31/03/13

Dobbiamo risuscitarlo - A. Pronzato

E bisogna che anche noi Lo risuscitiamo. 
Lo facciamo uscire dal sepolcro in cui l'abbiamo relegato. Lo liberiamo dalle bende dei nostri pregiudizi, dei nostri rancori, delle nostre delusioni, delle nostre frustrazioni. Lo ripuliamo dalle immagini caricaturali con cui abbiamo deformato il suo volto. Gli permettiamo di frantumare gli schemi e le visioni meschine in cui l'abbiamo imprigionato. 
Dio segregato in chiesa. Ostaggio dei nostri riti formali. Addormentato dalle nostre nenie lamentose. Sorvegliato speciale perché non disturbi la quiete pubblica e si attenga strettamente al programma delle "onoranze" che abbiamo stabilito noi.
Vogliamo permettere a questo Dio di ridiventare Dio in noi? 
Vogliamo consentirgli di manifestarsi, non come pretendiamo che sia, ma come è? 
Vogliamo accordargli la libertà di compiere, non le cose che decidiamo noi - e che noi stessi, spesso, saremmo in grado di fare -, ma quelle "impossibili" che soltanto lui è capace di realizzare?
Accettiamo che si riveli molto migliore di quanto noi siamo soliti descriverlo, più tenero di quanto riusciamo a immaginare? 
Accettiamo che ci regali una gioia, una pace, una qualità e un'ampiezza e un'intensità del vivere quali non osiamo neppure sospettare? 

Forse la Pasqua è anche questo. 
Scoprire che Dio non sopporta il sepolcro in cui l'abbiamo confinato, la prigione (le infinite prigioni) in cui l'abbiamo rinchiuso. 
Perlustrare quel sepolcro, non per ritrovarlo, ma per scoprire che lui, fortunatamente, non c'è più.
E, inseguendolo nella luce pasquale, trovare il coraggio di mormorare: 
- Dio mio, come ti avevamo ridotto... 
E prendere sul serio ciò che dice a Maria di Magdala: 
- Non mi trattenere... (Gv 20,17). 
Forse riusciremo a resistere alla tentazione di toccarlo, riportarlo indietro, riappropriarcene, tenerlo sotto stretta sorveglianza. 
Ce la faremo, una buona volta, a non mettergli le mani addosso? 
"Fare Pasqua" vuol dire pure accettare il rischio di un Dio che non si rassegna a essere morto, che non sta alla parte che gli abbiamo assegnato noi. 


don Alessandro Pronzato

Pasqua di Risurrezione

Gv 20, 1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». 
Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.


E' mattino di Pasqua. Nella notte abbiamo cantato alla luce. Le nostre chiese erano immerse nelle ombre e nel buio profondo ecco accendersi una scintilla.
Nel buio della morte di croce la scintilla della risurrezione. E a quella luce tante piccole luci che illuminavano i volti. Anche noi oggi illuminati. Anche noi oggi, ancora una volta, siamo usciti a vedere, o meglio, a intravedere il mistero. 
C'è come un fremito nel racconto che abbiamo ascoltato, il fremito del correre di Pietro e di Giovanni. Si dice che corsero. E uno, il più giovane, più veloce dell'altro. Ma, ancor prima di loro, ci fu il correre di Maria, la donna di Magdala: le donne arrivano prima. Non è detto, nel brano, che Maria corse. Ma il fatto che si sia recata al sepolcro di buon mattino, quando ancora era buio, dice molto del desiderio, dell'amore, del correre del desiderio. E forse una prima preghiera che ci nasce in cuore questa mattina è che non venga meno questo correre. E che la vita non sia un dormire ad occhi spenti. E che la casa non sia senza finestre ad avvistare. E che la chiesa non sia a passi lenti o chiusa nell'immobilità dei cenacoli. Che la chiesa ritorni, che le case ritornino, che ognuno di noi ritorni ad essere la donna del mattino di Pasqua. 
La suggestione del correre, l'apertura sconfinata del desiderio si accompagna nel racconto dei vangeli della risurrezione al filtrare di una luce fatta di silenzi e di parole sussurrate. Non c'è l'invadenza dell'apparizione, non c'è la luce folgorante che ti vince e ti piega. Forse dovremmo più a lungo sostare su questa modalità che Dio ha scelto. Dio, voi lo sapete, non sceglie a caso. Dentro le sue scelte abita un pensiero. Perché non ha voluto per quel suo figlio morto in croce una modalità diversa, imponente, come avremmo voluto e scelto noi? Perché non la spettacolarità del morto che esce dalla tomba? Perché Dio ha scelto che nessuno lo vedesse uscire? La risurrezione di Gesù è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone. Come la fede, la fede vera. Chiede un abbandono ai piccoli, umili, per chi adora lo spettacolo, insignificanti segni. Segni che significano a chi ha un cuore che ricerca, a chi non è assopito mortalmente dalla notte, a chi sa uscire di casa. Che cosa vede Pietro, che cosa vede Giovanni alla fine della lunga corsa del desiderio? "Pietro vide le bende per terra e il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte". Quello che vide anche Giovanni, quando entrò dopo Pietro: "vide e credette". 
Bende e sudario, poveri segni, ma luminosi. Lazzaro risorto da morte dovette essere liberato da bende e sudario: "scioglietelo e lasciatelo andare". Qui nella tomba di Gesù bende e sudario sono a terra, come se qualcuno avesse avuto la forza di sciogliersi da solo. Le bende e il sudario per terra ci rimangono nella mente e nel cuore come il simbolo della sconfitta della morte. Sono segni inerti, per terra, in disparte, segni disabitati. Dio abita altrove. Abita nella vita Dio. Dio non è nei segni di morte, Dio è nei segni della vita. 
Come allora celebrare la Pasqua? Potremmo dire: togliendo le bende e i sudari che soffocano la vita nostra e altrui. Togliendo le bende, cioè tutto ciò che fa di noi persone fasciate, fasciate nella testa e nei movimenti, imprigionate nel desiderio che Dio ha acceso e accende dentro di noi. Come celebrare la Pasqua? Potremmo aggiungere, seguendo l'esortazione di Paolo ai cristiani di Corinto: togliendo via dalla vita e dalla società che costruiamo ogni lievito vecchio per essere pasta nuova. In preparazione della Pasqua ebraica, quasi condizione per celebrarla, quasi rito previo, si va a scovare nella casa ogni pezzo di pane fermentato, segno di malizia e di corruzione, perché sia eliminato. La Pasqua di Gesù - dice Paolo - non può essere celebrata con il lievito di malizia e di perversità. Ma con azzimi di sincerità e di verità. Cristo è risorto: diciamolo lottando contro tutto ciò che avvelena la vita, contro tutto ciò che corrompe il bene dell'umanità, sostenendo e promuovendo tutto ciò che costruisce il sogno di Dio sulla terra, un sogno di vita. In attesa della pienezza della vita, in attesa della beata speranza che ci attende.

don Angelo Casati

www.sullasoglia.it

30/03/13

Maria, donna del Sabato santo - Tonino Bello

(...) Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Le piante del giardino spanderanno insieme, come turiboli d'argento, la gloria delle loro resine? E gli animali del bosco ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l'Exultet? Come reagirà il mare, che brontola sotto la scogliera, all'annuncio della Risurrezione? L'angelo in bianche vesti farà fremere le porte anche dei postriboli? Oltre i cancelli del cimitero, sussulteranno sotto il plenilunio le tombe dei miei morti? E le montagne, non viste da nessuno, danzeranno di gioia attorno alle convalli?

Una risposta capace di spiegare il tumulto di queste domande io ce l'avrei. Se nel Sabato santo il presente sembra oscillare su passato e futuro, è perché protagonista assoluta, sia pur silenziosa, di questa giornata è Maria.

Dopo la sepoltura di Gesù, a custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei. Il vento del Golgota ha spento tutte le lampade, ma ha lasciato accesa la sua lucerna. Solo la sua. Per tutta la durata del sabato, quindi, Maria resta l'unico punto di luce in cui si concentrano gli incendi del passato e i roghi del futuro. Quel giorno essa va errando per le strade della terra, con la lucerna tra le mani. (...)

