29/12/13

Santa Famiglia - I Natale

Mt 2,13-15.19-23

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». 
Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». 
Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».


Fuggi in Egitto! Perché l'angelo comanda di fuggire, senza garantire un futuro, senza indicare la strada e la data del ritorno? Dio interviene così: non ti protegge dall'esilio, ma dentro l'esilio; non ti custodisce dalla notte, ma dentro la notte. 
Quella vicenda di persecuzioni, quella storia di fuggiaschi ricercati a morte è la storia di milioni di famiglie ancora oggi. Non vi torna in mente la fuga in Egitto di Giuseppe con Maria e il Bambino ogni volta che una famiglia straniera bussa alla nostra porta e chiede aiuto? È storia sacra che si ripete: sacra è la vita, più sacra ancora la vita perseguitata. Mille Erodi ancora oggi emanano morte. Erode però viene giocato dai Magi e da Giuseppe, perché c'è Qualcuno che veglia anche nella notte, anche quando noi dormiamo, è nel nostro profondo ed ecco che l'uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. Che tuttavia indicano davvero poco, una direzione verso cui partire, che hanno tanta luce quanta ne serve al primo passo. Poi tocca a Giuseppe studiare la strada. Tocca a noi scegliere gli itinerari più sicuri, misurare la fatica dei più deboli e portarli se necessario. Giuseppe prese il bambino e sua madre e fuggì in Egitto. 
Le sorti del mondo si decidono dentro una famiglia, le cose decisive - oggi come allora - accadono dentro le relazioni e gli affetti, cuore a cuore, nello stringersi amoroso delle vite. Nel coraggio quotidiano di moltissime persone, innamorate e silenziose, fioriscono creature che faranno fiorire la storia. 
La vocazione alla famiglia è santa, quanto quella di una monaca di clausura o di un missionario. Perché è vocazione ad amare, e ogni amore fa tutt'uno con il mistero di Dio. 
Giuseppe rappresenta tutti gli uomini che prendono su di sé il peso della vita di un altro, senza contare fatiche e senza accumulare rimpianti; quelli che senza proclami e senza ricompense, in silenzio, fanno tutto ciò che devono fare, semplicemente. Sognatori e concreti, disarmati eppure più forti di ogni Erode. 
Maria incarna tutte le madri, che sono tutte, come lei, benedette; quelle che non dicono mai "basta" all'amore che il bambino esige giorno e notte. Maria è tutte le donne che inventano risorse di intelligenza e di forza per farlo crescere. 
E quel Bambino non toccato dal male è tutti i bambini, dove il solo fatto di esistere è già un'estasi (E. Dickinson) una vertigine. I bambini ti chiamano a conversione, danno ordini al futuro buono del mondo. Nel loro sguardo c'è tutta l'eternità che ci attende. 
Un ultimo pensiero va a chi vive sulla propria pelle un fallimento matrimoniale o familiare: non temete! Dio ha anche per voi progetti di amore e di gioia, di luce e di vita. Scopriteli, con fiducia.

P. Ermes Ronchi

www.avvenire.it

28/12/13

Ci manca il coraggio di sperare - A. Pronzato

«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)



Meglio non accorgersi...
Normalmente si dice che a Cana, i diretti interessati non si erano ancora accorti che stava scarseggiando il vino.
Io non ne sono così sicuro.
Probabilmente preferivano non accorgersi, fare finta di niente, dare a vedere che tutto era a posto, continuare come se...
In fondo, avevano paura di dover prendere atto della dura realtà (...).
Maria di Nazaret, no.
Lei si è accorta, non ha ignorato la realtà sgradevole. E, nello stesso tempo, ha avuto il coraggio di sperare. (...)
Ciò che appare preoccupante per noi, oggi, non è tanto che manchi il vino - e parecchie altre cose - per cui la nostra vita risulta impoverita, ma che non osiamo sperare.
Ci accontentiamo di piccole ed esitanti speranze umane, preferiamo nutrirci di illusioni, confondendole con la grande speranza cristiana.
La Madonna ci avverte, precisamente, che ci manca la capacità di sperare l'impossibile. (...)
Dobbiamo ammetterlo. Nelle nostre povere teste trovano posto soltanto minuscole speranze. E in numero limitato. Ma la grande speranza cristiana, quella commisurata alle promesse di Dio, padrone dell'impossibile, le nostre teste non riescono a sopportarla, a sostenerla. (...)
Prima di accorrere al sepolcro di Cristo, pretenderemmo esaminare le fotografie che documentino in maniera inoppugnabile che è vuoto...
Per noi  troppo spesso speranza vuol dire: chissà, forse, può darsi, ma, volesse il cielo, nel caso che... Mentre invece la speranza pasquale è un sì, un punto fermo.

Una speranza dal fiato corto
«Noi speravamo...» (Lc 24,21).
Non c'è che dire, tipi bizzarri quei due che camminano sconfortati lungo la strada di Emmaus. Coniugano il verbo sperare unicamente al passato. «Noi speravamo...». Il presente, invece, sta sotto il segno del disinganno più bruciante.
Incapaci di attendere. A loro tre giorni sembrano eccessivi, insopportabili: «Con tutto ciò sono passati tre giorni...».
Davvero una speranza fragile, asfittica, quella che non sa reggere al tempo, ma si arrende subito dinanzi alla brutalità dei fatti. «Con tutto ciò sono passati tre giorni...».
Tre giorni, e spesso anche meno. Ecco la lunghezza della nostra speranza. Ecco la consistenza della nostra fede.
Tre giorni ci sembrano un'eternità. Non sappiamo aspettare.
Non riusciamo, come dicono gli arabi, a "morire di pazienza". Noi piuttosto moriamo di impazienza.
Ci mostriamo restii a pagare il prezzo della pazienza per gli ideali che ci stanno a cuore.
Una momentanea smentita della realtà fa crollare tutto, è come uno spillo che sgonfia il pallone dei nostri entusiasmi superficiali. (...)
La nostra prospettiva non si spinge di una spanna al di là della punta del nostro naso. Ci riveliamo incapaci di vedere "oltre". Oltre l'ostacolo, oltre l'insuccesso immediato, oltre l'incomprensione, oltre il rifiuto, oltre la confusione.
Nel mezzo del tunnel oscuro non ce la facciamo a indovinare la luce che ci investirà dopo quella inevitabile e tormentosa purificazione degli occhi.

Quando ci si trova in un luogo oscuro
«E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori» (2Pt 1,19).
Pure noi, come ci ricorda Pietro, ci troviamo a camminare spesso "in un luogo oscuro". Abbiamo bisogno, oltre che di pane (e di vino), anche di luce. Per veder chiaro circa il nostro destino ultimo, e per sconfiggere le tenebre che ci avvolgono. 
La Parola di Dio, più che un lampo - che si dissolve sempre troppo presto - è una lampada che ci accompagna:
«Una lampada per i miei passi è la tua parola,
una luce sul mio cammino» (Sal 119, 105).
Lampada, non soltanto per scoprire i pericoli, ma per trovare la direzione del viaggio, il senso della nostra fedeltà.
La Parola è luce, perché non viene da noi, ma da Dio. (...)
Non ci viene risparmiato il passaggio attraverso la valle delle tenebre, l'ombra della morte. Abbiamo bisogno, però, della lampada, più che delle folgorazioni improvvise, per resistere nella notte. (...)
La lampada non è un riflettore abbagliante. La Parola ci dà luce solo per questo passo. E poi per il prossimo..
Bisogna fidarsi della Parola-lampada anche quando tutto ci minaccia, tutto appare impenetrabile, e verrebbe voglia di ricorrere ad altre luci più confortevoli, più interessanti, più ammiccanti.
Questa luce è delicata. Entra in noi e ci rischiara dal di dentro. Non è tanto il cammino che viene illuminato, quanto il nostro cuore.
Dunque, sei disposto ad alimentare la tua speranza, spesso flebile, alla luce di questa lampada?

