13/05/13

Che cos'è la preghiera? - Enzo Bianchi


«Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te».
Questa affermazione di Agostino (Confessioni I, 1,1), assai celebre e ripetuta di generazione in generazione, può riassumere bene il fondamento posto alla preghiera cristiana dall'epoca dei grandi Padri fino ai nostri giorni. In tale visione la preghiera esprime il desiderio del bonum supremo che abita l'uomo, ed è intesa quale movimento del cuore verso l'infinito, l'eterno, l'assoluto. (...)
Ebbene, oggi questa definizione della preghiera come evento collocato nello spazio della ricerca di Dio da parte dell'uomo appare non smentita, ma perlomeno insufficiente, perché gli uomini e le donne del nostro tempo, in particolare quelli appartenenti alle nuove generazioni, sono allergici alle concezioni ascendenti e "verticali" disseminate in tutta la spiritualità cristiana.
Tale insofferenza può essere salutare, nella misura in cui ci aiuta a focalizzare un dato ben presente all'uomo biblico: la Presenza di Dio è data, non plasmata o raggiunta dall'uomo con le sue forze, e all'uomo spetta l'accoglienza della sua venuta epifanica, così come del suo ritirarsi nel silenzio o nel nascondimento.
In altre parole, il Dio della rivelazione biblica non è l'oggetto della nostra ricerca, ma è colui che ha l'iniziativa, è il soggetto, è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, non si trova nella logica dei nostri concetti, ma si dà, si consegna nella libertà amorosa dei suoi atti, che lo mostrano in costante ricerca dell'uomo. E' lui che vuole e stabilisce un dialogo con noi, è lui che dalla Genesi fino all'Apocalisse viene, cerca, chiama, interroga l'uomo, chiedendogli semplicemente di essere ascoltato e accolto. Il Dio che «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19) parla, dando inizio al dialogo; l'uomo di fronte a questa auto-rivelazione di Dio nella storia, re-agisce nella fede attraverso la benedizione, la lode, l'azione di grazie, l'adorazione, la domanda, la confessione del proprio peccato... Insomma reagisce attraverso la preghiera, che è sempre risposta a Dio, finalizzata all'amore verso di lui e verso i fratelli. (...) 
Emerge chiaramente che la preghiera, come si è appena detto, non è ricerca di Dio, ma risposta; che le sue forme sono accidenti, mentre ciò che è sostanziale è la relazione con Dio; che il suo fine è l'agape, la carità, l'amore. (...)  L'"io" che risponde a Dio è definitivamente decentrato nella preghiera, mentre l'agente, il soggetto è Dio stesso il quale, riversando nella nostra preghiera il suo amore, lo effonde nel mondo attraverso di noi, costituiti amanti.

La preghiera come ascolto
Nell'ottica appena delineata, la preghiera cristiana è innanzitutto ascolto per giungere all'accoglienza di una presenza, la presenza di Dio Padre, Figlio e Spirito santo.
L'operazione è semplice ma non per questo facile, anzi è faticosa e richiede capacità di silenzio interiore ed esteriore, sobrietà, lotta contro gli idoli molteplici che ci minacciano.
Dio parla: questa è l'affermazione fondamentale che attraversa tutta la Scrittura, è la "cosa grande", senza la quale noi non potremmo avere nessuna relazione personale con lui. Con decisione assoluta, con iniziativa libera e gratuita, Dio si è rivolto agli uomini per entrare in relazione con loro, per instaurare un dialogo finalizzato alla comunione. (...)
Dio si rivela come Parola e fa di Israele il popolo dell'ascolto, prima ancora che il popolo della fede, svelandone la vocazione permanente: la chiamata ad ascoltare. Non a caso la preghiera ebraica è ritmata dallo Shema' Jisra'el, dall'«Ascolta Israele» (cfr. Dt 6, 4-9) (...).
Se la preghiera dell'uomo come desiderio di Dio presenta un moto ascendente di parole verso il cielo, l'ascolto è, invece, caratterizzato da un movimento discendente, da una discesa della Parola di Dio nell'uomo: il vero orante, a partire da Abramo (cfr. Gen 12,1), è colui che ascolta, colui che presta l'orecchio a Dio. Per questo, «ascoltare è meglio del sacrificio» (1Sam 15,22), meglio cioè di ogni altro rapporto uomo-Dio che poggia sul fragile fondamento dell'iniziativa umana. (...)
E' chiaro, dunque, che la preghiera autentica germoglia là dove c'è l'ascolto. «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1 Sam 3,9): questo è il primo atto della preghiera, che noi - purtroppo - siamo costantemente tentati di capovolgere in «Ascolta, Signore, perché il tuo servo parla». Sì, l'ascolto è preghiera e ha un primato assoluto, in quanto riconosce l'iniziativa di Dio (...).
Non lo si dirà mai abbastanza: dove non è ben chiaro il primato dell'ascolto di Dio, la preghiera tende a diventare un'attività umana ed è costretta a nutrirsi di atti e formule, in cui il singolo cerca la propria soddisfazione e assicurazione: diventa l'epifania di un'arroganza spirituale, il surrogato della propria esecuzione della volontà di Dio. Tutt'al più si trasforma in una disciplina di concentrazione che forse elimina le distrazioni, ma non apre realmente a un'attenzione orante al Signore che parla (cfr. Dt 4, 32-33) e che ama (cfr. Dt 7, 7-8): che parla perché ama! (...)