Santa Maria, donna del Sabato santo, estuario dolcissimo nel quale almeno per un giorno si è raccolta la fede di tutta la Chiesa, tu sei l'ultimo punto di contatto col cielo che ha preservato la terra dal tragico blackout della grazia. Guidaci per mano alle soglie della luce, di cui la Pasqua è la sorgente suprema.
Stabilizza nel nostro spirito la dolcezza fugace delle memorie, perché nei frammenti del passato possiamo ritrovare la parte migliore di noi stessi. E ridestaci nel cuore, attraverso i segnali del futuro, una intensa nostalgia di rinnovamento, che si traduca in fiducioso impegno a camminare nella storia.

Santa Maria, donna del Sabato santo, aiutaci a capire che, in fondo, tutta la vita, sospesa com' è tra le brume del venerdì e le attese della domenica di Risurrezione, si rassomiglia tanto a quel giorno. È il giorno della speranza, in cui si fa il bucato dei lini intrisi di lacrime e di sangue, e li si asciuga al sole di primavera perché diventino tovaglie di altare.
Ripetici, insomma, che non c'è croce che non abbia le sue deposizioni. Non c'è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c'è peccato che non trovi redenzione. Non c'è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell'alleluia pasquale.

Santa Maria, donna del Sabato santo, raccontaci come, sul crepuscolo di quel giorno, ti sei preparata all' incontro col tuo figlio Risorto. Quale tunica hai indossato sulle spalle? Quali sandali hai messo ai piedi per correre più veloce sull'erba? Come ti sei annodata sul capo i lunghi capelli di nazarena? Quali parole d'amore ti andavi ripassando segretamente, per dirgliele tutto d'un fiato non appena ti fosse apparso dinanzi?
Madre dolcissima, prepara anche noi all' appuntamento con Lui. Destaci l'impazienza del suo domenicale ritorno. Adornaci di vesti nuziali. Per ingannare il tempo, mettiti accanto a noi e facciamo le prove dei canti.

Perché qui le ore non passano mai.


don Tonino Bello,  "Donna dei nostri giorni"

Il mistero del sabato santo - Benedetto XVI


Meditazione di Benedetto XVI davanti alla sacra Sindone.
2 maggio 2010

« (...) Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” -, da questo volto promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità.»

Benedetto XVI

29/03/13

Buona notizia per i peccatori - Venerdì santo

Giorno severo è il Venerdì santo per i cristiani, ricorrenza percepita come l’”antifesta”, giorno ancora capace di isolare tragicamente la passione e la morte di Gesù rispetto alla sua risurrezione. Quando i cristiani vanno al loro Signore, sempre sono ricondotti all’unico evento della passione-morte-risurrezione, ma oggi è la passione culminata nella morte che è meditata, pensata, celebrata: è la croce che domina con la sua ombra la liturgia e che con il suo imporsi rimanda alla risurrezione solo come speranza, come attesa. Singolarità della fede cristiana l’avere come annuncio centrale il Signore crocifisso e individuare nella crocifissione di Gesù di Nazaret il racconto più epifanico di Dio. 
A. Van Dyck - Crocifissione

Cosa ricordano oggi i cristiani?
Ricordano che il venerdì 7 aprile dell’anno 30 della nostra era a Gerusalemme, città santa e cuore della fede ebraica, Gesù di Nazaret – un rabbi e profeta della Galilea che aveva destato attorno a sé un movimento e che trascinava dietro di sé una piccola comunità itinerante composta di una dozzina di uomini e alcune donne – viene arrestato, condannato e messo a morte mediante il supplizio della crocifissione. Storicamente si può dire che Gesù è stato arrestato su iniziativa di alcuni capi dei sacerdoti, la ierocrazia di Gerusalemme, a motivo di gesti compiuti e parole pronunciate: alcuni tratti messianici del suo agire, l’appassionata cacciata dei venditori dal tempio, la polemica profetica contro gli uomini religiosi, in particolare i sadducei.
Catturato di notte nella valle del Cedron da un pugno di guardie del tempio, fu trascinato presso il Gran Sacerdote alla presenza del quale avvenne un confronto che permise di formulare accuse precise da presentare al governatore romano, l’unico cui spettava il potere di emettere una condanna capitale e di disporne l’esecuzione. Va detto chiaramente che non ci fu un autentico processo formale e che la parte del sinedrio, riunitasi nella notte, quasi certamente non era in grado di deliberare in situazione legale. Gesù viene comunque consegnato a Pilato, il quale, con alcune sedute e procedimenti che paiono un vero e proprio processo, decide di condannarlo con altri malfattori, dopo averlo fatto flagellare. Misura di sicurezza, tentativo di compiacere il gruppo sacerdotale che glielo aveva consegnato, odio verso chiunque tra i giudei apparisse portatore di un messaggio non omogeneo all’ideologia imperiale? Probabilmente tutte queste ragioni insieme portarono Pilato a decidere per la condanna di quel galileo. 

Certo Gesù muore in croce, subendo quello che per i romani era un “supplizio crudelissimo e orribile” (Cicerone) e per gli ebrei era, come l’impiccagione, segno di scomunica per l’empio, maledizione del bestemmiatore, come recita la Torah: “Maledetto chiunque è appeso al legno” (Deuteronomio 21,23; cf. Gal 3,13).
Gesù muore nell’infamia della sua nudità, appeso a mezz’aria perché né il cielo né la terra lo vogliono, muore nella vergogna di chi è condannato dal magistero ufficiale della sua religione e dall’autorità civile perché nocivo al bene comune della polis! Gesù, a differenza del Battista, non muore come martire, bensì come scomunicato e maledetto, come ama dire Paolo che si vanta di predicare Gesù crocifisso, scandalo per gli uomini religiosi e follia per i saggi del mondo greco.
La croce, sì la croce è il segno di questa morte nell’infamia di Gesù – “annoverato tra i malfattori”, si compiacciono di annotare gli evangelisti – è il racconto della sua solidarietà con i peccatori, del suo abbassamento fino alla condizione dello schiavo umiliato, “fino alla morte e alla morte di croce”, come testifica Paolo. 
La croce non deve tuttavia prevalere sul Crocifisso! Non è la croce, infatti, a far grande chi vi è appeso, ma è proprio Gesù che riscatta e dà senso alla croce, in modo che tutti gli uomini che conoscono questa situazione di sofferenza e di vergogna, di maledizione e di annientamento possano trovare Gesù accanto a loro. Quello di ogni croce è un enigma, che Gesù rende mistero: in un mondo ingiusto, il giusto può soltanto essere rifiutato, osteggiato, condannato. E’ una necessitas humana, e Gesù – proprio perché ha voluto “restare giusto”, solidale con le vittime, gli agnelli – ha dovuto conoscere quest’urto dell’ingiustizia del mondo contro di lui. Ma chi sa leggere così la passione e la morte di Gesù è obbligato a comprenderla come una vicenda di gloria per Gesù: gloria di chi ha speso la sua vita per gli uomini, gloria di chi ha amato fino alla fine, gloria di chi muore condannato per aver cercato di narrare che Dio è misericordia, amore. Se c’è un luogo in cui Gesù ha reso Dio “buona notizia”, se lo ha “evangelizzato”, è proprio la croce: buona notizia per tutti i peccatori!

Oggi, Venerdì santo, i cristiani raccolgono nell’immagine del crocifisso, agnello innocente, tutte le vittime della storia, gli agnelli uccisi dai lupi: i cristiani in questo giorno sono chiamati a imparare a sostenere lo scandalo della croce senza rovesciare le colpe sull’altro, sicuri che dalla croce di ogni giusto si evidenzia una ragione per cui vale la pena dare la vita. Perché solo chi ha una ragione per cui vale la pena dare la vita, ha anche una ragione per cui vale la pena vivere.

Enzo Bianchi

www.monasterodibose.it

Il servo del Signore - Is 52,13 - 53,12

Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui
- tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo -,
così si meraviglieranno di lui molte nazioni;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, 
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E' cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo sua la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce 
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i colpevoli.

28/03/13

Il sacramento dimenticato - Giovedì santo

Gv 13, 1-15

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».


