti coprirà con le sue penne,
sotto le sue ali troverai rifugio;
la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza.

Non temerai il terrore della notte
né la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra,
ma nulla ti potrà colpire.

Basterà che tu apra gli occhi
e vedrai la ricompensa dei malvagi!
«Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!».
Tu hai fatto dell'Altissimo la tua dimora:

non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli per te darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutte le tue vie.

Sulle mani essi ti poteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.

«Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.

Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell'angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso.
Lo sazierò di lunghi giorni
e gli farò vedere la mia salvezza».