La preghiera: accoglienza di una Presenza
L'ascolto della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, parola accolta, custodita e meditata nel cuore, non può che svelare in noi una Presenza, la presenza del Dio vivente, più intima di quanto noi possiamo esserlo a noi stessi (cfr. Agostino, Confessioni III, 6,11). La preghiera ci porta così a scoprire la nostra verità più profonda: Dio è presente in noi, non come frutto della nostra ricerca, non come risultato del nostro desiderio - perché la sua presenza ci precede, è anteriore al nostro sforzo di esserle attenti - , ma come dono e consegna di Dio stesso attraverso la sua Parola.  Tutto l'Antico Testamento testimonia un'iniziazione all'accoglienza, da parte dell'uomo, della presenza di Dio, l'Emmanuele, il Dio-con-noi; ma con l'umanizzazione di Dio in Gesù, è Dio stesso che ha compiuto un gesto definitivo: «La Parola si è fatta carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14). Ascoltare la Parola significa, pertanto, accogliere il Figlio nella sua presenza di Signore e accettare che egli venga con il Padre a porre la dimora in noi (cfr. Gv 14,23) mediante lo Spirito santo; e accogliere il Figlio non significa solo dimorare "in Cristo", ma diventare sua dimora, cioè sperimentare la vita di Cristo in noi, fino a confessare: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Si tratta di un'esperienza  capitale per il credente, al punto che la consapevolezza del «Cristo in noi» (cfr. Rm 8,10; Col 1,27) diventa il criterio in base al quale discernere la qualità della nostra fede cristiana  (...) Se, infatti, a partire dalla coscienza della vita di Cristo in noi, cerchiamo di accogliere la presenza di Dio, scopriamo che il soggetto della preghiera, il suo vero protagonista, è lo Spirito santo: tale certezza garantisce perseveranza e continuità alla nostra preghiera, liberandoci dal soggettivismo e dagli impulsi psichici del momento. E' lo Spirito che ci fa gridare: «Abba, Padre» (Rm 8,15; Gal 4,6) (...); è lo Spirito che immette in noi il suo desiderio (cfr. Rm 8,27) e ci fa conoscere la vera natura dei nostri bisogni. Grazie alla sua azione, infatti, i desideri confusi che ci abitano diventano desiderio di Dio, sete di comunione e di alleanza con lui (...) e così ci insegna a pregare. Sì, ogni preghiera cristiana è implicitamente un'epiclesi, è un'invocazione dello Spirito santo, grazie alla quale può avvenire un reale ri-orientamento di tutta la nostra esistenza (...). E così, secondo le parole rivolte da Gesù alla donna samaritana, siamo resi capaci di adorare il Padre «in Spirito e Verità» (Gv 4,23-24), cioè nello Spirito santo e in Cristo Gesù. E il luogo di tale adorazione è il nostro corpo, è questa nostra concreta umanità: «Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente», afferma con audacia Paolo (2Cor 6,16).  (...)
E' l'accoglienza di una Presenza scoperta, desiderata, invocata; una Presenza a volte immensa, schiacciante (cfr. Sal 139, 1-7) (...); altre volte, invece, infinitamente silenziosa fino a prendere la forma del nascondimento, dell'assenza. Ma anche nel silenzio (...) Dio si mostra Padre per chi sa di essere figlio: il silenzio della presenza di Dio non è mai indifferenza, bensì segno della sua gratuità e della sua libertà, perché egli non si lascia esaurire dalle nostre immagini o concezioni o desideri... 