Forse quella cena, la più ricordata nella storia e la più rivissuta - disse: "fate questo in memoria di me"- non fu di giovedì santo, come a lungo abbiamo pensato. Con ogni probabilità fu di martedì, anche quello dunque santo, secondo il calendario degli Esseni che di martedì erano soliti celebrare la loro cena pasquale.
Noi la rivivremo tra pochi giorni e sarà di giovedì santo. Poco importa. Non sarà questo a impoverire la misura della memoria. O dell'emozione.
C'è un'emozione che tocca la pelle nella Messa del giovedì santo. In tutte le Messe certamente, ma, in quella sera in modo particolare, noi gente di naufragio ci sentiamo fedeli alla consegna: "fate questo in memoria di me". Una consegna nata da quella cena celebrata in una notte d'aprile, nella grande stanza, arredata con divani, al piano superiore della casa.
La città, la mia città, anche quest'anno, si farà deserta nell'occasione per il grande esodo di fine marzo. E la cena, cena per pochi, sarà lontana da regie fastose, lontana da coreografie imponenti. L'emozione sarà tutta per il pane spezzato e per il calice del vino. Il fuoco del mistero, il roveto ardente, sarà lì e non altrove. Lì e non altrove l'emozione.
Dobbiamo però subito aggiungere a scanso di tradimento - quello di Giuda non è l'unico - che la cena del Signore è in pericolo, sempre in pericolo fin dall'inizio. In pericolo di riduzione, di impoverimento a rito.
Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose, poche settimane fa, ci ricordava che, in modo scandaloso, il quarto vangelo non parla dell'istituzione dell'eucaristia. Uno scandalo che ancora rimane. Come è possibile il silenzio?
"È possibile" ci diceva "perché Giovanni scrive il vangelo ormai dopo gli anni novanta e vede che nella chiesa l'eucaristia è diventata un rito: si spezza il pane e si accede al calice, ma non c'è più un servirsi l'un l'altro nella comunità. E allora Giovanni sostituisce il racconto dell'istituzione del banchetto eucaristico con il racconto della lavanda dei piedi. E ricalca le parole di Gesù.
Nel racconto del banchetto, così come è ricordato dagli altri evangelisti, Gesù aveva detto: "fate questo in memoria di me". Nel racconto di Giovanni Gesù dice: "Avete capito quello che vi ho fatto? Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi l'un l'altro. Infatti vi ho dato l'esempio, perché, come io ho fatto, facciate anche voi".
Fate il banchetto, fate la lavanda dei piedi.
E perché non equivocassimo sul segno, quasi a mettercene in guardia, al presente e nella generazioni future, e perché il gesto rimanesse nella memoria dei discepoli, Gesù "si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto".
Era il gesto del servo. Oggi nelle celebrazioni è diventato per lo più una finzione: si lavano i piedi già lavati e spesso anche profumati. Così il gesto ha perso ogni profezia e provocazione.
Era, quello di Gesù, il gesto del servo che conosce la stanchezza di chi ha camminato a lungo per strade disagiate e polverose. Versare l'acqua, lavare i piedi è ristoro alla stanchezza degli umani.
Lavare i piedi di chi è stanco: ottavo sacramento. Sacramento non ricordato nell'elenco delle chiese, eppure istituito da Gesù con un gesto luminoso, esplicito, "il vero sacramento cristiano" scrive il teologo e pastore valdese, nostro amico, Paolo Ricca "il sacramento che più degli altri e meglio degli altri attualizza la presenza di Gesù in mezzo ai suoi. Se vuoi essere in comunione con Gesù, lava i piedi degli altri, lava i loro piedi. Come sapete, però, proprio questo è il sacramento che la chiesa, tranne alcune poche eccezioni, non ha adottato, omissione significativa".
"Lavare i piedi", ottavo sacramento. O se volete "essere servi" come Gesù è stato "servo". E di questo, del suo essere servo, ha fatto il titolo più significativo della sua vita.
"Voi" disse "mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene". Ma subito, a scanso di equivoci, aggiunse che il suo vero titolo era impresso a memoria in quel gesto, mani che lavano piedi. Sintesi estrema, ultima, senza fraintendimenti, dell'intera sua vita. 
"Conosciamo Gesù in molti modi" scrive Paolo Ricca "lo conosciamo come Signore, Redentore, Salvatore, Figlio di Dio, Figlio dell'uomo, guaritore, liberatore, profeta, Dio in persona, rivelatore e via dicendo, ma non lo conosciamo come "diacono", cioè come "colui che serve". È questo il paradosso da segnalare subito: non diamo a Gesù l'unico titolo che egli si è certamente dato, l'unica funzione che si è sicuramente attribuita, quella di "servo". "Io sono in mezzo a voi come uno che serve" (Lc 22, 27).
Perché questa omissione? Questa omissione del titolo di "servo" e, insieme, questa omissione dell'ottavo sacramento?
Dobbiamo riconoscere che titoli come "servo" o "colui che lava i piedi" non sono di moda né godono di buona reputazione nel nostro mondo, nella nostra società in cui hanno ben altro successo i titoli che segnalano i vincenti o i rampanti.
Ma ciò che sconcerta e muove scandalo è che già ai tempi di Gesù, già da quella sera così carica di emozioni, paradosso dei paradossi, proprio all'interno di quella cena - ancora erano seduti a tavola, ancora avrebbe dovuto indugiare negli occhi il gesto del banchetto, gesto a memoria di un rabbì che si dà come pane, ancora stava appeso il mistero al fiato dei lumi della sala - paradosso dei paradossi, scoppiò tra i discepoli una discussione su chi fosse tra loro il più grande. A un fiato dalla cena.
Sconcertante come già la prima di quelle ininterrotte cene fosse stata violata, nella sua essenza più profonda non solo dal tradimento di Giuda, questo sì ricordato a memoria per tutti i secoli dei secoli, ma violato, sconsacrato dai discorsi di grandezza degli altri. L'evangelista Luca appone i due tradimenti, quasi legandoli ad un unico filo, versetto a versetto: la discussione sul tradimento e la discussione, anzi la contesa su chi di loro fosse da ritenere il più grande. E Gesù. "Chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi sta a tavola? Ora io sto in mezzo a voi come chi serve".
Il rischio della Cena. Ed era la prima. E giù giù per i secoli. Fino ad oggi. Celebrare il rito importando sogni di supremazia e grandezza.
(...) Su "Avvenire" Mons. Piero Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, ripercorreva nella memoria i tempi in cui ogni domenica nella sua cattedrale c'era tutto un grande apparato per la celebrazione del pontificale del Vescovo. La celebrazione iniziava con il caudatario, il Vescovo con la cappa e l'ermellino, il rito nella sagrestia di togliere i calzari al vescovo e mettergli le scarpe per la celebrazione. Poi nel proseguire del rito il Vescovo che diceva la Messa per suo conto e l'assemblea abbandonata a se stessa.
Certamente crea sconcerto, come annota Mons. Marini, quella frattura tra il celebrante e il popolo. 
Ma come non sentire altrettanto sconcerto per aver introdotto nel memoriale di Gesù costumi così paradossalmente contrastanti? Non dovremmo avere tutti, popolo di Dio e chi presiede, dentro e fuori del rito, l'immagine del servo, di colui che lava i piedi, i piedi stanchi, troppo stanchi di questa nostra umanità?
È vera la celebrazione se ne usciamo con l'immagine del servo. "Meglio diventare servi gli uni degli altri" diceva Enzo Bianchi "che fare un rito senza lavarci i piedi gli uni degli altri".
Ma come dare forma al mandato di Gesù, legato all'asciugatoio e al catino d'acqua, mandato che è una consegna, la consegna di servire?
Innanzitutto, direbbe Paolo Ricca, ricordando che servire è sempre in prima istanza servire una persona, non un'idea, un programma, un'istituzione o altra realtà collettiva. Conosciamo purtroppo tutti l'inganno di coloro che, perché non amano veramente nessuno, pensano di amare Dio o l'umanità intera.
In seconda istanza, ricordando il particolare, che particolare non è, che Gesù, lavando piedi, nel suo gesto ha consacrato un'attenzione per corpi, per il corpo e non solo per l'anima, per i corpi di un'umanità stanca.
Sollevate, sembra dire, la stanchezza che pesa su questa umanità. Non passate con indifferenza. I vostri occhi siano pronti a cogliere le pesantezze che segnano i volti, troppi volti, i carichi che fanno curve le spalle, troppe spalle, il peso di chi ritorna a casa la sera ad ore tarde, sempre più tarde, il peso spesso dimenticato di chi ha faticato senza soste nelle case, la sfinitezza di chi è stremato dai problemi, la disperazione di chi non ha di che vivere...
E date, come potete, là dove potete, un gesto che sia sollievo, una parola che dica vicinanza. Lavate i piedi a chi ritorna dai polverosi, estenuanti, cammini della vita.
È il mandato del Signore, è la consegna della cena, è l'ottavo sacramento, sacramento dimenticato.

