20/04/15

Non conformatevi alla mentalità di questo mondo - Enzo Bianchi




«Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per discernere la volontà di Dio» (Rm 12,2).

«Non conformatevi tô aiôni toúto», a questo mondo, a questo tempo. L’Apostolo chiede di rompere con il conformismo dominante, con quell’omologazione sempre in atto nella società abitata dagli idoli potenti e onnipresenti.
Paolo riattualizza le parole di Gesù riportate dai vangeli: «Nel mondo si fa così, ma non così tra voi (non sic in vobis)» (cf. Mc 10,42-43 e par.); e ancora: «Padre, quelli che crederanno in me sono nel mondo, ma non solo del mondo … Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (cf. Gv 17,11.14-16.20). 
Nel Nuovo Testamento viene delineato un anticonformismo cristiano ispirato dalla dinamica della comunione, dell’amore. I cristiani stanno nel mondo, in mezzo agli uomini, solidali con loro, vivono una piena responsabilità verso la società, sono cittadini della polis a pieno titolo, ma non devono conformarsi al «così fan tutti», alla volontà della maggioranza, alle mode, alla logica del tempo, allo «schema» di questo mondo: in una parola, non devono vivere mondanamente.
Non conformarsi alla mentalità di questo mondo significa avere il coraggio di una «vita altra», di una vita che sa discernere gli idoli alienanti e sa combatterli, di una vita segnata da quella che amo definire «differenza cristiana»: in un mondo contrassegnato dall’indifferenza, l’unica possibilità di vincere questa indifferenza consiste nel presentare una differenza comprensibile ed eloquente.
Il non conformismo cristiano non può ridursi a un semplice e acritico «no» nei confronti del mondo in cui viviamo; non può significare non ascolto e lontananza dalla fatica degli uomini non cristiani; non potrà mai nutrirsi di condanna e disprezzo di quelli che, anche fuori dalla chiesa, restano sempre uomini, segnati dall’immagine di Dio che portano in sé. Se i cristiani si arroccano su una cittadella per guardare dall’alto la città del mondo e giudicarla peccatrice come Sodoma (cf. Gen 18,16-19,29), essi disertano dal luogo in cui Dio li ha posti – come dice l’A Diogneto (6,10) –, perché Dio li ha messi in mezzo agli uomini, accanto a loro e mai contro di loro; se si mettono sulla difensiva, essi tengono egoisticamente per sé il dono ricevuto da Dio; se scelgono l’intransigenza, essi non conservano il Vangelo, ma chiudono gli orecchi ai segni dei tempi e alle grida magari ambigue, magari blasfeme, ma sempre grida di creature che piangono… 
 