La preghiera: apertura a una comunione
Dall'ascolto, attraverso la scoperta di una Presenza, nella preghiera noi ci apriamo al dialogo, alla comunione con il Signore. Ma proprio a questo livello la preghiera appare come un'attività delicata che, radicandosi nel nucleo più profondo del nostro essere, può essere facilmente manipolata. (...)
In questa tappa della preghiera cristiana la prima cosa necessaria è ammettere la nostra debolezza. Dobbiamo comportarci come il pubblicano della parabola evangelica che prega così come egli è in verità, che si presenta a Dio senza indossare maschere, ma riconoscendo la propria qualità di peccatore. (Lc 18,13). Non solo le sue parole («O Dio, abbi pietà di me, il peccatore») sono un modello per noi, ma lo è sopratutto la sua disposizione interiore: soltanto che è capace di un atteggiamento umile, povero, ma realissimo, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per quello che egli è veramente.  (...) 
Chi compie questa adesione alla realtà è in grado anche di confessare: «Noi non sappiamo che cosa domandare per pregare come si deve», non conosciamo in modo pieno nemmeno i nostri gemiti,  «ma lo Spirito intercede per noi» (Rm 8,26). Si tratta, allora, di supplicare, di chiedere lo Spirito santo: se ci sono parole nostre nella preghiera, le prime che noi possiamo balbettare, sono quelle con cui invochiamo la discesa dello Spirito. La domanda dello Spirito santo, cosa buona tra le cose buone, è prioritaria e assoluta rispetto a tutte le altre, perché in essa tutto è incluso. (...) Solo lo Spirito, infatti, può far sgorgare in noi parole che diventino dialogo con Dio nella lode, nel ringraziamento, nella domanda, nell'intercessione: è lui che le suggerisce, le guida, le sostiene come parole capaci di raggiungere Dio. (...)
E' da qui che nasce la nostra parresia nella preghiera: essa è fiducia, audacia, libertà nello stare davanti a Dio, nel parlare a lui con franchezza, attendendo la sua risposta. (...) Chi prega in questo modo conosce di essere egapeménos (cfr. Col 3,12; 1Ts 1,4; 2Ts 2,13), amato da Dio; conosce l'agape di chi per primo lo ha amato, di chi lo ha perdonato, mentre lui era ancora peccatore e nemico, di chi gli offre costantemente il suo amore. 
Ed è proprio nell'accettazione di questo amore, nel credere a questo amore (cfr. 1Gv 4,16), che la preghiera trova il suo telos: l'agape di Dio diventa in noi amore per tutti gli uomini, fino all'amore per i nemici, diventa compassione, misericordia. (...)
Oggi, in particolare, troppi improvvisati maestri di spiritualità e di preghiera, in nome di una concezione antropologica della preghiera stessa, forgiano iniziazioni ispirate allo yoga, allo zen, alla meditazione trascendentale o ad altro ancora; ma questo si traduce sovente in una confusione tra la sostanza (la comunione con il Signore) e gli accidenti (l'esperienza di stati interiori, psichici). Lo stesso si deve dire a proposito di quanti, più ancorati alla tradizione ecclesiale, sopravvalutano riti e sacramenti rispetto al fine della preghiera, che è l'amore verso Dio e verso gli uomini.

Un occhio contemplativo
Nello spazio della comunione dell'agape, chi prega giunge poco a poco alla contemplazione. Essa non è visione di Dio (...)  ma è uno sguardo nuovo su tutto e su tutti. «Noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione» (2Cor 5,7), afferma  l'apostolo Paolo; ciò significa che nella fede Dio non si fa vedere a noi, e tuttavia egli si manifesta, secondo la promessa di Gesù: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21). Tale manifestazione non avviene però, come si è detto, attraverso la visione, né in una conoscenza teorica, ma in una comunicazione interiore della potenza divina: Dio svela il suo disegno di salvezza, la sua economia, in cui sostiene la creazione intera e ama tutte le creature, tutti gli uomini. Ecco, dunque, l'autentica contemplazione cristiana: fissare lo sguardo sull'amore di Dio fino a vedere, per grazia, tutta la realtà con i suoi occhi.  (...) L'orante diventa "dioratico", diventa cioè capace di vedere "oltre", di vedere in profondità: egli vede che tutto è grazia, tutto è dono di Dio, e si fa viscere di misericordia nelle viscere di misericordia di Dio, anche di fronte al male e al peccato che contraddicono l'agape.  (...) La preghiera tende, così, a farsi vita, permea tutta l'esistenza del credente, che può cantare col salmista: «Io sono preghiera» (Sal 109,4). Egli non fa più preghiere ma diventa preghiera, come si è potuto scrivere di Francesco d'Assisi: «Non pregava più, era ormai divenuto preghiera» (Tommaso da Celano, Vita seconda 95).


Enzo Bianchi

tratto da  «Perché pregare, come pregare»