don Angelo Casati

www.sullasoglia.it


Abbiamo bisogno di preti.... - G. Romeo


Abbiamo bisogno di preti, Signore, ma di preti fatti sul Tuo stampo; non vogliamo "occasionali", ma preti autentici, che ci trasmettano Te senza mezzi termini, senza ristrettezze, senza paure. Vogliamo preti "a tempo pieno", che consacrino ostie, ma soprattutto anime, trasformandole in Te; preti che parlino con la vita, più che con la parola e gli scritti; preti che spendano il loro sacerdozio anziché studiare di salvaguardarne la dignità. 
Sai bene, Signore, che l'uomo della strada non è molto cambiato da quello dei tuoi tempi; ha ancora fame; ha ancora sete; fame e sete di Te, che solo tu puoi appagare. Allora donaci preti stracolmi di Te, come un Curato d'Ars, preti che sappiano irradiarti; preti che ci diano Te. Di questo, solo di questo noi abbiamo bisogno. 

Perdona la mia impertinenza: tieniti i preti specializzati, i preti eloquenti, i preti che san fare schemi, inchieste, rilievi. A noi, Signore, bastano i preti dal cuore aperto, dalle mani forate, dallo sguardo limpido. Cerchiamo preti che sappiano pregare più che organizzare, preti che sappiano parlare con Te, perché quando un prete prega, il popolo è sicuro. 

Oggi si fanno richieste, si fanno sondaggi su come sarà, su come la gente vuole il prete. Non ho mai risposto a queste inchieste, ma a Te, Signore, posso e voglio dirlo: il prete io lo voglio impastato di preghiera. 
Donaci, o Signore, preti dalle ginocchia robuste, che sappiano sostare davanti a Te, preti che sappiano adorare, impetrare, espiare; preti che non abbiano altro recapito che il tuo Tabernacolo. 
E rendici degni di avere tali preti. 

Gaetano Romeo 

27/03/13

Ho un solo sposo sulla terra - C. Lubich


«Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"» (Mc 15,33-34)

«Era pensiero corrente nei cristiani che il dolore più grande di Gesù fosse quello vissuto nell'orto del Getsemani. Ma un sacerdote ci aveva detto che il dolore più grande di Gesù era stato quando sulla croce ha gridato "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato". E noi, avendo una grande fede nelle parole del sacerdote, abbiamo creduto che il dolore dell'abbandono fosse il più grande. E infatti, anche il noto esegeta Lagrange lo conferma esplicitamente: "Desolazione più completa di quella del Getsemani, poiché Gesù non dice più 'mio Padre' ma 'mio Dio': Eloì, Eloì" ».

«Il dolore dell'abbandono di Gesù da parte del Padre, mistero dell'amore di Gesù per gli uomini, così intenso, così acuto, incominciava a penetrarci, a farsi conoscere, a farsi amare, ad attrarci. Era bello questo uomo-Dio ridotto per amore a cencio, a vergogna, a nulla - secondo il detto del salmista - estromesso dalla terra e dal cielo per introdurre noi nel Regno, coeredi con Lui del Regno, pieni della Sua luce, del Suo amore, della sua potenza, ricolmi di dignità altissima (...).
La sua unione col Padre, la dolcissima ed ineffabile unione con Lui (...), questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima e non farsi più sentire. Disunirlo in qualche modo da Colui che Egli aveva detto essere "uno con Lui": "Io e il Padre  siamo uno". In Lui l'amore era annientato, la luce spenta: la Sapienza taceva.  "Quel Logos - dice von Balthasar - in cui tutto nel Cielo e sulla terra era accolto e possiede la sua verità, cade disteso nel buio nell'assenza di ogni rapporto col Padre, che solo sostiene ogni verità" (...) 
Per farci Figli di Dio si privava del sentimento d'esser Lui il Figlio di Dio. Ora il Padre permetteva questa tenebra e aridità infinita dell'anima, questo nulla infinito. Si faceva dunque nulla, per far noi partecipi al "tutto". Verme della terra, per far noi Figli di Dio; eravamo staccati dal Padre ed era necessario che il Figlio nel quale noi tutti ci ritrovavamo provasse il distacco dal Padre. Doveva sperimentare l'abbandono di Dio perché noi non fossimo mai più abbandonati».

«Ed era bello, bello, bello, quest divino Amore delle anime nostre! Perché ci affascinava, forse ci innamorava, perché cominciavamo a vederlo dappertutto. Si presentava coi volti più diversi in tutti gli aspetti più dolorosi della vita: non erano che Lui, erano soltanto Lui e, anche se sempre nuovi, erano unicamente Lui.
(...) Ogni dolore fisico, morale o spirituale ci sono apparsi un'ombra del suo grande dolore. Sì, perché Gesù abbandonato è la figura del muto: non sa più parlare, non sa che altro dire. E' la figura del cieco: non vede; del sordo: non sente. E' lo stanco che si lamenta, rasenta la disperazione. E' l'affamato dell'unione con Dio. E' figura dell'illuso, del tradito: appare fallito. E' pauroso, timido, disorientato.
Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto; la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché è un Dio che chiede aiuto. E' il solo, il derelitto, appare inutile, scartato. (...)
Gesù abbandonato l'abbiamo amato specialmente nei peccatori: Egli è il piano inclinato per tutti gli uomini, anche i più miserevoli.  
Essendo stato abbandonato da tutti, ognuno poteva dire "è mio, è nostro" E' mio perché nessuno lo vuole, rifiuto del Cielo e del mondo. (...) Egli fattosi maledizione e peccato - se pur, non peccatore - per tutti noi era il punto di contatto con chiunque si chiama "uomo". 
Egli aveva gridato il "perché" al quale nessuno aveva risposto, perché noi avessimo la risposta ad ogni "perché"». 


Ho un solo sposo sulla terra...

Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù Abbandonato. Non ho altro Dio fuori di Lui.
In lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l'Umanità.
Perciò il suo è mio e null'altro. E suo è il Dolore universale e quindi mio.
Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita.
Ciò che mi fa male è mio.
Mio il dolore che mi sfiora nel presente.
Mio il dolore delle anime accanto (è quello il mio Gesù).
Mio tutto ciò che non è pace, gaudio, bello, amabile, sereno..., in una parola: ciò che non è Paradiso.
Poiché anch'io ho il mio Paradiso ma è quello nel cuore dello Sposo mio.
Non ne conosco altri.
Così per gli anni che mi rimangono: assetata di dolori, di angosce,
di disperazioni, di malinconie, di distacchi, di esilio, di abbandoni, di strazi,
di tutto ciò che è Lui.
Così prosciugherò l'acqua della tribolazione in molti cuori vicini
e - per la comunione con lo Sposo mio onnipotente - lontani.
Passerò come Fuoco che consuma ciò che ha da cadere
e lascia in piedi solo la Verità.
Ma occorre esser come Lui:
essere Lui nel momento presente della vita.


Chiara Lubich

Rocca di Papa, 7-8 dicembre 1971:  "Gesù abbandonato".


26/03/13

Ventiquattro


Non ci è domandato di essere forti nei momenti di sofferenza. Non si chiede al grano, quando lo si macina, di essere forte, ma di lasciare che la macina del mulino ne faccia della farina.

Madeleine Delbrêl



Il mio Dio è fragile - Juan Arias

Il mio Dio non è un Dio duro, impenetrabile,
insensibile, stoico, impassibile.
Il mio Dio è fragile.
E' della mia razza.
E io della sua.
Perché io potessi assaporare la divinità
lui amò il mio fango.
L'amore ha reso fragile il mio Dio.
Il mio Dio conobbe l'allegria umana, l'amicizia,
il gusto della terra e delle sue cose.
Il mio Dio ebbe fame e sonno e si riposò.
Il mio Dio fu sensibile.
Il mio Dio si irritò, fu passionale.
E fu dolce come un bambino.