Quando non c'è speranza, è l'ora della speranza
«Dal momento che il fico non germoglia,
non c'è raccolto nelle vigne,
fallisce il lavoro dell'olivo
e il campo non dà da mangiare,
spariscono i greggi dall'ovile
e non ci sono buoi nelle stalle...
Eppure io gioirò in Jahwè
esulterò in Dio mio salvatore» (Ab 3,17-18).

«Dal momento che... Eppure». Tutta la chiave, il paradosso della speranza è proprio qui.
E' la speranza che non ci sta. Non si arrende. Anzi, si ribella. La speranza è messa alle corde. Non ha scampo, Ma si rifiuta caparbiamente di firmare la resa.
Attraverso quell'"eppure", la speranza, messa al tappeto come un pugile, punta alla vittoria.
C'è la logica inesorabile dei fatti, l'implacabilità delle situazioni senza vie d'uscita. C'è l'evidenza delle giare vuote. Sembra che i desideri del cuore, le più legittime aspirazioni, vadano a cozzare contro questa logica spietata, venendone fuori a pezzi, risultandone frantumati.
«Eppure...».
I fatti hanno pronunciato la loro sentenza che pare inappellabile, definitiva: «Non c'è niente da fare... tutto va a rotoli... che disastro».
«Eppure...». (...)
Quando c'è di mezzo Dio saltano gli abituali confini tra possibile e impossibile. Si spezza la concatenazione tra premesse e conseguenze. E la logica ferrea dei fatti esce sconfitta dai delicati, disarmati, desideri del cuore. Le situazioni negative vengono ribaltate in condizioni favorevoli.
Proprio perché - e non nonostante - tutto va male, e non c'è niente da fare, c'è la certezza che spunterà qualcosa di nuovo, di incredibile.
Quando "non c'è speranza", è proprio l'ora della speranza.
Quando non c'è più vino, è "venuta l'ora" di gustare il vino migliore. (...)

Dio dell'avvenire
Ma la speranza (...) postula, da parte dell'uomo, la capacità di aprirsi, in sintonia con Dio, verso il futuro. (...)
Dio ci invita perentoriamente a guardare avanti, a scoprire "ciò che non c'è ancora".
Dio è sempre nuovo, e ci vieta di guardare indietro.
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche» (Is 43,18).
Appare strana questa pretesa del Signore di azzerare la memoria del suo popolo.
Il fatto è che la memoria può risultare ingombrante. Toglie terremo alla speranza. Non lascia spazio a ciò che sta per arrivare.
Quando è sovraccarica, appesantisce il passo, spegne la voglia di camminare in avanti.
La memoria può diventare un rifugio confortevole in cui uno, deluso e sfiduciato, ripiega in senso nostalgico per evitare di affrontare la realtà presente.(...)
La speranza è sempre rischiosa, perché sollecita ad andare incontro all'imprevedibile.

Il vino nuovo che gorgoglia
«Ecco, faccio una cosa nuova,
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).
La memoria, invitando a rovistare continuamente tra le cose passate, distrae l'attenzione dal nuovo che si affaccia all'orizzonte.
Invece il popolo, che sta languendo nell'esilio babilonese, viene sollecitato a puntare lo sguardo unicamente verso la novità sensazionale che Dio sta per realizzare. (...)
«Ora ti faccio udire cose nuove
e segrete che nemmeno sospetti:
Ora sono create e non da tempo:
prima di oggi non le avevi udite,
perché tu non dicessi: "Già lo sapevo"» (Is 48,6-7).
(...) Quando Dio parla, veramente, oggi, nessuno può affermare «già lo sapevo».
Allorché Dio interviene, oggi, nessuno può dire «ho già visto».
Dobbiamo ritornare, accompagnati dalla Madonna, a Cana, per imparare tutto quello che non sappiamo ancora.
Per vedere tutto ciò che non abbiamo ancora visto.
Per sperimentare l'inedito. (...)
Per certi individui, il passato non si decide mai a... passare.
D'altra parte, loro hanno bisogno che non passi del tutto, perché, qualora avessi finito di passare, loro dovrebbero scuotersi e camminare. Cosa che non desiderano assolutamente.
Più che adattarsi a ricordare e rimestare errori, si tratta di raccogliere le proposte dell'oggi, non perdere l'appuntamento col presente. Inutile rimpiangere ciò che è stato, dal momento che viene offerta una possibilità nuova, inaudita.

La rete strappata
Nell'antichità cristiana circolava questa leggenda.
Una rete stesa a pochi metri dal suolo. Sotto, intrappolati e come impazziti, ci sono centinaia di uccelli.
Da principio, provano ad alzarsi verso l'immensità dal cielo negata, ma vanno a sbattere inesorabilmente  contro la rete. E crollano a terra, ammaccati.
Dopo innumerevoli tentativi falliti, ormai si sono rassegnati tutti. Rimarranno in quella prigione, non c'è scampo.
A un tratto però, uno di lor, pesto, sanguinante, si stacca dal mucchio e si lancia contro la rete, caparbiamente. Una, due, tre volte. Finalmente riesce a strapparla in un punto. Quindi si dirige, ferito, verso l'azzurro del cielo.
Come per incanto c'è un gran sbattere d'ali. Tutti gli altri passano attraverso la breccia insperata.
La parabola veniva applicata a Cristo, che ha rotto la rete che teneva gli uomini imprigionati nel male.
Tuttavia penso che possa indicare un compito che ciascuno di noi può svolgere. Un servizio concreto della speranza.
Ribellarsi alla comune rassegnazione del "non c'è nulla da fare" e aprire un passaggio verso un "al di là", verso "qualcos'altro".
Lo strappo non è soltanto quello della rete. Lo si avverte dentro. Dolorosissimo ma liberante.
In certi climi di pesantezza e torpore, il più grande servizio che possiamo offrire agli altri è quello di... essere altrove.

Sognare per non cedere al sonno
Molti cristiani "dormono" per non dover affrontare la realtà. Il sonno consente loro di accettare la realtà così com'è. Soltanto il sogno permette di immaginare una realtà "diversa" (...).
Allorché nel mondo è accaduto qualcosa di nuovo, di decisivo, ciò è avvenuto grazie a dei "sognatori" inguaribili, che si ostinavano ad immaginare una realtà, un modo di essere diversi dal quadro che avevano sotto gli occhi.
Per sognare, occorre essere svegli. Chi si addormenta, è in grado di sognare, al massimo, una riedizione del passato che lui contempla in senso nostalgico. (...) Chi sogna da sveglio frequenta un mondo inedito, dove trovano posto cose "mai viste", "mai sentite", frutti mai gustati. (...)
Sovente la qualità del nostro vivere risulta scadente perché abbiamo paura di sognare cose stupende, cose grandi, cose nuove, cose "troppo belle per non essere vere". (...) E' la nostra fede, troppo spesso, che non ha il coraggio di sognare. Mentre Dio sarebbe disposto a garantire la legittimità dei sogni più audaci, la fattibilità dell'impossibile, la copertura dei progetti più folli.
Dio ci consegna dei sogni (...).
Sognare nel linguaggio biblico sovente equivale a sperare.
Speranza vuol dire possibilità di progettare (= sognare) un presente, oltre che un futuro, diverso, sorprendente, garantito dalla promessa del Dio fedele. 