Vero compito cristiano è la lotta anti-idolatrica, non la lotta contro gli altri uomini e donne; è il discernimento degli idoli e, in particolare, dei volti cangianti che questi sanno rivestire nelle diverse epoche e contingenze storiche. Dare il nome all’idolo che sorge, si attesta e si impone è il primo necessario passo per lottare efficacemente contro di esso, per sottrarsi alla sua tirannia e per indicare agli uomini cammini di libertà. Questa è un’operazione profetica, perché dovuta al discernimento, che è il dono per eccellenza fatto dallo Spirito santo alla comunità cristiana, popolo profetico: e il profeta non è colui che fa cose straordinarie, non è colui che si impone con i miracoli o con l’indovinare il futuro, ma è semplicemente una persona che sa discernere il suo tempo e agli uomini del suo tempo sa comunicare la Parola di Dio. Ecco perché la Scrittura ci presenta i profeti come porta parola di Dio e lucidi smascheratori degli idoli sia sul piano religioso, sia sul piano economico e politico.
L’idolatria si manifesta nella perversione del rapporto con la realtà, dunque del rapporto con Dio e con gli altri. Non esiste l’idolo senza uno sguardo dell’uomo che lo rende tale, senza un cuore umano che si sente fatalmente attratto dalla sua avvincente vacuità, secondo la parola rivolta da Dio a Ezechiele: «Figlio dell’uomo, questi uomini hanno messo idoli nel loro cuore e tengono fisso lo sguardo all’occasione di fare il male appena possibile» (Ez 14,3). L’idolatria è scambiare i mezzi per il fine, la parte per il tutto; l’idolatria consiste nell’assolutizzare il presente negando il futuro, nel fare del proprio io il vero Dio, cioè nel cadere in quella che potremmo definire «egolatria».
L’idolo che regna nel mondo toglie la libertà, annulla la responsabilità nella relazione tra gli uomini e Dio e nelle relazioni degli uomini tra loro, nega sempre l’orizzonte comunitario ed enfatizza, al contrario, l’individuo e le sue voglie. Nel linguaggio giovanneo è questo il «mondo» per il quale Gesù non può pregare (cf. Gv 14,9), lui che dà la vita e prega per tutti gli uomini. E infine l’idolo – non lo si dimentichi – ha anche un’efficacia politica: seduce il mondo e crea le maggioranze che possono ricercare e applaudire il «l’Uomo che amiamo di più», il «grande Timoniere»… Allora si afferma il culto della personalità, e la politica è abile nell’instaurarla, perché sa che l’idolo è politicamente efficace.
«Non sic in vobis», «Non così tra voi», dice Gesù; «Non conformatevi a questo mondo», gli fa eco Paolo. E noi cristiani dovremmo far capire agli altri uomini non cristiani che la nostra battaglia contro gli idoli è battaglia contro la disumanizzazione dell’uomo. L’idolo è un falso non tanto teologico, quanto soprattutto antropologico; è un falso che ottiene il suo scopo alienando l’uomo e spingendolo verso la barbarie dei comportamenti. Per la Bibbia l’unica immagine di Dio nel mondo è l’uomo (cf. Gen 1,26-27), e l’idolatria è sempre una contraddizione a questa fondamentale verità creazionale.

In breve: idolatria, mondanità è quel complesso di atteggiamenti, tendenze, mode, «dittature» che tendono a disumanizzare l’uomo rendendo individualistica e senza responsabilità la sua vita, una vita che invece è chiamata ad essere vita di figlio di Dio, di fratello degli uomini tutti.
Questi sono tempi di omologazione diffusa, di conformismo, di coazione a ripetere; dunque oggi più che mai occorre ascoltare l’imperativo di Paolo: «Non conformatevi ma trasformatevi». Occorre cioè uno sforzo rinnovato verso una ricerca

• di interiorità, quell’interiorità che l’omologazione vorrebbe catturare;

• di costruzione di una polis umanizzante e umanizzata;

• di riconquista della communitas, unico antidoto alle derive individualistiche che sbandierano la lotta per l’acquisizione dei diritti, senza tenere conto degli altri e magari contro gli altri;

• di fraternità universale, contro le spinte localistiche e xenofobe e le tendenze all’esclusione dell’altro, del diverso, dello straniero.

Solo così avviene una trasformazione e un «rinnovamento della mente» (anakaínosis toû noûs), del modo di pensare, e dunque si può giungere al discernimento, alla conoscenza della volontà di Dio.
E si faccia attenzione: la barbarie appare sempre su orizzonti lontani, ma quando inizia ad affermarsi il mito del «simile», dell’«identico», del «conforme», di tutto ciò che distrugge lo spazio simbolico garantito dall’altro, allora prima o poi i rapporti più quotidiani, all’interno delle stesse famiglie, negli spazi dell’amore e dell’amicizia, rischiano di caricarsi di intolleranza, di aggressività, di inimicizia, di esclusione e di rifiuto. L’idolatria resta una forma di narcisismo, e la cultura in cui siamo immersi ci porta a domandarci se essa non sia proprio il terreno fertile per l’irresponsabilità, per l’incoscienza, per il sogno di onnipotenza e di un mondo senza limiti in cui non c’è più spazio per gli altri, e dunque per l’Altro, Dio.

Enzo Bianchi

tratto da  "33° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, 2009"
 

06/04/15

Maria, donna del terzo giorno - Tonino Bello

Vorrei che fosse Maria in persona a entrare in casa vostra, a spalancarvi la finestra, e a darvi l'augurio di buona Pasqua.
Un augurio immenso quanto le braccia del condannato, stese sulla croce o librate verso i cieli della libertà.
Molti si chiedono sorpresi perché mai il Vangelo, mentre ci parla di Gesù apparso nel giorno di Pasqua a tantissime persone, come la Maddalena, le pie donne e i discepoli, non ci riporti, invece, alcuna apparizione alla Madre da parte del Figlio risorto.
lo una risposta ce l'avrei: perché non c'era bisogno! Non c'era bisogno, cioè, che Gesù apparisse a Maria, perché lei, l'unica, fu presente alla Risurrezione.
I teologi, per la verità, ci dicono che questo evento fu sottratto agli occhi di tutti, si svolse nelle insondabili profondità del mistero, e, nel suo attuarsi storico, non ebbe alcun testimone. lo penso, però, che un' eccezione ci fu: Maria, l'unica, dovette essere presente a questa peripezia suprema della storia.
Come fu presente, l'unica, al momento dell'incarnazione del Verbo.
Come fu presente, l'unica, all'uscita di lui dal suo grembo verginale di carne. E divenne la donna del primo sguardo su Dio fatto uomo.
Così dovette essere presente, l'unica, all'uscita di lui dal grembo verginale di pietra: il sepolcro «nel quale nessuno era stato ancora deposto». E divenne la donna del primo sguardo dell'uomo fatto Dio.
Gli altri furono testimoni del Risorto. Lei, della Risurrezione.
Del resto, se il legame di Maria con Gesù fu così stretto che ne ha condiviso tutta l'esperienza redentrice, è impensabile che la Risurrezione, momento vertice della salvezza, l'abbia vista dissociata dal Figlio.
Sarebbe l'unica assenza: e resterebbe, per di più, un'assenza stranamente ingiustificata.
A darci conferma, comunque, di quanto la vicenda della Madre sia incastrata con la Pasqua del Figlio ci sono nel Vangelo almeno due pagine, in cui la frase «terzo giorno», sigla cronologica che designa la Risurrezione, è riferita alla presenza, se non proprio al protagonismo, di Maria.
La prima pagina è di san Luca. Racconta la scomparsa di Gesù dodicenne nel tempio e il suo ritrovamento al «terzo giorno». Gli studiosi sono ormai concordi nell'interpretare quest'episodio come una profezia velata di quanto sarebbe accaduto in seguito ai discepoli, nel tempo in cui Gesù compì il suo passaggio da questo mondo al Padre, sempre a Gerusalemme, in una Pasqua di tanti anni dopo. Si tratterebbe, cioè, di una parabola allusiva alla scomparsa di Gesù dietro la pietra del sepolcro, e al suo glorioso riapparire dopo tre giorni.
La seconda pagina è di san Giovanni. Riguarda le nozze di Cana, durante le quali l'intervento di Maria, anticipando l'ora di Gesù, introduce sul banchetto degli uomini il
vino della nuova alleanza pasquale, e fa esplodere anzitempo la "gloria" della Risurrezione. Ebbene, anche questo episodio è introdotto da un marchio di origine controllata: «il terzo giorno».
Maria, dunque, è colei che ha a che fare col «terzo giorno», a tal punto che non solo è la figlia primogenita della Pasqua, ma in un certo senso ne è anche la madre.
Santa Maria, donna del terzo giorno, destaci dal sonno della roccia. E l'annuncio che è Pasqua pure per noi, vieni a portarcelo tu, nel cuore della notte.
Non aspettare i chiarori dell' alba. Non attendere che le donne vengano con gli unguenti. Vieni prima tu, coi riflessi del Risorto negli occhi e con i profumi della tua testimonianza diretta.
Quando le altre Marie arriveranno nel giardino, con i piedi umidi di rugiada, ci trovino già desti e sappiano di essere state precedute da te, l'unica spettatrice del duello tra la vita e la morte. La nostra non è mancanza di fiducia nelle loro parole. Ma ci sentiamo così addosso i tentacoli della morte, che la loro testimonianza non ci basta. Esse hanno visto, sì, il trionfo del vincitore. Ma non hanno sperimentato la sconfitta dell' avversario. Solo tu ci puoi assicurare che la morte è stata uccisa davvero, perché l'hai vista esanime a terra.
Santa Maria, donna del terzo giorno, donaci la certezza che, nonostante tutto, la morte non avrà più presa su di noi. Che le ingiustizie dei popoli hanno i giorni contati. Che i bagliori delle guerre si stanno riducendo a luci crepuscolari. Che le sofferenze dei poveri sono giunte agli ultimi rantoli. Che la fame, il razzismo, la droga sono il riporto di vecchie contabilità fallimentari. Che la noia, la solitudine, la malattia sono gli arretrati dovuti ad antiche gestioni. E che, finalmente, le lacrime di tutte le vittime delle violenze e del dolore saranno presto prosciugate come la brina dal sole della primavera.
Santa Maria, donna del terzo giorno, strappaci dal volto il sudario della disperazione e arrotola per sempre, in un angolo, le bende del nostro peccato.
A dispetto della mancanza di lavoro, di case, di pane, confortaci col vino nuovo della gioia e con gli azimi pasquali della solidarietà.
Donaci un po' di pace. Impediscici di intingere il boccone traditore nel piatto delle erbe amare. Liberaci dal bacio della vigliaccheria. Preservaci dall' egoismo.
E regalaci la speranza che, quando verrà il momento della sfida decisiva, anche per noi come per Gesù, tu possa essere l'arbitra che, il terzo giorno, omologherà finalmente la nostra vittoria.

don Tonino Bello

04/04/15

Silenzio di Dio, silenzio dell'uomo - Enzo Bianchi



Può apparire paradossale parlare del sabato santo perché per i cristiani è un giorno contrassegnato dal silenzio, un giorno che potrebbe apparire “tempo morto”, svuotato di senso. Anche i vangeli tacciono su questo “grande sabato”: il racconto della passione di Gesù si arresta alla sera del venerdì, all’apparire delle prime luci del sabato e riprende solo con l’alba del primo giorno della settimana, il terzo giorno, appunto. Giorno vuoto, dunque? Nella tradizione cristiana occidentale, il sabato santo è l’unico giorno senza celebrazione eucaristica, l’unico giorno restato “aliturgico”, senza celebrazioni particolari: tacciono le campane, non ci sono fiammelle accese nelle chiese spoglie, né canti… Anche la preghiera dei cristiani si fa silenziosa ed è carica soprattutto di attesa: attesa di ciò che muterà profondamente ogni cosa, ogni storia. Certo, sappiamo bene che la Pasqua è un evento avvenuto ephápax , “una volta per tutte”, il 9 aprile dell’anno 30 della nostra era, sappiamo che Cristo ormai risorto non muore più, siamo consapevoli di non celebrare un mistero ciclico come facevano i pagani… E tuttavia siamo chiamati a vivere questo giorno cogliendone il messaggio proprio: lo viviamo nella fede che il Signore crocifisso è vivente in mezzo a noi ma, discernendo all’interno del triduo pasquale il secondo giorno come giorno di silenzio, di attesa, del non detto, noi assumiamo una dimensione che ci abita sempre e che alcune volte – nella vita nostra, o degli altri o di interi popoli – è la dimensione durevole, non momentanea, non passeggera.