Il mio Dio fu nutrito da una madre
e sentì e bevve tutta la tenerezza femminile.
Il mio Dio tremò dinanzi alla morte.
Non amò mai il dolore,
non fu mai amico della malattia.
Per questo curò gli infermi.
Il mio Dio patì l'esilio.
Fu perseguitato e acclamato.
Amò tutto quanto è umano il mio Dio:
le cose e gli uomini; il pane e la donna;
i buoni e i peccatori.
Il mio Dio fu un uomo del suo tempo.
Vestiva come tutti, parlava il dialetto della sua terra,
lavorava con le sue mani,
gridava come i profeti.

Morì giovane perché era sincero.
Lo uccisero perché lo tradiva la verità
che era nei suoi occhi.
Ma il mio Dio morì senza odiare.
Morì scusando che è più che perdonare.
Il mio Dio è fragile.
Il mio Dio ruppe con la vecchia morale
del dente per dente,
della vendetta meschina, per inaugurare
la frontiera
di un amore e di una violenza totalmente nuova.
Il mio Dio gettato nel solco,
schiacciato contro la terra
tradito, abbandonato, incompreso,
continuò ad amare.
Per questo il mio Dio vinse la morte
e comparve con un frutto nuovo tra le mani:
la resurrezione.
Per questo noi siamo tutti
sulla via della resurrezione: gli uomini e le cose.

E' difficile per tanti il mio Dio fragile.
Il mio Dio che piange,
il mio Dio che non si difende.
E' difficile il mio Dio abbandonato da Dio.
Il mio Dio che deve morire per trionfare.
E' difficile il mio Dio fragile amico della vita.
Il mio Dio che soffrì il morso
di tutte le tentazioni.
Il mio Dio che sudò sangue prima di accettare
la volontà del Padre.

E' difficile questo Dio.
Questo mio Dio fragile per chi pensa
di trionfare soltanto vincendo,
per chi si difende soltanto uccidendo,
per chi salvezza vuol dire sforzo e non regalo,
per chi considera peccato quello che è umano,
per chi il santo è uguale allo stoico
e Cristo ad un angelo.
E' difficile il mio Dio fragile
per quelli che continuano a sognare un Dio
che non somigli agli uomini.

Juan Arias  

tratto da  "Il Dio in cui non credo"

25/03/13

Il fallimento di Dio...? - Paolo Curtaz

Tre anni.
Non sono molti, se ci pensate. (...)
Tre anni trascorsi a piedi per le strade polverose di Palestina, annunciando il regno, in un crescendo di fama e di popolarità. Prima uno sparuto gruppo di curiosi aveva seguito il falegname divenuto profeta, a Cafarnao.
Poi la voce si era diffusa, come un contagio: come un fiume in piena la gente si radunava ad ascoltare il Rabbì. Le sue parole, il suo sorriso, il suo bene erano magnetici, contagiosi: egli parlava come se vedesse Dio faccia a faccia.
Dal nord Gesù era sceso a Gerusalemme la grande (...) e aveva cominciato a vivere le prime difficoltà: il potere religioso guardava con diffidenza ogni novità che nasceva al di fuori della propria influenza (ma va?) e le cose iniziavano a prendere una brutta piega.
Il punto di forza di Gesù, la folla, cominciava ad ondeggiare incerta .
Forse Gesù era solo un mago, un illusionista: i romani non se n'erano andati, molti malati restavano tali, i sacerdoti non lo appoggiavano. No, non era lui il Messia. (...)
Gesù inesorabilmente, vede che la sua missione vacilla. Anche i Dodici cominciano a dare segni di cedimento (...), sono lontani anni luce dalla consapevolezza di quello che sta per accadere. Storditi dal successo non si rendono conto del dramma che sta per consumarsi. E che li consumerà.
Gesù arriva alla vigilia della Pasqua, in quel mese di aprile, con una sensazione di profondo sconforto: la sua missione sta fallendo.

Diaboliche ragioni.
Forse l'avversario, che vede sempre il peggio e lo sottolinea, aveva ragione: l'uomo non si converte con le parole, ma con i miracoli e la paura. Che ingenuo Gesù! Davvero pensava di cambiare il cuore di Adamo con l'amore?
Lo abbiamo già detto: Gesù ha scelto come fare il Messia.
E. ora, deve arrendersi all'evidenza dei fatti: la sua predicazione non è servita.
Non come avrebbe voluto.
Se il suo obiettivo era quello di manifestare il volto del Padre, di mostrare che egli è il Figlio di Dio, quel risultato è ormai compromesso. Nei palazzi si sta già pensando come ucciderlo (...).
Gesù, ora, non sa come fare.
Ha poche assolute certezze: non lascerà la sua missione, sarà coerente fino in fondo al suo mandato, costi quel che costi (cfr. Mt 17,22-23)

Medito spesso le pagine della Passione. Mi ci trovo, come tutti.
In particolare resto sempre coinvolto e commosso dal senso di fallimento di Gesù.
So che l'uso di questa parola scandalizza qualcuno fra voi lettori e vi capisco, credetemi. 
Mette i brividi pensare al fallimento di Dio. Eppure egli ha voluto veramente diventare uomo, assumendo i rischi di questa scelta così coraggiosa. 
Per amore Dio è diventato uomo.
Per amore accetta i rischi dell'essere uomo.
Insisto su questo tema perché conosco molte persone che si vengono a trovare nella stessa situazione del Signore: amici che hanno investito anni in un progetto che vedono crollare, persone anziane cariche di acciacchi e di delusioni che scivolano nello sconforto e nel cinismo, preti che lentamente spengono in sé l'entusiasmo che li aveva motivati a scegliere di consacrare la propria vita alla causa del regno, genitori che assistono impotenti alle scelte distruttive dei figli mettendo in crisi il proprio ruolo educativo...

Quando ci sentiamo falliti, Dio sa di cosa stiamo parlando.
Nulla, ormai, gli sfugge. Egli conosce, egli sa.
Come noi ha voluto dover scegliere.

Un anziano prete, qualche anno fa, mi raccontava di un momento di grave crisi del suo ministero.
Giovane e intraprendente parroco inviato in una parrocchia molto difficile, resa tale da una serie di eventi storici che avevano segnato le persone, pensava di contagiare tutti con l'annuncio del Vangelo. Mi raccontava: «Dicevo loro: "Gesù ti ama, ti vuol bene, egli è il senso della tua vita!" e loro mi rispondevano: "Ovvio che dici così, è il tuo mestiere, ti pagano per dire quelle cose!"». Dopo tre anni di tentativi, esausto, voleva gettare la spugna. Ogni mattina, prima dell'alba, entrava nella chiesa buia: accendeva solo il faro che illuminava il crocifisso. Un giorno, infine, durante la preghiera, decise di andarsene: al sorgere del sole avrebbe preso la corriera e sarebbe sceso dal Vescovo per rassegnare le proprie dimissioni. In quel momento, come sollevato da un peso, scoppiò a piangere, in ginocchio, nella penombra.
Mi disse che, in quel preciso istante, sentì nel suo cuore la voce del Signore appeso in croce che gli diceva teneramente: «Tu vai pure. Io resto». (...)

La scelta.
Gesù, dicevamo, vede che la sua missione volge al termine.
L'uomo non ha capito, Adamo ha dato il peggio di sé.
Che fare?
Alcuni suggeriscono di usare la forza, di manifestare il volto di un Dio giustiziere che ristabilisca i ruoli e le proporzioni. (...)

«Ascoltate un'altra parabola. C'era una volta un padrone di casa che piantò una vigna... 