Chi fabbrica la luce si sporca le mani
Il profeta, il poeta, non sono sognatori, ma costruttori.
L'uomo della speranza non sta ad aspettare l'avvento di un mondo nuovo, ma non esita a sporcarsi le mani per costruire questo mondo.
L'utopista non si gingilla con le sue idee sul futuro, ma vede il futuro come un compito da realizzare. Offre un luogo al proprio progetto, per cui ciò che non esiste da nessuna parte possa finalmente trovare collocazione in una parte precisa della terra. (...)
L'aggravante, per un cristiano - che ha un compito preciso di profezia, che non può essere assolto senza una robusta dimensione di speranza - sarebbe nel dichiarare la propria incapacità, nonostante ci sia una precisa parola di Dio ad assicurare che è possibile: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio! Poiché tutto è possibile a Dio» (Mc 10,27).

Preghiera alla Vergine della speranza
Credo di sapere, Maria, perché oggi scarseggia la speranza nel mondo. (...)
Il fatto è che molti pensano che sperare significhi semplicemente stare ad aspettare.
Aspettare un colpo di fortuna, una circostanza favorevole, la fatidica bacchetta magica che trasforma con un incantesimo la realtà più sgradevole, oppure un intervento decisivo dall'alto.
Non viene in mente che la speranza comporta un atteggiamento attivo, responsabile. (...)
Quando  le cose vanno male, l'uomo della speranza non si limita a sperare che vadano meglio, ma si dà da fare per cambiare certe situazioni. (...)
Allorché a Cana si è prodotta quella situazione incresciosa tu non hai detto «State a vedere che cosa farà». Ma «Fate quello che vi dirà».
Maria, Vergine della speranza, abbiamo bisogno di imparare che la speranza è collegata strettamente al verbo "fare".
Che coinvolgere Lui nelle nostre situazioni disperate vuol dire non tirarci indietro a nostra volta quando si tratta di impiegare le mani (ed è sempre questione di usare le mani).
Che il vino miracoloso gorgoglia non quando rimaniamo affacciati all'orlo delle grosse anfore, ma dopo che abbiamo armeggiato faticosamente attorno ad esse («le riempirono fino all'orlo...»).
C'è sempre uno stacco infinito tra le possibilità umane e il miracolo. Ma il miracolo non si produce come uno spettacolo offerto ai nostri occhi incantati.
Dio fa tutto da solo... con la nostra collaborazione.
Il miracolo non viene depositato su mani inerti.
Maria, rendici consapevoli che per aver diritto di sperare, non bisogna esitare a sporcarsi le mani...

don Alessandro Pronzato

tratto da «C'era la Madre di Gesù. A Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca»


26/12/13

La passione delle pazienze - Madeleine Delbrêl

La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente 
intendiamo viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro 
che ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, 
così noi sappiamo di dover essere consumati. 
Come un filo di lana tagliato dalle forbici, 
così dobbiamo essere separati. 
Come un giovane animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. 
Noi l'attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, 
che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, 
di ucciderci senza la nostra gloria.

Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa
e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.

Così vengono le nostro pazienze, 
in ranghi serrati o in fila indiana, 
e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.

E noi le lasciamo passare con disprezzo, 
aspettando – per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, 
così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato 
che se ci son fili di lana tagliati netti dalle forbici, 
ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.

E' la passione delle pazienze.


Madeleine Delbrêl


25/12/13

Natale di Gesù

Lc 2,1-14

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».


Pastori e Dio
Spaventa, questo Natale.
La crisi paventata ora è diventata lacrime e sangue. 
Famiglie che faticano ad arrivare a fine mese. Persone licenziate senza prospettive. 
Una paese incartato su se stesso, rissoso e inacidito che da’ il peggio di sé. A partire dalla classe politica e dirigenziale.
Spaventa per quanto assomiglia a quel racconto che abbiamo letto stanotte.
Spaventa per quanto assomigliamo ai pastori che cercano di scaldarsi dalla gelida notte della Giudea. Nei loro cuori rabbia, rassegnazione, disincanto, come sono i sentimenti di coloro che hanno speso tutte le energie per sopravvivere. 
Piccole vite inutili, rottami della storia, residui dell’umanità.
Ce n’erano allora, ce ne sono ancora oggi, sempre più numerosi.
Uomini e donne dalla vita anonima, sbiadita, inutile, che si sono arresi davanti al mondo competitivo, altri che non hanno mai neanche iniziato a combattere, sapendosi perdenti. 
I sogni sono finiti, se mai hanno avuto il coraggio di coltivarli.
Penso ai tanti perdenti che ho incontrato nella mia vita. E quest’anno.
Persone che non finiranno mai in nessuna statistica, in nessuna rivista, in nessun talk show.
Bastardi della storia, proprio come i pastori.

Buone notizie
E l’angelo appare loro, racconta Luca. Non all’imperatore tronfio dei suoi possedimenti, non a Erode che pensa che Dio sia un pericolo per la propria realizzazione, non ai sacerdoti pieni delle loro convinzioni assolute, non alla brava gente di Gerusalemme troppo presa dalle festività imminenti per desiderare veramente la venuta di Dio.
Loro, i pastori, non si pongono nemmeno il problema.
La maggioranza ha qualche guaio con la legge, nessuno ha il tempo di frequentare una sinagoga, nessuno rispetta il riposo dello shabbat, nessuno sale al tempio appena rifatto tre volte all’anno, non scherziamo. A loro non interessa il Messia, a loro non importa di Dio, né Dio si interessa di loro, ci mancherebbe.
E invece.
Quell’annuncio, quel battaglione di angeli in stile hollywoodiano, quel canto che augura la pace per chi si sente amato da Dio, ribalta ogni prospettiva, stravolge il mondo.
Andate a vedere, dice l’angelo, vedrete come segno una mangiatoia.
Per voi, non per gli altri, è nato il Salvatore.
Per voi che non sapete nemmeno cos’è, la salvezza.

Grande Dio
Mangiatoia-pastori. Come pesce per i pescatori o stoffa per il sarto.
Il segno che l’angelo dona ai pastori è ciò che conoscono meglio. Non alza l’asticella: possono incontrare Dio esattamente con ciò che sono, con ciò che conoscono. È Dio che si è fatto loro incontro, senza porre condizioni. E loro vanno, e vedono, e capiscono.
Spiegano alla ragazzina provata dal parto e al suo fidanzato degli angeli.
Maria sorride debolmente, Giuseppe non sa che pensare. Che storia.
Dio nasce in un paese lontano, in condizioni di disagio e gli unici che se ne accorgono sono quelli che mangiano pane (poco) e disagio una volta al giorno.
Tornano pieni di gioia al loro insopportabile lavoro, i pastori; nessun bel finale: l’odore di sterco è lo stesso, il freddo è ancora pungente. Ma il loro cuore è cambiato.

Ecco Dio
Ecco Dio, voi che lo aspettate.
Ecco Dio, voi che non ne sentite il bisogno.
Ecco Dio, professionisti del sacro. Eccolo, inatteso, sconvolgente, stordente, folle.
Un Dio che si annuncia a chi non se lo merita, a chi non lo prega, a chi maledice la vita tre volte al giorno.Un Dio che si fa riconoscere dai segni quotidiani, che si nasconde nelle piccole cose. Un Dio che cambia la vita che se anche resta la stessa, assume una luce diversa.
Un Dio che percorre l’ospedale da campo che è diventato il mondo, col camice imbrattato del sangue e le braccia pronte ad abbracciare.
Ecco Dio, discepoli del Nazareno, che ancora non vi stancate di essere cristiani e di seguirlo e di pregarlo. Ecco Dio, diverso da come lo vorremmo.
Un Dio bambino, che non risolve i problemi, ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non punisce i malvagi ma che dai malvagi è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge a noi poveri, a noi perdenti, a noi inquieti.
Lui per primo povero, perdente, inquieto per amore.
Se Dio è così
Se Dio è così significa che ama l’umanità al punto da diventare uomo.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso.
Che l’idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, che Dio ama, prima di essere amato.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
E che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato.
Che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita.
Se Dio è così.