Sabato santo, giorno dopo la morte, tempo in cui davanti ai discepoli c’era solo la fine della speranza, un’aporia, un vuoto su cui incombeva il non senso, l’insopportabile dolore, la lacerazione di una separazione definitiva, di una ferita mortale: Dov’è Dio? E’ questa la muta domanda del sabato santo. Dov’è quel Dio che era intervenuto al battesimo di Gesù, aprendo i cieli per dirgli: “Tu sei mio figlio, di te provo molta gioia” (Mc 1,11)? Dov’è quel Dio che era intervenuto sull’alto monte, nell’ora della trasfigurazione con Mosè ed Elia e aveva esclamato: “Ecco mio figlio, l’amato!” (Mc 9,7)? Nell’ora della croce Dio non è intervenuto, a tal punto che Gesù si è sentito abbandonato da lui e glielo ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Ecco, un giorno intero passa e non c’è intervento di Dio… Eppure Dio non ha abbandonato Gesù: se l’abbandono appare l’amara verità per i discepoli, Dio in realtà ha già chiamato a sé Gesù, anzi, lo ha già risuscitato nel suo Spirito santo e Gesù vivente è agli inferi ad annunciare anche là la liberazione. “Discese agli inferi” confessiamo nel Credo. Ecco ciò che nel nascondimento avviene al sabato santo: giorno vuoto, silenzioso per i discepoli e per gli uomini, ma giorno in cui il Padre – che “opera sempre” (cf. Gv …), come ha detto Gesù – attraverso di lui porta negli inferi la salvezza. Come Giona nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti (cf. Mt 12,40), così anche Gesù dalla croce fu deposto nella tomba e, da lì, discese ancora, agli inferi, allo sheol dove dimorano i morti.
 
Mistero grande, sul quale oggi la chiesa sembra preferire tacere, quasi fosse afona. Eppure i padri della chiesa, e soprattutto la liturgia antica, hanno voluto cantare anche questa “azione” di Gesù dopo la sua morte. In un’omelia attribuita a Epifanio sta scritto: “Oggi sulla terra c’è un silenzio grande: Il Signore è morto nella carne ed è disceso a scuotere il regno degli inferi. Va a cercare Adamo, il primo padre, come la pecorella smarrita. Il Signore scende e visita quelli che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte”. E un inno di Efrem il Siro così canta: “Colui che disse ad Adamo ‘Dove sei?’ è sceso agli inferi dietro a lui, l’ha trovato, l’ha chiamato e gli ha detto: ‘Vieni, tu che sei a mia immagine e somiglianza! Io sono disceso dove tu sei per riportarti alla tua terra promessa!’”. Gesù, disceso agli inferi con la sua morte – una morte diventata “atto”, una morte assunta e vissuta – ha distrutto la morte stessa in un mirabile combattimento, come ricorda anche la liturgia siriaca: “Tu, Signore Gesù, hai combattuto con la morte durante i tre giorni del tuo dimorare nella tomba, hai seminato la gioia e la speranza tra quelli che abitavano gli inferi”.
Così la discesa agli inferi diventa estensione della salvezza a tutto il cosmo, salvezza dell’essere umano nella sua interezza: Cristo scende nel cuore della terra, nel cuore della creazione, nelle zone infernali che abitano ogni uomo. Che ne è, dunque, degli inferi dopo la “visita” del Cristo glorioso? Cirillo di Alessandria afferma che questa predicazione di Cristo agli inferi – di cui parla l’apostolo Pietro: “messo a morte nella carne, ma reso vivente nello Spirito… andò ad annunciare la salvezza agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,18-19) – ha significato la spoliazione dell’inferno: “Subito Cristo, spogliando l’intero inferno e spalancandone le impenetrabili porte agli spiriti dei morti, vi lasciò il diavolo solo!”. Dov’è, o inferno, la tua vittoria?
Il cristiano oggi non dovrebbe dimenticare questo mistero del grande e santo sabato, vero preludio alla Pasqua ma anche lettura della discesa di Cristo nelle regioni infernali che abitano anche ogni cristiano, nonostante il suo desiderio di sequela di Gesù. Chi non riconosce in sé la presenza di questi inferi? Regioni non evangelizzate, territori di incredulità, luoghi dove Dio non c’è e nei quali ognuno di noi nulla può se non invocare la discesa di Cristo perché le evangelizzi, le illumini, le trasformi da regioni di morte assoggettate alla potenza del demonio in humus capace di germinare vita in forza della grazia. Così il sabato santo è come il tempo della gravidanza, è un crescere del tempo verso il parto, verso il trionfo della vita nuova: il suo silenzio non è mutismo ma tempo carico di energie e di vita.
Come non pensare al secolo che ci sta alle spalle come al secolo in cui il sabato santo è stata l’esperienza di molti credenti in Gesù e di altri uomini la cui fede solo Dio conosce e giudica? Nei campi di sterminio sotto il nazismo, nei gulag e nelle prigioni sovietiche, in tanti paesi in cui l’ideologia atea comunista ha ridato martiri alla chiesa, quale profondo sabato santo… Anni fa, in Cina ho incontrato un vescovo di quella chiesa ufficialmente non in comunione con Roma che in latino mi ha detto: “Noi viviamo il sabato santo, ma siamo in attesa della Pasqua: verrà! Dica al Santo Padre che lo amiamo!”. Sabato santo, Dio sembra assente, il male sembra prevalere, il dolore appare senza senso e Dio, dov’è? Sabato santo a volte anche per chi nel suo cammino di fede trova le tenebre, vede vacillare la propria fede, non riesce a nutrire speranza: giorno di insensibilità, in cui ogni fiducia sembra inaccessibile, troppo grande perché la si possa concepire. Sabato santo di molti malati, soprattutto quelli affetti dall’aids, legati a Cristo nella sua vergogna… Ma sabato santo anche come tempo in cui il sangue dei martiri e delle vittime cade come seme a terra per fecondarla in vista di un frutto abbondante, tempo in cui il disfacimento del nostro essere esteriore fa spazio alla crescita del nostro uomo interiore… Ognuno allora potrà dire del suo sabato santo: “Dio veramente era qui accanto a me, ma io non lo sapevo!” (Gen 28,16). Non c’è aurora di Pasqua senza sabato santo.

Enzo Bianchi
 
tratto da "Dare senso al tempo"

03/04/15

La casa dell'Amore - anonimo brasiliano

L'Amore abitava in una casa
pavimentata di stelle e adornata di sole.
Un giorno l'Amore  pensò ad una casa più bella.
Che strana idea quella dell'Amore!
E fece la terra, e sulla terra, ecco fece la carne
e nella carne ispirò la vita e, nella vita,
impresse l'immagine della sua somiglianza.
E la chiamò uomo!
E dentro l'uomo, nel suo cuore, l'Amore costruì la sua casa:
piccola ma palpitante, inquieta, insoddisfatta come l'Amore.
E l'amore andò ad abitare nel cuore dell'uomo
e ci entrò tutto là dentro, 
perché il cuore dell'uomo è fatto di infinito.

Ma un giorno... l'uomo ebbe invidia dell'Amore.
Voleva impossessarsi della casa dell'Amore,
la voleva soltanto e tutta per sé,
voleva per sé la felicità dell'Amore
come se l'Amore potese vivere da solo.
E l'Amore fu scacciato dal cuore dell'uomo.
L'uomo allora cominciò a riempire il suo cuore,
lo riempì di tutte le ricchezze della terra,
ma era ancora vuoto.
L'uomo, triste, si procurò il cibo col sudore della fronte,
ma era sempre affamato
e restava con il cuore terribilmente vuoto.

Un giorno l'uomo... decise di condividere il cuore
con tutte le creature della terra.
L'Amore venne a saperlo...
Si rivestì di carne e venne anche Lui
a ricevere il cuore dell'uomo.
Ma l'uomo riconobbe l'Amore e lo inchiodò sulla croce.
E continò a sudare per procurarsi il cibo.

L'Amore allora ebbe un'idea:
si rivestì di cibo, si travestì di pane e attese silenzioso.
Quando l'uomo affamato lo mangiò,
l'Amore ritornò nella sua casa... nel cuore dell'uomo.
E il cuore dell'uomo fu riempito di vita,
perché la vita è l'Amore.


anonimo brasiliano