Alla fine mandò il proprio figlio, pensando che avrebbero avuto riguardo di suo figlio. Ma i coloni, vedendolo, dissero fra sé: "E' l'erede. Orsù, uccidiamolo; così avremo la sua eredità". Lo presero dunque e, portatolo fuori dalla vigna, lo uccisero.
Quando verrà il padrone della vigna, che cosa farà a qui coloni?» Gli dicono «Farà morire senza pietà quei malvagi e darà la vigna ad altri coloni, i quali gli renderanno i frutti a suo tempo» (Mt 21, 33. 37-41)

Lo sposo, Dio, chiede ragione alla sposa, Israele, della sua infedeltà. Il padrone chiede ragione della sua proprietà ai vignaioli omicidi. Un velo di tristezza attraversa lo sguardo di Gesù: ai suoi futuri carnefici egli chiede che cosa fare... La risposta è asciutta, violenta: il padrone deve fare giustizia, punire, uccidere senza pietà. (...)
No, non ucciderà, né userà violenza colui che rifiuta ogni violenza, che chiede ai suoi discepoli di riporre la spada, sempre (cfr. Mt 26,52).
Che fare?
Forse potrebbe andarsene, chiudere la parentesi, tornare al Padre. L'uomo continuerà a cercare risposte, a percorrere strade inquiete alla ricerca dell'Assoluto. (...)
Oppure.
Rischiare, lasciarsi andare, consegnarsi.
Abbandonarsi nelle mani degli uomini (Lc 23,25), che non vogliono abbandonarsi nelle braccia di Dio. Lo sa, Gesù, che ogni sua mossa ulteriore lo porterà diritto alla morte. Per lapidazione, probabilmente. O sulla croce, Dio non voglia (...).

Capirà che il suo discorso è serio?
Che le sue parole sono parole che provengono direttamente dal cuore di Dio?
Capirà che altro è fare prediche (e scrivere libri), altro morire?
Capirà che Dio ama senza condizioni?

Gesù è davanti alla più terribile delle scelte.
Il diavolo, ovvio, torna: è il momento opportuno per l'ultima tentazione.
«Cosa stai facendo, Nazareno? Non ti è bastata? Vuoi ancora credere che Adamo cambierà?
Non scherzare: i tuoi più fidi discepoli stanno dormendo. Uno dei Dodici sta venendo a prenderti per ucciderti.
Nessuno vuole un Dio come il tuo, rassegnati.
Vuoi davvero salire sulla croce? Per cosa? Per chi? Tutti si dimenticheranno di te!».

Gesù ora è solo.  Solo davanti alla sua scelta, solo davanti al rischio di diventare il Dimenticato della storia.
Centinaia di migliaia di persone, nella storia, sono morte crocifisse. Di nessuna di loro ricordiamo il nome.
Di nessuna.
Gesù rischia di essere semplicemente cancellato.

Oppure.

L'Appeso.
Gesù accetta la sfida, corre il rischio: berrà il calice fino in fondo, non si fermerà.
Il cuore della Passione, l'ho già scritto e lo ripeto, è l'amore, non il dolore.
L'amore di chi dona tutto, di chi dona la sua vita liberamente e per amore (...).

«Il popolo stava a guardare. I capi del popolo invece lo schernivano dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso se è il Cristo di Dio, l'Eeletto» (Lc 23, 35)

Sono tutti concordi: i capi del popolo, i pagani, il ladro.
Ora Gesù può veramente dimostrare ciò che egli è, il Figlio di Dio. Ora ne ha l'occasione, la possibilità, è davvero l'ultima chance: deve solo scendere dalla croce e salvare se stesso.
Salvare se stesso è la condizione che viene posta a Gesù per dimostrare di essere il Figlio di Dio.
Dio non è forse il bastante a se stesso? (...)
Noi invidiamo Dio per la sua totale autosufficienza, per la sua assoluta perfezione: egli non ha bisogno di alcuno.
Allora, se davvero Gesù è Dio, deve salvare se stesso.

No: Gesù non salva sé. Salva me.
La sua vita è un dono, il suo unico desiderio è quello di riempire i nostri cuori.
Gesù muore donandosi. Consumato, l'Appeso innalzato attira tutti a sé (cfr. Gv 12,32).

Fine.
La missione di Gesù si conclude tragicamente.
Il suo corpo nudo, sfigurato e tumefatto, spezzato e straziato, viene ora deposto dalla croce.
Un discepolo ricco, Giuseppe, che non è riuscito a salvarlo, gli fa dono, ora, della sua preziosa tomba scavata nella roccia (cfr. Mt 27,57-60).

Fine della storia terrena di Gesù. Fine di un bel sogno cresciuto in una terra lontana.
Qualche biografo - tenero - decide di raccontare la storia di uno dei tanti uomini che, periodicamente, rendono nobile la stirpe dei figli di Adamo. Qualche romanticone - tenero - si appassiona alla sua storia e la narra come fecero i menestrelli per le gesta dei cavalieri. Qualcun altro - carogna - ha preso la storia del Nazareno e ci ha ricamato sopra per due millenni, compiendo ogni abominio nel nome di quell'uomo.

Eppure....

Paolo Curtaz,  "Gesù zero. Quello sotto la crosta"


24/03/13

L'uomo che cammina - C. Bobin


Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato.

Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l'ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia.

Va dritto alla porta dell'umano. Aspetta che questa porta si apra. La porta dell'umano è il volto. 

La sua parola è vera solo in quanto disarmata. La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, reso debole dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re d’umanità, dell’unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice. Il mondo non poteva sentirlo. Il mondo sente solo quando c’è un po’ di rumore o di potenza. L’amore è un re privo di potenza, dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno.

I quattro che descrivono il suo passaggio sostengono che, morto, si è rialzato dalla morte. 
E' questo indubbiamente il punto di rottura: questa storia che ha molti tratti della luce serena d'Oriente, assume qui una dimensione incomparabile. O ci si separa da quest'uomo su questo punto, e si fa di lui un sapiente come ce ne sono stati migliaia (...) Oppure lo si segue.

L'uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. 

Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi (...) sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile. La loro parola è folle e tuttavia cosa valgono altre parole, tutte le altre parole pronunciate dalla notte dei secoli? Cos'è parlare? Cos'è amare? Come credere e come non credere? 

Forse non abbiamo mai avuto altra scelta che tra una parola folle e una parola vana. 


tratto da  Christian Bobin, "L'uomo che cammina"





La Passione - Domenica delle Palme

Racconto della  "Passione" secondo Luca.  (Lc 22,14-23,56)

Poco
 o
 tanto
 abbiamo
 tutti
 frequentato
 un
 certo 
immaginario
 su
 Dio
 che
 ce 
lo
 restituiva
 come 
custode
 geloso
 della propria
 autosufficienza. 
Fatichiamo 
a 
tenere 
insieme grandezza
 di Dio 
e
 quel
 suo 
incedere
 a 
dorso 
di 
un 
asino,
segno
 dello 
stile 
mite 
e 
umile 
con 
cui 
incede 
nella 
vita 
dell’umanità! Come
 dar
 torto
 ai
 Giudei
 che,
 nei
 giorni
 immediatamente
 prima
 della
 passione,
 contestavano 
a 
Gesù
 il
 fatto
 che 
egli
 potesse
 essere 
il
 Figlio
 stesso
 di
 Dio? Come
 non
 patire 
scandalo 
di
 fronte
 a 
uno 
che 
si 
ritrova 
alla 
mercé 
di 
un 
tribunale 
terreno
 e 
non 
batte
 ciglio 
per 
difendersi? 
Come 
poter
 pensare 
che 
abbia 
delle 
prerogative
 divine 
uno 
che 
si 
ritrova
 bersaglio
 dell’umano
 risentimento?
 Come 
tenere 
insieme
 il 
nostro 
immaginario 
su
 Dio 
e 
la 
rivelazione 
di 
Dio 
che
 Gesù 
attesta 
di 
essere?
 Le 
due 
cose 
non
 stanno 
insieme:
 o 
il 
nostro 
immaginario 
su 
Dio 
è
 falsato
 o
 quell’uomo
 è
 un
 bugiardo,
 un 
impostore.
 Delle
 due 
l’una: 
la
 seconda, 
guarda 
caso.

Ma 
perché 
questo 
inedito 
modo
 di 
rivelare 
il
 divino?
 Perché,
 se 
anche 
solo 
per 
un
 attimo,
 Gesù
 facesse
 uso
 del
 potere,
 come
 gli
 viene
 abbondantemente
 suggerito
 da
 chi
 lo
 irride,
consacrerebbe
 la
 forza,
 lo
 strapotere
 come
 i
 criteri
 per
 assoggettare
 l’uomo.
 