Buon Natale, miei amati compagni di viaggio.

Paolo Curtaz


21/12/13

Il sogno di Giuseppe - IV Avvento

Mt 1,18-24

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.


Accoglie il Natale chi tiene sveglia dentro di sé la speranza di essere preso dal Signore.
Profeti come Giovanni ci invitano a prepararci ad accogliere un Dio che incendia.
Come Maria, la nostra vita può diventare la porta d’ingresso di Dio nel mondo.
No, non siamo qui a far finta che poi Gesù nasce. È nato il Signore, è morto ed è risorto.
Lo proclamiamo Signore e Dio della Storia. Anche se, come Giovanni il Profeta, possiamo essere attraversati dal dubbio più devastante: sei davvero tu o dobbiamo aspettarne un altro?
Ecco la sfida dell’avvento, di questo avvento: fare spazio in noi affinché la luce di Dio possa risplendere.
Come è successo al più sfortunato dei santi, Giuseppe.

Giuseppe, sposo sfortunato
Lo so, sono irriverente. Portate pazienza. Ma, alla fine della storia, Giuseppe è un poveraccio cui Dio ha soffiato la ragazza. E ci viene proposto, nell’ultima domenica di avvento, come modello.
Molti di voi mi hanno scritto, in settimana, identificandosi col profeta dubbioso: se il più grande uomo mai nato ha avuto dei dubbi, può succedere anche a me di averne.
Oggi la liturgia osa di più: il patrono della Chiesa, il padre di Gesù, lo sposo di Maria è stato un uomo che ha dovuto cambiare radicalmente la sua vita, uno che si è trovato nei guai fino al collo. 
E non ne è mai più uscito. 
Non è detto che l’incontro con Dio ti spiani la vita a suon di angioletti danzanti. 
Chiedetelo a Giuseppe.

Notti insonni
Matteo ci racconta stringatamente della nascita di Gesù, ma dal punto di vista di Giuseppe. È essenziale, perché si rivolge a degli ebrei, parlare del maschio di casa. Dalla discendenza di Davide doveva provenire il Messia, e Giuseppe proviene da quella discendenza. Solo che rispetto ai maschi che ascoltavano, ha avuto un percorso decisamente particolare.
Maria e Giuseppe sono fidanzati, hanno un regolare contratto di matrimonio stipulato dai rispettivi genitori. Maria è giovanissima, Giuseppe non lo sappiamo.
Se vi piace restare fedeli al Vangelo, non sappiamo molto di lui. Presumiamo che fosse un bravo e onesto ragazzo del paese, nulla di più.
Ma potete anche osare, facendo vostra una antica tradizione che vuole Giuseppe un vedovo che decide di prendere con sé Maria. Stretto, ma ci sta.
Quello che Matteo vuole dirci, però, è decisamente più semplice: l’unico a sapere che quel bambino non era suo è proprio Giuseppe.
Osiamo immaginare la sua notte insonne di maschio ferito?
La disperazione, la rabbia, il desiderio di vendetta?
Vendetta a portata di mano, e benedetta dalle leggi che gli uomini attribuiscono a Dio, spesso: lapidazione. Una donna adultera va lapidata, non ci sono storie.
Giuseppe, per essere devoto e ligio alla Legge di Dio deve far uccidere la sua futura sposa.
Alcuni studiosi sostengono che tale pratica non era più in voga in quel tempo, ma l’onta e il disonore sì.
E Giuseppe, per essere devoto e ligio alla Legge vera di Dio che porta nel cuore, decide di mentire.

Pio bugiardo
Dirà al rabbino di non volere più sposare Maria, che si è stancato di lei.
Maria tornerà mestamente alla casa dei suoi, nessuno la vorrà più come sposa, ma, almeno, avrà salva la vita e l’onore.
È giusto, Giuseppe, perché non giudica secondo le apparenze, perché non brandisce la Legge di Dio come una clava. È giusto, perché lascia prevalere la misericordia e l’amore alla vendetta, al suo orgoglio ferito.
È giusto, Giuseppe.
Averne.

Sogni
La decisione è presa. Ora arriva un po’ di sonno, mentre l’ultima stella della sera scompare. Il sonno è agitato, confuso. E Giuseppe sogna. Sogna di angeli rassicuranti, di spiegazioni misteriose, di un figlio che è di Dio ma che avrà il nome del falegname. 
A Maria Dio chiede un corpo, a Giuseppe di portare la croce di allevare un figlio non suo.
Come i tanti padri che tirano la carretta ogni giorno, senza far pesare in famiglia la situazione finanziaria traballante, ingoiando rospi, lasciando da parte loro stessi.
A Giuseppe è chiesto di prendere la dura realtà come proprio sogno.
Ora capisce il sogno, perché ha scelto di non seguire l’odio che portava nel cuore.
È libero, Giuseppe.
Giusto e sognatore.
Come gli uomini e le donne che, in mezzo all’oceano di nulla che sta sommergendo la nostra civiltà occidentale, osano ancora sognare e sperare.
Averne.

Countdown
Aveva certamente dei progetti, il buon Giuseppe: un laboratorio più grande, una casa spaziosa, dei figli cui insegnare l’uso della pialla e dello scalpello. Non aveva grandi pretese, questo figlio di Israele, un piccolo sogno da vivere con una piccola sposa. Ma Dio ha bisogno della sua mitezza e della sua forza, sarà padre di un figlio non suo, amerà una donna silenziosamente, come chi prende in casa l’Assoluto di Dio.
Giuseppe accetta, si mette da parte, rinuncia al suo sogno per realizzare il sogno di Dio e dell’umanità. 
Giuseppe è il patrono silenzioso di chi aveva dei progetti ed ha accettato che la vita glieli sconvolgesse.
Dio ha bisogno di uomini così. Di credenti così.
Pochi giorni al Natale, Giuseppe, dal silenzio in cui è rimasto, custode e tutore della santa famiglia, veglia su di noi e ci chiede di imitare la sua grandezza.
Averne.

Paolo Curtaz

www.tiraccontolaparola.it


17/12/13

L'amore del prossimo - Simone Weil


L'amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è analogo al genio. L'attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all'orlo della strada non c'è umanità. Eppure il samaritano che si ferma e guarda, fa attenzione a quella umanità assente, e gli atti che seguono confermano che si tratta di un'attenzione reale. La fede, dice San Paolo, è visione delle cose invisibili. E quel momento di attenzione è un atto di fede, così come un atto d'amore. (...)
Dio solo ha questo potere, di pensare realmente ciò che non è. Solo Dio, presente in noi, può realmente pensare la qualità umana negli sventurati, guardarli con uno sguardo veramente diverso da quello con cui si guardano gli oggetti, ascoltare veramente la loro voce come si ascolta una parola. Essi si accorgono allora di avere una voce; altrimenti non potrebbero neppure rendersene conto. Porgere veramente ascolto ad uno sventurato è tanto difficile quanto per lui il capire di essere ascoltato per pura compassione. 
L'amore per il prossimo è l'amore che scende da Dio verso l'uomo. E' anteriore a quello che sale dall'uomo verso Dio. Dio è ansioso di scendere verso gli sventurati. Non appena un'anima, fosse anche l'ultima, la più miserabile, la più deforme, è disposta ad acconsentire, Dio si precipita in lei per poter guardare e ascoltare gli sventurati per tramite suo.

Simone Weil



14/12/13

Fiamma d'amor viva - S. Giovanni della Croce


O fiamma d'amor viva,
che soave ferisci
dell'alma mia nel più profondo centro!
Poiché non sei più schiva,
se vuoi, ormai finisci;
rompi la tela a questo dolce incontro.

O cauterio soave!
O deliziosa piaga!
O blanda mano! o tocco delicato,
che sa di vita eterna,
e ogni debito paga!
Morte in vita, uccidendo, hai tu cambiato!

O lampade di fuoco,
nel cui vivo splendore
gli antri profondi dell'umano senso,
che era oscuro e cieco,
con mirabil valore
al lor Diletto dan luce e calore!

Quanto dolce e amoroso
ti svegli sul mio seno,
dove solo e in segreto tu dimori!
Nel tuo spirar gustoso,
di bene e gloria pieno,
come teneramente mi innamori!

S. Giovanni della Croce




10/12/13

Cinquantasette

Il solitario è un individuo chiamato a prendere una delle decisioni più terribili per un essere umano: quella di dissentire totalmente da coloro che considerano il richiamo alla diversione e all'illusione come la voce della verità e che appoggiano tale convinzione all'autorità del loro pregiudizio. Egli deve quindi sudare sangue nel tormento di essere fedele a Dio, al Cristo mistico, all'umanità intera, piuttosto che all'idolo offertogli in omaggio da un particolare gruppo. Egli deve rinunciare al beneficio di ogni comoda illusione che lo assolva da responsabilità quando è infedele al suo profondo io e alla sua più intima verità: l'immagine di Dio nella sua anima.

Thomas Merton

09/12/13

Ogni giorno è da vivere - M. Delbrêl


Ogni mattina
è una giornata intera
che riceviamo dalle mani di Dio.
Dio ci dà una giornata
da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo
e nulla di non “abbastanza”,
nulla di indifferente
e nulla di inutile.
E’ un capolavoro di giornata
che viene a chiederci
di essere vissuto.

Noi la guardiamo
come una pagina d’agenda,
segnata d’una cifra e d’un mese.
La trattiamo alla leggera
come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo
e vedere questo giorno elaborarsi
e nascere dal fondo dei secoli,
comprenderemmo il valore
di un solo giorno umano.

Madeleine Delbrêl


08/12/13

Immacolata Concezione (II Avvento A)

Lc 1,26-38


In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». 
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.



Questa II domenica d'Avvento incrocia la festa dell'Immacolata concezione.
E il testo dell'Annunciazione vogliamo proprio provare a leggerlo secondo la prospettiva dell'Avvento. 

C'è una donna che è incastonata nel quadro della sua vita: è una promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe, in una città ben precisa, Nazareth.
In realtà tutti questi fatti possono essere letti tutti in un'altra maniera. 
La realtà di Maria potrebbe essere leggibile, da un occhio esterno, come la storia ordinaria di una giovane fanciulla che sta per sposarsi, con un uomo di buona discendenza, e che si preparerà ad una vita sana,  buona... NO! Dio ha pensato altro. Dio ha pensato tutta un'altra cosa. Ha pensato che questa è la strada, il luogo, la casa, dove entrerà Lui!

Questo tempo dell'Avvento sempre ospita il Vangelo dell'Annunciazione come un perfetto paradigma dell'arrivo del Signore, della sua venuta. E infatti questa è la prima venuta del Signore, che fa il suo ingresso  in una storia ordinaria, in un luogo normale; e questo luogo normale non ha un "di più" a partire da se stesso, ma ha un "di più" a partire dall'iniziativa del Signore. 
Molto spesso noi crediamo che la vita cristiana e la sua novità siano qualcosa che dobbiamo stare a cercare dentro di noi, dentro le nostre qualità, dentro le nostre caratteristiche... e invece no: è l'irruzione del Signore che ci dà il "di più". 
Potremmo certamente obiettare: stiamo festeggiando l'Immacolata concezione di Maria, che ci dice che lei è stata preparata a questo "avvento", che lei e solamente lei poteva accogliere l'irruzione di Dio nella storia, proprio per la sua concezione immacolata, per il suo essere particolarmente dotata di grazia.
Questo è vero. Ma la sorpresa di Maria nell'annunciazione dell'angelo, ci fa capire che lei prende consapevolezza, di questo suo "essere preparata"; come la Chiesa ha preso pian piano consapevolezza del dogma dell'Immacolata concezione. Così noi prendiamo consapevolezza dei doni che Dio ci ha fatto: ci sono certi doni che in noi si svegliano solamente quando arriva il Signore; scopriamo che tutto è preparato quando invece tutto ci sembrava normale; scopriamo il "di più" proprio quando il Signore lo chiama "ad essere". C'è in noi una grazia latente, c'è in noi una bellezza che solo il Signore sa tirar fuori.
C'è in noi una Vita che nel codice della verginità di Maria è logicamente impossibile. Proprio questa è la categoria della verginità di Maria e della verginità in genere: biblicamente parlando, la verginità non è un atteggiamento morale, etico, ma semplicemente quel tempo in cui una persona non è ancora arrivata alla pienezza della femminilità, ossia la maternità. Questa verginità sembra una preclusione all'irruzione della vita: ci vogliono delle condizioni ben precise! 
No. Dio sa trarre la vita dalla verginità; Dio sa trarre la vita da qualche cosa che non sappiamo di avere in noi, che è un dono di Dio ed è la nostra condizione di essere benedetti, amati; che è la nostra condizione di essere stati dall'eternità disegnati per le nostre opere. 
Le opere a cui Dio ci chiama sono un po' come l'opera a cui è chiamata la Beata Vergine Maria. Sono opere straordinarie ma non possiamo guardare a noi per capirle, dobbiamo guardare a Dio. Maria guarda se stessa e ovviamente vede un'impossibilità: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» "Non posso farla io questa cosa qui!" Questo lo fa Dio, ma lo fa in noi. 

La festa dell'Immacolata Concezione fa presente tutta la generosità di Dio di cui non conosciamo ancora, veramente, fino in fondo, le implicanze, la lunga preparazione per la nostra vita. 
Quando ci apriamo all'opera di Dio scopriamo che possiamo generare una vita impossibile, che possiamo vivere il Regno di Dio in noi, nella nostra carne. Quando ci apriamo alla sua visita inaspettata ci può cogliere
un turbamento, come quello che ha vissuto Maria;  ma ecco se ci apriamo la nostra identità di servi del Signore si compie e vediamo la Sua Parola prendere corpo in noi, diventare realtà. 
Apriamoci, in questo tempo dell'Avvento, ad essere tempio di Dio, luogo dove Dio opera, luogo dove Dio sa creare novità.  Noi siamo quella creta che viene plasmata dal vasaio e che è povera, umile, è niente... ma Dio può salvare  il mondo per mezzo nostro. Ci può plasmare e tirare fuori da noi un'opera d'arte, può tirar fuori da noi la bellezza. 