Dio
 non
 si 
imporrà
 mai 
come 
evidente;
 non
 costringerà 
mai
 l’uomo
 ad
accogliere 
la 
comunione
 con
 lui.
 Per
 questo,
 accettando 
di 
toccare
 il 
fondo
 dell’umana 
abiezione,
toccando 
cioè 
l’umile
 misura
 dell’uomo,
 non
 si
 sentirà
 mai
 diminuito.
 Quando
 uno
 ama
 e
 ama
 per
 davvero,
 non
 teme
 di
esporsi
 al
 ridicolo 
e
 persino
 al
 rifiuto,
lasciando
 sempre 
all’altro 
la
 libertà
 di
 accogliere
 il
 dono 
dell’amore
 o
meno.
 Perché
 non
 vuole
 essere
 amato
 per
 forza.
 Patirà
 nell’abbandono 
e
 nella
 solitudine 
più 
grandi 
la
 sua
 passione 
d’amore
 ma 
non
 si 
imporrà 
mai
 come 
necessario.
 
Quanto
 avremmo 
bisogno 
di
 metterci
 a 
questa 
scuola 
quando 
saremmo
 tentati
 di 
costringere 
l’altro nella
 rete dei 
nostri 
ricatti
 affettivi! È
 il
 paradosso 
della
 nostra 
fede
 che 
non
 finiremo
 mai
 di 
comprendere 
appieno: 
la
 vicenda 
di 
Gesù
 non
 si 
chiude 
con
 qualcosa
 di
 tangibile
 che
 ne
 ricordi 
la 
presenza 
e 
l’operato.
 Tutto
 sembra
 irriducibilmente 
distrutto; 
i
 suoi 
amici
 sono
 fuggiti;
 il 
bene 
che 
ha 
compiuto 
sembra
 dimenticato.
 
Che
 cosa 
resta?
 La 
sua 
misericordia 
e 
il 
suo 
perdono.
  Ad 
attestare 
ancora 
oggi 
la 
presenza
 di 
Dio, 
non 
apparati
, ma
 l’umile 
gesto
 di 
chi 
non 
prevarica. Facciamo
 fatica
 a 
comprendere 
un 
tale 
linguaggio
 noi 
che 
frequentiamo 
abbondantemente la 
cultura
 del 
non
 perdere,
 del 
vincere 
a 
ogni 
costo.
 
La 
passione 
del 
Figlio 
di 
Dio 
ci
 attesta
 che 
snodi
 salvifici
 si
 schiudono
 all’orizzonte
 delle
 nostre
 storie
 non
 quando
 si
 è
 certi
 di
 poter
 contare 
sulla
 forza
 di 
qualcuno
 ma 
quando 
qualcuno 
rinuncia 
volutamente 
all’esercizio
 della 
forza
 mettendo
 la
 propria
 vita
 a
 servizio
 di
 altri.
 L’esercizio
 della
 forza,
 infatti,
 se
 preserva
 l’incolumità 
di 
qualcuno, 
finisce
 comunque 
per
 mietere 
non 
poche 
vittime. 
Accade
 anche
 a
 noi
 di
 non
 comprendere
 tanti
 degli
 eventi
 che
 subiamo
 o
 di
 cui
 siamo 
protagonisti:
 sconfitte 
di
 ogni 
giorno, 
sofferenze 
legate
 ad 
una 
malattia, 
incomprensioni, 
scelte 
sbagliate,
 problemi 
economici. 
Accade
 anche
 a 
noi
 di 
invocare 
il 
Padre
 e 
sperimentare
 il 
suo
 silenzio.
 Eppure 
egli 
parla: 
la 
presenza 
del
Padre
 è 
da 
scorgere
 nella
 decisione 
con
 la
 quale
 Gesù 
si 
rialza.
 Se 
non 
parla 
con 
una 
parola, 
il 
Padre
 parla
con
 la
 determinazione 
che 
il 
Figlio 
si 
ritrova. 
Non
 temiamo
 di
 andare
 avanti
 comunque,
 non
 abbiamo
 paura
 di
 restare
 fedeli
 a
 delle
 esigenze
 che
 ci sembrano 
ardue, 
non 
scoraggiamoci 
quando 
all’orizzonte
 intravediamo 
giorni
 senza
 futuro.
 Il 
solo 
rimanere, 
il
 perseverare
 è 
già 
il
 segno
 che
 Dio
 è
 ancora
 all’opera
 nella 
nostra 
vita. 
Il
 pianto, 
il
 gemito, 
il
 dolore
 diverranno
 non
 l’anticamera
 di 
una 
morte, 
ma 
i 
segni di un travaglio.

don Antonio Savone

tratto da   http://nuke.acasadicornelio.it

23/03/13

Le rondini - Lucio Dalla


Vorrei entrare dentro i fili di una radio 
e volare sopra i tetti delle città
incontrare le espressioni dialettali 
mescolarmi con l'odore del caffè.
Fermarmi sul naso dei vecchi mentre leggono i giornali 
e con la polvere dei sogni volare e volare 
al fresco delle stelle, anche più in là.

Sogni, tu sogni nel mare dei sogni. 

Vorrei girare il cielo come le rondini 
e ogni tanto fermarmi qua e là,
avere il nido sotto i tetti al fresco dei portici 
e come loro quando è la sera chiudere gli occhi con semplicità. 

E seguire ogni battito del mio cuore 
per capire cosa succede dentro 
e cos'è che lo muove;
da dove viene ogni tanto questo strano dolore,
vorrei capire insomma che cos'è l'amore 
dov'è che si prende, dov'è che si dà 

Sogni, tu sogni nel cielo dei sogni



Ci mancano il volto e la voce dell'amore - Pronzato

«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)

Maria di Nazaret non si limita ad avvertirci che stiamo perdendo il senso dell’amore, ma ci suggerisce pure i rimedi per ritrovarlo. 
Tra questi abbiamo sottolineato l’importanza di recuperare l’amore “alla fonte”, ossia in Dio, sorgente e modello e misura del nostro amore, di agganciarlo alla fedeltà, di esprimerlo col sacramento del volto. 

Il sacramento del volto. 
L’amore mette il volto allo scoperto. Lo svela. 
Il volto diventa, in tal modo, specchio per l’altro. Uno si riconosce, esiste grazie all’altro. [Dice] Kierkegaard: «Basta guardare un uomo per sapere con certezza se sia stato veramente innamorato. Diffonde attorno a lui un alone di trasfigurazione, una certa divinizzazione che si perpetua lungo tutta la sua vita. (…) C’è in lui un’armonia che pervade tutta la sua vita». Un’armonia che viene espressa soprattutto attraverso il “sacramento” del volto. 

Anche il cristiano è un volto che incontra altri volti. Gli incontri che contano sono quelli che avvengono tra volti. Certe persone, che magari ti stanno a pochi centimetri di distanza, risultano inavvicinabili. Non arrischiano il volto. Non si espongono col volto. Troppo impegnativo, costoso.
Il volto è "mascherato", difeso, protetto, sottratto allo sguardo, nascosto chissà dove. Si comunica con qualcos'altro, non col volto. E quando non c'è di mezzo il volto, non esiste comunicazione, ma inganno, diffidenza, istinto di difesa.
Un cieco mi confidava che il motivo di sofferenza più acuta per la sua infermità è costituito dall'impossibilità di «accarezzare con gli occhi il volto di una persona».
E' stato detto che si può sparare a un uomo solo chiudendo gli occhi, evitando di guardarlo in faccia (...) Con l'indifferenza, io cancello il volto dell'altro. Con l'avidità e la cupidigia, lo rendo oggetto, merce di consumo. Con gli occhi iniettati dal veleno del disprezzo, io sopprimo l'altro.
E' necessario smantellare  il mio volto aggressivo, ostile all'altro. E' urgente liberarlo da ogni istinto di dominio, possesso, visione utilitaristica. Restituirgli trasparenza, semplicità, accoglienza. (...)