In questo tempo proviamo ad aprirci al fatto che quello che ci sta succedendo è un'iniziativa di Dio; non dobbiamo guardare a noi stessi per capire ciò che Dio deve fare in noi, perché lo deve fare Lui. 
Molto spesso noi siamo di fronte alle cose, agli avvenimenti della nostra vita - alcuni  anche molto molto difficili - e stiamo lì, fermi, impauriti, terrorizzati dalla grandezza dei nostri problemi. Tutto questo sarebbe vero, se ci fosse solamente la realtà e di fronte alla realtà, la nostra povertà. Ma c'è Dio! 
C'è un "di più", c'è il Creatore, c'è il Re dell'Universo che sa tirar fuori dai nostri problemi la sua opera.
Apriamoci alla Vita, apriamoci alla visita di Dio, apriamoci al fatto che Dio è il Dio dei vivi! E le cose sono sempre e solo per la Vita! Tutto quello che ci succede è per la nostra salvezza e anche se qualcuno lo pensa per la nostra distruzione, Dio sa volgerlo al bene se ci mettiamo nelle sue mani, se diciamo si "sì", se ci lasciamo condurre.
Ecco, la venuta del Signore ha queste caratteristiche: essere portatori di una vita che solo Dio può generare, 
e la genera proprio in noi, proprio nella nostra esistenza.
Proviamo a pensare che cosa vuol dire rifiutare questa prospettiva: tutto quello che c'è è la nostra iniziativa e la nostra bravura, ma a quel punto tutto diventa mediocre, brutto... Non si può vivere senza straordinario! Non si può vivere senza grandezza; non si può vivere senza il Re che in noi prende vita.

don Fabio Rosini


07/12/13

Ti seguirò... - Etty Hillesum

Vedi, Dio, farò del mio meglio. Non mi sottrarrò a questa vita.
Continuerò a parteciparvi e cercherò di sviluppare tutte le doti che ho, se ne ho. Non saboterò nulla. Ma dammi ogni tanto un segno.
Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l'irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po' di quell'amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo "amore". Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente.
A volte credo di desiderare l'isolamento in un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono.
Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti. Certe volte mi viene da pensare che la mia vita sia appena all'inizio e che le difficoltà debbano ancora cominciare, altre volte mi sembra di aver già lottato abbastanza. Studierò e cercherò di capire, ma credo che dovrò pur lasciarmi confondere da quel che mi capita e che apparentemente mi svia: mi lascerò sempre confondere, per arrivare forse a una sempre maggior sicurezza.

Etty Hillesum



Il Signore farà grazia (Is 30,19-21.23.26)


dal Libro del Profeta Isaia



Popolo di Sion, che abiti Gerusalemme, tu non dovrai più piangere.
A un tuo grido di supplica ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta.
Anche se il Signore ti darà il pane dell'afflizione e l'acqua della tribolazione, non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: «Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a sinistra.
Allora egli concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno, e anche il pane, prodotto della terra, sarà abbondante e sostanzioso.
Su ogni monte e su ogni colle elevato scorreranno canali e torrenti.
La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, come la luce di sette giorni, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle sue percosse.




02/12/13

L'albatros - Charles Baudelaire


Spesso, per divertirsi, le ciurme
Catturano degli albatri, grandi uccelli marini,
che seguono, compagni di viaggio pigri,
il veliero che scivola sugli amari abissi. 

E li hanno appena deposti sul ponte,
che questi re dell’azzurro, impotenti e vergognosi,
abbandonano malinconicamente le grandi ali candide
come remi ai loro fianchi. 

Questo alato viaggiatore, com’è goffo e leggero!
Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto!
Qualcuno gli stuzzica il becco con la pipa,
un altro scimmiotta, zoppicando, l’infermo che volava! 

Il poeta è come il principe delle nuvole
Che abituato alla tempesta ride dell’arciere;
esiliato sulla terra fra gli scherni,
non riesce a camminare per le sue ali di gigante.

Charles Baudelaire



01/12/13

Vegliate! - I Avvento A

Mt 24, 37-44

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».


La venuta del Signore è come quella del ladro. L'accostamento è inquietante e, in qualche misura, sembra anche irriguardoso. Quasi dissacrante del volto del Signore. Ma, voi lo intuite, è solo per dire che la visita di Dio è, come afferma Gesù, nell'ora che non immaginiamo.
E così la vigilanza, la vigilanza cui siamo richiamati, proprio perché non sappiamo il giorno né l'ora, va distesa su tutta la vita. Non un istante su cui accendere l'attenzione. No, l'attenzione su tutta la vita: svegli, svegli e lucidi, su tutta la vita.
Perchè la venuta, dice Gesù nella pagina di Matteo, sarà come ai tempi del diluvio. È interessante notare come l'evangelista Matteo, riferendosi al tempo del diluvio, non accenni, come invece fa il libro della Genesi, alla malvagità e alla violenza di quella generazione. Scrive il libro della Genesi: "La malvagità era grande sulla terra, ogni disegno concepito nel cuore non era altro che male, la terra per causa loro era piena di violenza".
Ebbene la generazione del diluvio, nella redazione del vangelo di Matteo, non viene rimproverata per la sua malvagità e violenza. Fa cose, diremmo, normali, fa le cose che fanno tutti, le cose che appartengono al nostro vivere quotidiano: "Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito". 
Il rimprovero dunque non può essere evidentemente per queste cose, ma è per quello che segue. È scritto: "E non si accorsero di nulla, finché non venne il diluvio e inghiottì tutti".
È una generazione che non si accorge di nulla. Che non ha attenzione e lucidità. È inghiottita dagli eventi. Rimproverata è questa indifferenza, questa incoscienza. Vivere, ma senza sospetto, senza discernimento. Senza interrogazione. Senza interrogazione profonda.
Vedete, noi siamo stati educati a guardarci dalla malvagità e dalla violenza. E non sempre ce ne siamo guardati. Non siamo stati educati invece, o lo siamo stati meno, a guardarci dal sonno dello spirito: "Svegliamoci" diceva oggi Paolo "dal sonno", dall'indifferenza, dalla cecità. Di qui questo non accorgersi di nulla, questo non interrogarci sulle questioni fondamentali, questo essere trascinati dagli eventi, risucchiati dal trantran delle cose.
"Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito". E così anche le cose serie come mangiare e bere, prendere moglie e marito possono essere a tal punto idolatrate da occupare tutto il cuore, tutto il da fare della vita. Non c'è altro. Sommersi! Si fanno tante cose, - oggi più di ieri forse se ne fanno: pensate solo a quante se ne fanno fare ai bambini! - ma come per automatismo, come per una necessità sociale, per obbedienza, più o meno consapevole, alle mode del tempo. Ma rimanendone inghiottiti. Senza capire che cosa sta accadendo più in profondità, qual è il senso di tutto. Con l'esito - a volte devastante! - del non senso. Il non senso di tutto.
L'impressione che a volte se ne ricava è come quella di aver radunate tante cose, ma come pietre gettate. Gettate in un mucchio. Un conto sono le pietre gettate in un mucchio, un conto sono le pietre radunate in un edificio. Manca il disegno, manca l'architetto che vede il disegno, che raduna in un disegno.
Ci è chiesta una vigilanza: scoprire alla luce della parola di Dio la profondità della vita, la profondità degli avvenimenti e della storia. E non rimanere alla superficie. Alla superficie di ciò che sta accadendo. Questa nostra generazione si sta segnalando per una quantità di cose che conosce - sappiamo! - siamo gli uomini e le donne di una moltitudine di notizie, ma spesso facciamo cronaca. Non c'è sapienza di interpretazione.

Oggi le letture erano richiamo in molte direzioni. Io ne sfioro brevemente due.
La prima richiamata nella lettera dell'apostolo Paolo ai Romani: con l'invito a rivestirci di luce. Oggi sta diventando sempre più frequente il lamento, il piagnisteo sulla nequizia dei tempi. Non perdiamo ulteriormente tempo. Poniamo gesti che gettino semi per il futuro. Semi di luce. Germoglieranno. "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo". Per questo veniamo qui la domenica: per cogliere più in profondità il senso che Gesù dava alla vita, il disegno che fa delle pietre un edificio. E farlo nostro.

Seconda indicazione sull'essere svegli, vigilanti: non guardare indietro. E, al contrario, come oggi ci invitava a fare il profeta Isaia, guardare in avanti, al progetto di Dio. Il progetto di Dio, diceva Isaia, va verso un disegno che racconta l'affluire al monte di Dio di tutti i popoli, verso un criterio che non è la soppressione dell'altro o di se stessi, ma la relazione con l'altro. Non marciamo, sembra ammonire il profeta, contro il disegno di Dio, marceremmo verso il nulla. Mettiamo le premesse, se siamo vigilanti, se siamo intelligenti, per un mondo in cui si forgeranno le spade in vomeri e le lance in falci e un popolo non sorga più contro un altro popolo e non ci si eserciti più - brutto esercizio! - nell'arte della guerra.
Il mondo da progettare, se siamo vigilanti e intelligenti, se siamo realmente credenti, dovrebbe essere un mondo in cui gli uomini non siano costretti a minacciarsi a vicenda, fino alla morte, per potere convivere. Perché non è con il gelo che noi schiudiamo i fiori - stolta illusione! - ma con il tepore, il tepore dolce che non violenta le gemme, ma le schiude alla loro bellezza. Così fa Dio, questo è il progetto di Dio, questo il progetto dei credenti, di quelli che veramente credono in Dio.

don Angelo Casati

www.sullasoglia.it


27/11/13

La rivoluzione di Francesco: "Evangelii gaudium"


Tratto da "Avvenire" 26 novembre 2013



Viene pubblicata oggi l'esortazione apostolica Evangelii gaudium, e c'è dentro la summa del pensiero di papa Francesco sulla Chiesa di oggi e su quella che verrà.

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»: inizia così l’Esortazione apostolica con cui papa Francesco sviluppa il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, raccogliendo, tra l’altro, il contributo dei lavori del Sinodo che si è svolto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012 sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”. “Desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani – scrive il Papa - per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”.

«Stato di missione permanente». Un appello forte a tutti i battezzati perché portino agli altri l’amore di Gesù in uno “stato permanente di missione”, vincendo “il grande rischio del mondo attuale”: quello di cadere in “una tristezza individualista”. 

Il Papa invita a “recuperare la freschezza originale del Vangelo”, trovando “nuove strade” e “metodi creativi”, a non imprigionare Gesù nei nostri “schemi noiosi”. Occorre “una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” e una “riforma delle strutture” ecclesiali perché “diventino tutte più missionarie” . Il Pontefice pensa anche ad “una conversione del papato” perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. L’auspicio che le Conferenze episcopali potessero dare un contributo affinché “il senso di collegialità” si realizzasse “concretamente” – afferma - “non si è pienamente realizzato”. E’ necessaria “una salutare decentralizzazione”. 

«L'Eucaristia non è un premio per i perfetti». In questo rinnovamento non bisogna aver paura di rivedere consuetudini della Chiesa “non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia”. Segno dell’accoglienza di Dio è “avere dappertutto chiese con le porte aperte” perché quanti sono in ricerca non incontrino “la freddezza di una porta chiusa”. “Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. Così, l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia”. Ribadisce di preferire una Chiesa “ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa … preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci … è che tanti nostri fratelli vivono” senza l’amicizia di Gesù. Il Papa indica le “tentazioni degli operatori pastorali”: individualismo, crisi d’identità, calo del fervore. “La più grande minaccia” è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando”. 

«Dio ci liberi da una Chiesa mondana». Esorta a non lasciarsi prendere da un “pessimismo sterile” e ad essere segni di speranza attuando la “rivoluzione della tenerezza”. Occorre rifuggire dalla “spiritualità del benessere” che rifiuta “impegni fraterni” e vincere “la mondanità spirituale” che “consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana”. Il Papa parla di quanti “si sentono superiori agli altri” perché “irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato” e “invece di evangelizzare … classificano gli altri” o di quanti hanno una “cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo” nei bisogni della gente. Questa “è una tremenda corruzione con apparenza di bene … Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!” 

«Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?». Un appello è anche alle comunità ecclesiali a non cadere nelle invidie e nelle gelosie: “all’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre!”. “Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?”. Sottolinea la necessità di far crescere la responsabilità dei laici, tenuti “al margine delle decisioni” da “un eccessivo clericalismo”. Afferma che “c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa”, in particolare “nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”. “Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne …non si possono superficialmente eludere”. I giovani devono avere “un maggiore protagonismo”. Di fronte alla scarsità di vocazioni in alcuni luoghi afferma che “non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione”. Affrontando il tema dell’inculturazione, ricorda che “il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale” e che il volto della Chiesa è “pluriforme”. “Non possiamo pretendere che tutti i popoli … nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia”. 

«No a una teologia da tavolino». Il Papa ribadisce “la forza evangelizzatrice della pietà popolare” e incoraggia la ricerca dei teologi invitandoli ad avere “a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa” e a non accontentarsi “di una teologia da tavolino”. Si sofferma “con una certa meticolosità, sull’omelia” perché “molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie”. L’omelia “deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione”, deve saper dire “parole che fanno ardere i cuori”, rifuggendo da una “predicazione puramente moralista o indottrinante” (142). Sottolinea l’importanza della preparazione: “un predicatore che non si prepara non è ‘spirituale’, è disonesto ed irresponsabile”. “Una buona omelia … deve contenere ‘un’idea, un sentimento, un’immagine’” (157). La predicazione deve essere positiva perché offra “sempre speranza” e non lasci “prigionieri della negatività”.

«Questa economia uccide». Parlando delle sfide del mondo contemporaneo, il Papa denuncia l’attuale sistema economico: “è ingiusto alla radice”. “Questa economia uccide” perché prevale la “legge del più forte”. L’attuale cultura dello “scarto” ha creato “qualcosa di nuovo”: “gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”. Viviamo “una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale” di un “mercato divinizzato” dove regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista”.

Denuncia gli “attacchi alla libertà religiosa” e le “nuove situazioni di persecuzione dei cristiani … In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista”. La famiglia – prosegue il Papa – “attraversa una crisi culturale profonda”. Ribadendo “il contributo indispensabile del matrimonio alla società” sottolinea che “l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita … che snatura i vincoli familiari”. Ribadisce “l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana” e il diritto dei Pastori “di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone”. “Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza nella vita sociale”. Cita Giovanni Paolo II dove dice che la Chiesa “non può né deve rimanere al margine della lotta per la giustizia”.

“La politica, tanto denigrata” – afferma - “è una delle forme più preziose di carità”. “Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore … la vita dei poveri!”. Poi un monito: “Qualsiasi comunità all'interno della Chiesa” si dimentichi dei poveri corre “il rischio della dissoluzione”. 

«Chiamati a prenderci cura della fragilità», la difesa della vita umana. Il Papa invita ad avere cura dei più deboli: “i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati” e i migranti, per cui esorta i Paesi “ad una generosa apertura”. Parla delle vittime della tratta e di nuove forme di schiavismo: “Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta” . “Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza”. “Tra questi deboli di cui la Chiesa vuole prendersi cura” ci sono “i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana”. “Non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione … Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana”. Quindi, un appello al rispetto di tutto il creato: “siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo”.

da  www.avvenire.it

23/11/13

Cristo Re - XXIV T.O.

Lc 23, 35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio. Tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso».


E' una cosa scioccante pensare che nel giorno in cui proclamiamo la gloria di Cristo, Cristo Re, Signore dell'universo, del tempo e della storia, noi vediamo un povero disgraziato appeso ad una croce, insultato, che muore senza nessuna dignità. E questo sarebbe il Re?
E questa è infatti la domanda che gli viene fatta: Ma sei tu il Re? Ma questo sarebbe il Regno dei Cieli che ci hai portato? Sarebbe questa la tua regalità? Ma se un re è davvero tale, si mostra perché ha potere! «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» !  Ma che razza di re è mai questo?
Infatti ci sono i due malfattori crocifissi con lui. Uno dice: "Ma non sei tu il Messia? Salva te stesso e pure noi!". Noi non dobbiamo vedere in questa domanda solo un insulto, ma è anche una disperata richiesta: "Hai fatto tanti miracoli: ma fanne uno adesso, per favore! Salva te stesso e noi!"
[Questo ladrone è l'umanità sofferente con le sue rabbie, i suoi problemi; siamo un po' tutti noi, che solleviamo lo sguardo addolorati e diciamo: "se tu puoi fare qualche cosa, falla! Esci fuori da questo dolore e tira fuori anche me!"  Ma Gesù non risponde.]

Perché Gesù resta lì, sulla croce?
Il segreto è nelle parole dell'altro malfattore: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». Egli è davvero un innocente: allora perché non scende dalla croce e non salva se stesso? Ma perché è venuto per salvare noi, non se stesso! Se doveva salvare se stesso non sarebbe venuto proprio sulla terra! E' un innocente, ha un cuore d'amore e il suo è un atto d'amore.  Perché Lui non vive per se stesso, ma per noi. 
Questo è un re!  Un re vero, autentico, è quello che si occupa del popolo, che fa il bene del popolo.
Questa è una sferza per tutti coloro che hanno potere su questa terra, per tutti coloro che sono al governo delle Nazioni. Cos'è un re, chi è una persona che ha potere? Uno che perde la vita per gli altri

Ma questo è solo un punto di partenza nella riflessione su questo testo, perché noi arriveremo a qualcosa di meraviglioso che si aprirà in questa scena così tenebrosa, fosca. 
Siamo sulla croce, immersi nel dolore; siamo nella morte incipiente che già sta mordendo i corpi di questi poveri disgraziati ed ecco che questo re emetterà la sua regalia: Lui  regalerà il Paradiso. Questo uomo che non ha niente, regalerà la cosa più grande: il Cielo. A chi la regala? Ad un malfattore: sarà il primo santo che è entrato in Paradiso dopo Cristo: «oggi sarai con me  nel paradiso».
Questo vuol dire tante cose: innanzitutto che il Paradiso è stare con Cristo
"Siccome oggi sei qui con me sulla croce, starai con me anche in Paradiso. Stare con me è stare in Paradiso." 
Cos'è che cambia un luogo, che può essere anche il patibolo, in un'anticamera del Paradiso? Lo stare con Cristo. Noi non dobbiamo preoccuparci di dove stiamo, ma di con chi stiamo. Non dobbiamo preoccuparci delle situazioni che si vanno creando attorno a noi, ma se stiamo con Cristo.
Come fa quest'uomo, ladro fino in fondo, a "rubarsi" anche il Paradiso? Quale saggezza ha mostrato questo malfattore per avere così tanto da Cristo? Quest'uomo, nelle sue poche parole, in realtà dice una serie di cose che sono molto importanti: innanzitutto riconosce le sue colpe.  
Lui ha appena detto: "io sto ricevendo il giusto per le mie azioni". Cominciamo col riconoscere le nostre colpe: questo ci mette fuori dall'inganno della tenebra e ci spalanca le porte del Paradiso. 
Secondo, riconosce l'innocenza di Cristo: "Egli che male ha fatto? E' innocente". 
Cominciare a mettersi davanti a Dio senza incolparlo, senza rimproverarlo: "Ma che cosa ha mai fatto contro di me? Perché lo rimprovero tanto? Lui è innocente"
Ancora: riconosce in un morente un potere. «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». 
 Riconosce il potere autentico, che non è il potere di chi sta crocifiggendo Cristo, ma di Cristo che sa amare chi lo crocifigge. Questo è il potere vero!
Il potere in sé non è una cosa cattiva, ma può essere un'occasione, anche di bene. Occorre però capire qual'è il potere vero e qual'è il potere falso. Il potere dei governanti della terra è un potere falso, è un potere da quattro soldi, è un potere che passa... Il potere vero è il potere di amare. Il fatto che Cristo decida di non scendere dalla croce dimostra qualche cosa che Lui ha la possibilità di fare: qualcosa che nessuno sa fare! Questo è veramente un re. Egli potrebbe scendere dalla croce e non lo fa: questo è il vero potente. 
Il malfattore crede, in fatti, che Egli è davvero un Re.  Vede in quest'uomo la verità della scritta che Egli porta sopra il capo: INRI, Gesù Nazareno Re dei Giudei.  Riconosce in Cristo l'unico potente. 
La cosa, infine, più assurda che crede questo malfattore, è che questo uomo che sta morendo in croce ha un futuro: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Nonostante le apparenze, il malfattore crede che quest'uomo morente, crocifisso, ha un "dopo".
[Quest'uomo non chiede di essere tirato giù dalla croce, né chiede che Cristo scenda da lì. Il ladrone cattivo chiede: "salvati e salva anche me!" Il ladrone buono dice: "vai al tuo Regno e lì porta anche me". Entrambi chiedono il cambiamento della situazione, ma mentre il primo vuole il cambiamento istantaneo, l'altro è aperto al futuro. Capisce che forse quella situazione lo sta portando da qualche parte... 
E solo adesso Cristo parlerà: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso». 
Lo stanno insultando, lo stanno torturando, ma lui non dà alcuna risposta. Non dice niente; parlerà solo a quest'uomo qui, perché ha aperto la prospettiva del futuro. Finalmente qualcuno che inizia a capire cosa sta accadendo lì, sulla croce! 
E questo futuro sarà azzerato da questa relazione con Cristo: «oggi sarai con me nel paradiso». L'esperienza cristiana dell'abbandono a Dio, nel nostro dolore, è un'esperienza curiosissima: è aver aperto il cuore a qualche cosa che Dio solo sa quando si risolverà, eppure sperimentare che la pace già oggi entra nel nostro cuore. Tutto questo non è ancora compiuto, eppure io già sono fuori, proiettato verso il futuro, e qualcosa è già cambiato dal di dentro.
Cosa è stato il resto del patibolo per quel ladrone? E' stato un tunnel con la luce in fondo. Il dolore c'è ma c'è già anche la luce: ormai so dove sto andando. Per l'altro malfattore invece è rimasta l'assurdità del dolore e basta.
Chi è il nostro Salvatore, chi è il nostro Re? Uno che non ci toglierà dalla croce ma ci darà il Paradiso. Non ci toglierà dalla croce se non quando questo è nel suo piano, ma sicuramente ci darà il Paradiso, per mezzo della croce stessa. Per il ladrone quella croce è diventato il luogo dove ha trovato il Signore Gesù. E per assurdo l'esito tragico, fallimentare della sua vita è diventato gloria.]
Dobbiamo imparare da questo ladrone sapiente. Egli infatti non è tanto "buono", ma sapiente, sa pregare. Il problema, infatti non è tanto essere di qualità, migliori degli altri, ma saper chiedere e saper riconoscere chi è il re vero. Saper chiedere, a Chi può darcelo, il regalo più importante, la cosa che veramente conta.
Che il Signore ci dia, in questa festa di Cristo Re, di somigliare a questo malfattore: riconoscere i nostri peccati, riconoscere l'innocenza di Dio, credere al Suo Regno e all'opera che Dio porterà a compimento e diventare sudditi di questo Re e smettere di essere sudditi di altri re.
[Egli forse non ci toglierà la miseria della nostra vita, ma ci porterà, per mezzo di questa miseria, nel cielo.]

don Fabio Rosini