Non soltanto il volto, ma anche la voce ha una funzione rivelatrice.
Brutto segno quando gli sguardi si evitano, allorché non si ha più il coraggio di guardare negli occhi la persona amata. Non essere guardati, significa essere rifiutati, ignorati. Io esisto grazie allo sguardo dell'altro.
Tuttavia, un segno ancora più preoccupante è quello rappresentato da una voce "mascherata", che ha perso la tonalità della freschezza, il timbro della spontaneità, la vibrazione della tenerezza. 
Chi ama avverte immediatamente quando nella voce dell'altro si è prodotta un'incrinatura, una stonatura, quando è sparito l'accento della sincerità.
Paradossalmente, è più facile mascherare la faccia che non la voce (...).

La voce permette di vedere.
L'amata del Cantico punta tutto sulla voce del "diletto":

«Una voce! Il mio diletto!
Eccolo viene
saltando per i monti
balzando per le colline» (2,8).

Una voce impercettibile, che però viene registrata dal cuore, anche durante il sonno:

«Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! E' il mio diletto che bussa» (5,2).

Quando si informa presso le guardie se hanno visto l'amato del suo cuore (3,3), rimane delusa. Gli occhi non sono in grado di fornire l'informazione desiderata. Meglio affidarsi alla voce: «Fammi sentire la tua voce» (8,13).

Restituzione grazie alla voce.
Le pecore, nel recinto, durante la notte, possono provare l'impressione di aver perduto il pastore.
Lo ritrovano, al mattino, non quando lo vedono, ma allorché «ascoltano la sua voce» (Gv 10,3). Allora avviene l'incontro, il riconoscimento reciproco, grazie ad una specie di liturgia della voce.
«Egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori... Cammina innanzi a loro. E le pecore lo seguono perché riconoscono la sua voce» (10,4).
E' la voce che permette di distinguere il pastore dagli intrusi. E' la voce che restituisce ciò che è stato sottratto agli occhi.

La voce non tradisce.
Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, allorché si affida al "vedere", si sente autorizzata a piangere, perché avverte ciò che le è stato tolto: «hanno portato via il mio Signore dal sepolcro e non so dove l'hanno posto» (Gv 20,13).
Lo ritrova al suono, inconfondibile, della voce: «Maria!» «Rabbunì!».
Gli occhi hanno fatto velo, non le hanno consentito di riconoscerlo. Quel timbro, quel tono, il nome pronunciato come una carezza, fanno scoccare la scintilla del "riconoscimento".
Anche lei, come le pecore nel recinto, riconosce il Pastore quando lo sente pronunciare il proprio nome (Gv 10,3b).

Rispondere al richiamo della voce.
Infine, Giovanni Battista.
Lui, come tutti i solitari, accetta di chiudere gli occhi. Rifiuta la conoscenza che arriva da parte degli occhi.
Ma, ad un tratto, «sussulta di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3,29).
E l'uomo del deserto, che si è imposto di tacere, ritrova dentro di sé la propria voce che esce fuori di prepotenza, ha l'audacia di rispondere al richiamo di quell'altra voce, corre incontro più veloce dei passi. (...)
E' la voce, quindi che consente la manifestazione.
Stabilisce il contatto.
Anticipa l'incontro.
Celebra il possesso.

Onorare i debiti di amore.
E, per favore, non pensiamo che l'amore sia un "di più", qualcosa cui non sono strettamente tenuto. Che la bontà rappresenti un lusso che mi concedo quando mi sento in vena di generosità.
L'amore non si colloca nel registro del "superfluo" o dello "straordinario" che distribuisco, a mia discrezione, magari per sentirmi migliore degli altri. (...).
La carità non è quel "qualcosa in più" che, nella tua magnanimità, senza alcun obbligo specifico al riguardo, offri agli altri.
La carità "la devi". E' un credito che ciascuno vanta nei tuoi confronti.
L'amore: ecco ciò che il cristiano deve a tutti.
Allorché hai amato il prossimo, l'hai aiutato, servito, perdonato, sfamato, curato, beneficato, non hai fatto niente di straordinario. Hai pagato semplicemente i debiti, secondo le usanze del regno di Dio. (...)

Amore e discrezione.
L'amore vero non va esibito clamorosamente e chiassosamente, ma dev'essere rigorosamente accompagnato dal senso del pudore, una preoccupazione costante di discrezione.
L'indifferenza, l'estraneità talvolta possono essere peggiori dell'odio. Perché riescono a cancellare la persona dell'altro. Tuttavia io "cancello" l'altro, non solo allorché lo ignoro, ma anche quando gli tolgo la libertà, lo soffoco, lo strumentalizzo, lo uso disinvoltamente come trofeo della mia carità, come pretesto per risolvere i miei problemi personali. 
Ci può essere un amore "prepotente", spudorato, che schiaccia l'altro, sopprime la sua dignità, lo rende oggetto, ne viola l'intimità, ne calpesta il mistero inviolabile.

Esiste una distanza colpevole. Quella dell'insensibilità, dell'incapacità a compromettersi, dell'assenza vile. Ma esiste anche un eccesso di vicinanza, altrettanto colpevole. Quella dell'invadenza, dell'indiscrezione, dell'ingerenza.
Tra invadenza e assenza: questi i confini estremi che delimitano il territorio che deve essere occupato dalla comunione con l'altro. 
Anche nel farmi prossimo, perciò, devo impormi certi limiti. Non evidentemente, i limiti dettati dall'egoismo e dalla comodità, ma quelli suggeriti dal rispetto dell'altro.
Avvicinarmi, ma lasciando spazio all'altro. Avvicinarmi, senza togliergli il respiro, la libertà, la naturalezza. Avvicinarmi, aiutarlo, sena sostituirmi a lui. Sì, avvicinarmi, senza soffocarlo nel mio abbraccio.
La delicatezza, nel campo della carità, è sempre una virtù tra le più preziose. Se scomparisse, sparirebbe anche l'amore.

Personalmente, ho una gran paura di una certa gente decisa a "farmi del bene" a tutti i costi. Persone animate da tanta buona volontà, che si sono fabbricate nella loro testa un'idea particolare di quello che dovrebbe essere il "mio" bene. E cercano, a tutti i costi, di trapiantarmi quel loro modello di bene, senza essere sfiorate minimamente dal dubbio che quello, più che il "mio", è il "loro" bene.
A tutti i costi mi vogliono bene, negandomi, a tutti i costi, il diritto di essere me stesso.
L'unico diritto che mi riconoscono è quello di rassomigliare all'immagine che di me si sono costruite loro.
In certi casi, viene, perfino il sospetto che quegli individui, più che amare l'altro, amino, attraverso l'altro, se stessi di un amore idolatrico, quasi forsennato.

Comunque, è difficile fare l'inventario dei pasticci e dei guai combinati da gente che impiega cervello - poco - e bontà - troppa, ma di quella andata a male, e che quindi puzza - col proposito più o meno dichiarato di fare del bene "a tutti i costi" (...).
L'amore autentico è possibile soltanto nella libertà.
E una persona veramente libera è quella che tutela e promuove la libertà dell'altro.

Vorrei vedere la  tua voce...
Maria, se c'è un sogno impossibile che coltivo, è proprio quello di "vedere" la tua voce. Captarne la tonalità, registrarne il timbro, misurarne la... silenziosità, avvertirne la luminosità (sì, perché sono convinto che tu, creatura di luce, possedevi un'inconfondibile "voce luminosa").
Mi basterebbe coglierne una scheggia, un frammento piccolissimo. Ho il sospetto, infatti, che anche una minuscola vibrazione della tua voce mi consentirebbe di affacciarmi al mistero della tua persona.
Non so se hai mai parlato di amore.
Forse non ne avevi bisogno. Il tuo, anche quando parlavi d'altro, ti riferivi alle realtà più comuni, era il linguaggio dell'amore. Tutta la tua persona "diceva" amore. E, sopratutto, la tua voce. (...)
Maria, Vergine della discrezione, aiutaci a camminare, specialmente nel territorio sacro dell'amore, in punta dei piedi, togliendoci i calzari della banalità, dell'invadenza, della retorica, della superficialità, delle melensaggini devote.
Restituisci al nostro linguaggio il senso della misura, del riserbo (...) che permette di sfiorare il mistero, senza sporcare né profanare nulla.
Maria, aiutaci a recuperare la voce dell'amore. 


don Alessandro Pronzato

tratto da: "C'era la Madre di Gesù...A Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca"