23/03/14

La samaritana - III Quaresima (A)

Gv 4, 5-15.19b-26.39a.40-42

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore - gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. Vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». Molti Samaritani di quella città credettero in lui. E quando giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

La I lettura di questa domenica (Es 17, 3-7) narra un episodio fondamentale: il momento in cui il popolo di Israele, camminando nel deserto, appena uscito dall'Egitto, inizia a mormorare per le difficoltà che incontra lungo il cammino. Il popolo soffre la sete per mancanza d'acqua e qui inizia a mormorare contro Mosè. Se andiamo a vedere, il popolo è uscito dalla terra d'Egitto da pochissimo tempo, non sono nemmeno tre mesi che ha visto qualcosa di spaventosamente grande (i prodigi compiuti da Dio nella liberazione dalla schiavitù egiziana) eppure hanno una memoria "di pochi millimetri" e continuano a non credere alla Providenza di Dio! Che cos'è questa sete di cui parlano le letture di oggi?


Nella I lettura questa sete prima è crisi, mormorazione... con Mosè che non sa che cosa fare e teme di venire lapidato dal popolo... Ma poi vedremo che il Signore Dio avrà una soluzione: Egli conosce un'acqua segreta, una sorgente segreta: darà un'acqua che scaturisce dalla roccia.

Lanciati da questo tema della sete e della crisi per la sete nel Vangelo, ci troviamo difronte allo scontro tra differenti "bisogni di bere", di "seti" diverse... E assistiamo all'incontro tra Gesù e una donna samaritana.
Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica:
Nei luoghi in chi l'uomo va a cercare da bere, Dio lo va a cercare. (...) Perché la preghiera è l'incontro tra la sete dell'uomo e la sete di Dio.
Perché, Dio ha sete?
Ecco: qui sta la cosa sorprendente.
Da una parte c'è il desiderio dell'uomo di provvedere ai suoi bisogni - ricordiamo che la sete è un impulso molto più forte della fame! - e davanti a questo bisogno vitale, incontriamo una donna che va a cercare dell'acqua; arriva ad un pozzo e qui fa un incontro molto strano: trova che non c'è qualcuno che le dà da bere, ma qualcuno che le chiede da bere. Ma questo sconosciuto che inizialmente le chiede da bere, inizierà con lei un dialogo, e ad un certo momento, però, le offrirà lui stesso da bere un'altra acqua.
Se andiamo a scorrere tutto il testo, fino alla fine, tuttavia, ci renderemo conto che non solo Gesù non berrà, ma non berrà neppure la samaritana: si innescherà tra loro un dialogo e questa donna lascerà addirittura la brocca presso il pozzo, perché lei ha ormai un'altra funzione: la sua sete è stata risolta.

Come nella I lettura, anche qui nel Vangelo Dio ha "un'acqua nascosta", ha un'altra acqua da darci.
Quando Gesù chiederà a questa donna  «Dammi da bere», lei crede di trovarsi davanti a qualcuno che le sta facendo una richiesta, ma con stupore, si troverà invece davanti a qualcuno che le sta offrendo qualcosa, che vuole darle qualcosa. 
Questa è un'esperienza che si fa mille volte con Dio: quando Dio sembra che ti chieda qualcosa... in realtà ti vuole dare. Quando Dio si avvicina a noi con la richiesta di obbedienza, di fiducia in Lui... a noi sembra di fare qualcosa per Lui... e invece è Lui che farà qualcosa per noi! 
Allora, davanti un bisogno fondamentale - in questo caso è la sete, ma ci possono essere tante altre cose importanti e serie nella nostra vita! - se invece di stare centrati sul nostro bisogno, obnubilati dal nostro appettito, ossessionati dalla nostra necessità... provassimo a fidarci e ad aprirci, sperimenteremo l'esatto contrario: cioè che quel momento di necessità era il momento di un salto di qualità. 
Infatti il Signore Gesù dice una frase che è molto importante in questo testo: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
«Se tu conoscessi il dono di Dio» è una frase profonda, che ha tante cose dentro. 
Se tu conoscessi i regali che Dio fa'! Ma tu li conosci i regali che Dio fa'? Ma tu conosci veramente la generosità di Dio? E' come incontrare una persona che ha delle idee meravigliose, dei progetti stupendi che ti dicesse: "Lascia tutto e vieni con me!" E tu sai che quella persona ti porterà in un luogo bellissimo, perché è una persona creativa, piena di idee, che sa inventare situazioni piene di novità... e allora tu lasci tutto e lo segui! Sembra che ti chieda, ma tu sai che ti darà tanto!
Dio è così: quando ci chiede qualche cosa ci chiama ad aprirci alla sua generosità.  Questa donna, infatti, incontrerà la Verità. E troverà, ancora, una cosa che è più importante di tutte - e che è il centro di questo testo - : conoscerà il luogo di adorazione di Dio. Ossia, il luogo dell'intimità con Dio
 «I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. (...) Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità»
 E' molto bello che il verbo greco che viene utilizzato per esprimere la parola "adorare" ha dentro la parola "baciare", l'atto di avvicinarsi con un atteggiamento intimo.
Dov'è il luogo in cui Dio può essere stretto vicino al cuore? Questo luogo, curiosamente, non è un posto, ma è un atteggiamento.
Lei che è una donna, che si porta un vissuto di tanti problemi (cinque mariti, relazioni complicate...) e che la costringe probabilmente ad andare ad attingere acqua a mezzogiorno, proprio per non incontrare la chiacchiere e il giudizio di altre donne, di altre persone... Lei consocerà un "altro marito", un'altra intimità: bacerà qualcun'altro...

Se in questa Quaresima, noi finalmente passeremo dall'assolutizzare i nostri appetiti, e riusciamo a fare un "passettino" nella fiducia, un passettino di apertura a quello che Dio ci sta chiedendo,  conosceremo la sua intimità! Conosceremo il bacio che Lui sa darci; conosceremo qualcosa che ci sposa profondamente, qualcosa che noi non conosciamo, qualcosa che è segreto e che solo nell'intimità con Dio finalmente si disseta fino in fondo nel nostro essere.

don Fabio Rosini


19/03/14

Lettera a Giuseppe - don Tonino Bello

Caro San Giuseppe,

scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a quella delle parole. (...)

Ecco, attraverso l’uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto d’un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin d’ora, prima già che lui nasca. (...)
Quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre.
Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una porzione, fin da adesso, racchiusa nello scrigno di quella tunica.
Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota, gli uomini della Croce non vorranno lacerarla. (...)
Vedo, però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te.
No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; (...) Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta

Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso?
O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga?
O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi?
È la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità.
Ti scriveva lettere d’amore? Forse si! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro

E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.(...)
Ma io penso penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.(...)

 Vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito?
Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per nascere è sì un Dio gratuito, tanto gratuito che spunterà come rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve attendere; anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma stavolta non spetta a te costruirlo!
Vedo che la notizia non ti turba granché. Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa.
Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore.
Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne, sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù.
Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore.
Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la voce in uscita. Tu non chiedi nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per tutta l’eternità. (...)

Si è fatto tardi, Giuseppe.
Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino.
Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi.
E poi c’è Maria che ti aspetta.
Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire!
Buona notte, Giuseppe

don Tonino Bello
 

La preghiera di ringraziamento - Enzo Bianchi

La preghiera di ringraziamento
Nell'episoodio evangelico dei dieci lebbrosi guariti da Gesù (cfr. Lc 17, 11-19) si afferma che a uno solo di loro si rivolgono le parole del Signore: «La tua fede ti ha salvato»: è colui che, vistosi guarito, ritorna indietro per ringraziare Gesù. Solo chi rende grazie fa l'esperienza della salvezza, cioè dell'azione di Dio nella propria vita. E dato che la fede è relazione personale con Dio, la dimensione dell'azione di grazie non riguarda solo la forma esteriore di alcune preghiere, ma deve impregnare l'essere stesso della persona (...) La fede cristiana è costitutivamente eucaristica, e l'intera vita del credente va vissuta «nel rendimento di grazie» (metà eucharistìas: 1Tm 4,4).
Pur così fondamentale, il ringraziamento è tutt'altro che facile o spontaneo, innanzitutto dal punto di vista antropologico. Esso suppone, infatti, il senso dell'alterità, la messa in crisi del proprio narcisismo, la capacità di entrare in rapporto con un "tu"; solo ad un altro riconosciuto come persona di può dire: "Grazie"! Entrare nella gratitudine significa, pertanto, lottare contro la tentazione del consumo per creare le condizioni di una comunione, di una relazione in cui sia bandita la cosificazione, la strumentalizzazione dell'altro a se stessi. (...)
Nel rapporto personale con il Signore, poi, la capacità eucaristica indica la maturità di fede del credente, il quale riconosce che "tutto è grazia", che l'amore del Signore precede, accompagna e segue la sua vita. L'azione di grazie scaturisce dall'evento centrale della fede cristiana: il dono del Figlio Gesù Cristo che il Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all'umanità (cfr. Gv 3,16). E' il dono salvifico che suscita nell'uomo il ringraziamento e fa dell'eucarestia l'azione ecclesiale per eccellenza. (...) E visto che l'eucarestia, e al suo interno la preghiera eucaristica, è il modello dellapreghiera cristiana, il cristiano è chiamato a fare dell'intera sua esistenza un'occasione di rendimento di grazie. Alla gratuità dell'agire di dio verso l'uomo risponde il riconoscimento del dono e la riconoscenza, la gratitudine dell'uomo (...) 
Il posto centrale dell'eucarestia nel cristianesimo ci ricorda anche che il culto cristiano consiste essenzialmente in una vita capace di rispondere con gratitudine al dono inestimabile e preveniente di Dio: il cristiano risponde al dono di Dio facendo della propria vita un ringraziamento, un'eucarestia vivente. Egli infatti conosce, o dovrebbe conoscere, il senso profondo del gesto eucaristico compiuto da Gesù nell'ultima cena: Gesù ha compiuto tale atto per evitare che i discepoli leggessero la sua morte come un evento subìto per caso, oppure dovuto a un destino ineluttabile voluto da Dio.  Nulla di tutto questo. Egli ha concluso la sua esistenza così come l'aveva sempre spesa: nella libertà e per amore di Dio e degli uomini! Perché ciò fosse chiaro, Gesù ha anticipato profeticamente ai suoi discepoli la sua passione e morte, spiegandola loro con un gesto capace di narrare l'essenziale di tutta la sua vicenda: pane spezzato, come la sua vita lo sarebbe stata di lì a poco; vino versato nel calice, come il suo sangue sarebbe stato sparso in una morte violenta.
Dietro a lui, il cristiano è chiamato alla loghikè latreìa (...) «L'offerta del prorpio corpo in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio» (cfr. Rm 12,1), attraverso una vita spesa nell'amore.
Compresa in questa luce, la preghiera di ringraziamento non è solo risposta puntuale a eventi in cui si discerne la presenza e l'azione di Dio nella propria vita, ma è l'atteggiamento radicale di chi apre la trama quotidiana dell'esistenza all'azione di Dio in lui, fino a predisporre tutto, perché Dio trasfiguri la morte in evento di nascita a vita nuova. (...) Se da un lato la preghiera di ringraziamento considera il passato, ciò che Dio ha fatto per noi, dall'altro essa apre al futuro, alla speranza: e tutto questo mentre si configura come dimensione peculiare in cui vivere cristianamente il presente, lo spazio stesso della vita. (...) 
Sì, ogni giorno, fino a quello della nostra morte, è per noi un dono dell'amore di Dio!

Enzo Bianchi
 tratto da "Perché pregare, come pregare"


16/03/14

"Questi è il Figlio mio, l'Amato" - II Quaresima (A)

Mt 17, 1-9

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti».


La II domenica di Quaresima tradizionalmente è la domenica dedicata alla trasfigurazione.
Perché questo testo viene presentato a questo punto del cammino di Quaresima? Perché dovendo iniziare il cammino della penitenza, della trasformazione, dobbiamo vedere qual'è lo scopo: lo scopo è prorpio la trasfigurazione.
In questo racconto, in un momento di intimità di Gesù con i suoi tre discepoli più vicini, di solito presenti nei momenti fondamentali della sua missione, Lui mostra la sua bellezza nascosta, mostra la sua identità: mostra di essere luce. Mostra di essere molto più che un semplice uomo. Questo non è finalizzato semplicemente ad una contemplazione di Cristo alta, grande... ma capiamo il senso di questo testo alla luce della I lettura (Gen 12, 1-4): si tratta della chiamata di Abramo; è il momento in cui Dio chiama quest'uomo che ha perso il padre - pur essendo lui stesso anziano - quando si trova in un momento di stasi della sua storia, in cui non sa se andare avanti o indietro, non sa se proseguire il viaggio del padre verso Canaan o se tornare a Ur dei Caldei da dove era partito insieme al padre... Insomma, si trova a metà della strada, in un punto in cui non va né avanti né indietro, e Dio gli si manifesta chiamandolo alla fede. Lo chiama a che cosa? 
Qual'è il punto di contatto tra questa I lettura e il Vangelo?
La trasfigurazione è il cambio di forma, la trasformazione, il greco parla di "metamorphè": la forma (la morphé), l'aspetto, viene cambiato.  Nel testo della chiamata di Abramo, vediamo che questo è esattamente il piano di Dio sull'uomo:  
«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome...»
 ... e quindi, cambierò la tua identità, farò per te qualcosa. Questo è il nocciolo di ogni chiamata: quando Gesù chiama Pietro, Andrea,  Giovanni e Giacomo dirà: "Seguitemi, farò di voi pescatori di uomini". E' sempre un'opera di Dio. Anche qui, ciò che noi vediamo nella chiamata di Abramo è ciò che Dio farà in Abramo, non quello che Abramo sarà tanto bravo da fare. 
E quello che vediamo nel Vangelo della Trasfiguraizone, è ciò che Dio, nel Signore Gesù Cristo, farà dell'uomo. In Gesù, seconda persona della Santissima Trinità, si vedrà questa straordinaria esperienza: che la nostra natura umana sarà cambiata in luce, sarà trasfigurata.  Lì non è semplicemente il corpo di Cristo che cambia, ma è quel corpo che lui ha preso da noi, che ha preso da Maria... è la nostra realtà. Perciò quello che noi vediamo in Lui è ciò a cui siamo chiamati noi, in Lui. Ossia, siamo chiamati a vivere la stessa trasformazione in luce, per mezzo di questa esperienza, che è chiaramente un'esperienza di intimità, preghiera, contatto con la Parola di Dio - vengono citati Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti - , e viene annunziato nel rapporto con il Padre per mezzo del Figlio
«Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»
... Tutto questo porta al cambiamento della nostra natura. 
Noi non ci avviciniamo al Signore Gesù Cristo per rimanere come siamo. Noi non possiamo vivere l'esperienza della preghiera, dell'incontro con la Parola di Dio, l'incontro con la Sua Opera in noi, che è data nei sacramenti e in tutta la vita che provvidenzialmente ci dona all'interno della Chiesa... se non per essere trasfigurati. Dirà San Paolo «Di gloria in gloria siamo trasfigurati ad immagine di Cristo».
Noi oggi siamo chiamati a vivere tutto questo.

Perché questa è la Parola della Quaresima? Perché questo è il tempo della trasformazione, questo è il tempo della "trasfigurazione". 
Se guardiamo bene, questo avviene già a partire da Abramo; Abramo crede di essere un uomo vecchio, senza una terra e senza discendenza.: non sà che in Dio queste cose sono molto diverse, che lui in Dio è un altro uomo, è una benedizione.  E così, quando Pietro, Giovanni e Giacomo vedono Gesù trasfigurato, stanno scoprendo cosa c'è nascosto nella nostra natura umana, cosa c'è nascosto in ciascuno di noi. 
Attraverso questa domenica della trasfigurazione e attraverso il cammino quaresimale, noi siamo chiamati a scoprire lo straordinario nascosto in noi: cosa c'è di bello in noi, attraverso il digiuno, la preghiera, l'elemosina... a fare un cammino di scoperta della luce latente in tutti noi: perché noi in Dio siamo dotati di una bellezza sconvolgente, splendente. Le nostre vesti, il nostro essere in questo mondo... diventa luce, diventa essere bellezza, gioia, pace.
Questo però ha un segreto: il segreto che Abramo scopre in maniera "embrionale" nell'A.T. è ciò che lui è per il suo Dio; questo Dio che si manifesta come "potente", per dargli discendenza, terra e sopratutto una identità al Suo cospetto, una vita da eletto. 
Così, in Gesù Cristo, nel N.T. noi siamo chiamati - attraverso l'incontro con il Signore Gesù - a diventare "figli amati", a vivere, a ragionare da figli amati. 
Proprio quella "identità di figli" che domenica scorsa è stata messa in discussione, nelle tentazioni attraverso cui il maligno tentava Cristo ad essere figlio nella disobbedienza... accapparrandosi una identità rubata; qui egli è "Figlio" in virtù di qualcosa di intimo, di bello: 
«Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento»
Che cosa può fare l'amore di Dio dentro il nostro cuore! Quale bellezza può tirare fuori da un uomo, da una donna, l'incontro con l'Amore tenero del Padre Celeste! Noi possiamo essere parte del corpo di Cristo, eco della Sua bellezza, manifestazione della Sua opera in noi. Se lasciamo che l'Amore di Dio entri nel nostro cuore attraverso l'intimità con Cristo, attraverso il rapporto con le Scritture, attraverso lo "stare al Suo cospetto", attraverso tutta l'opera che Lui compie in noi... noi potremmo sfoderare la nostra bellezza.
Guardiamo Cristo per capire cosa può fare Dio nella natura umana, cosa di bello può tirar fuori da noi. Non rassegnamoci a ciò che siamo da noi stessi secondo le nsotre povere forze; pensiamo a questa cosa straordinaria a cui siamo chiamati: essere Figli di Dio e lasciare Dio operare nella nostra natura. 
Impastandosi con la nostra povertà, la potenza di Dio fa di noi delle opere d'arte.

don Fabio Rosini

13/03/14

La preghiera di domanda - Enzo Bianchi

La preghiera cristiana: tra domanda e ringraziamento
Gli insegnamenti di Gesù (...) vanno collocati all'interno di quella che è una costante della preghiera: essa si muove sempre tra i due poli della domanda e del ringraziamento, articolazioni dell'evento unitario della preghiera. E qui va subito precisato che, nelle'conomia cristiana, la preghiera di domanda non è tanto un prolungamento spontaneo del desiderio umano, quanto piuttosto una risposta obbediente al comando del Signore Gesù: «Chiedete..., cercate..., bussate...». La promessa di esaudimento connessa a questi imperativi - «... e vi sarà dato, ... e troverete, ... e vi sarà aperto» (Mt 7,7; Lc 11,9) - fonda già il legame intriseco e inscindibile tra domanda e ringraziamento, tra supplica e azione di grazie (...). Questa sintesi difficile, operazione spirituale della fede, è richiesta al cristiano da un preciso ammonimento di Gesù: «Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato» (Mc 11,24). Unico, infatti, è il Dio cui si chiede e cui si rende grazie!
Constatare, pertanto, che oggi a una forte crisi della preghiera di domanda fa riscontro una ripresa della preghiera di azione di grazie è sintomatico di una crisi della fede, di una patologia che investe l'immagine stessa di Dio e quella dell'uomo, creando uno squilibrio nella preghiera.

La preghiera di domanda
La forma di preghiera più attestata nella Scrittura e richiesta da Gesù stesso è quella di domanda. Essa èa nche quella che ha fatto più problema alla tradizione cristiana, che spesso ha affermato la superiorità, la maggior purezza e perfezione delal preghiera di lode e di ringraziamento. (...) Oggi si assiste, invece, a un suo riemergere sotto forme non autenticamente evangeliche, che la riducono ad atteggiamento magico, a una sorta di ingiunzione rivolta a un Dio sentito come immediatamente "disponibile", che avrebbe quasi il dovere di soddisfare ogni nostro bisogno.
Ora, occorre innanzitutto affermare che, antropologicamente, la domanda non è solo qualcosa che l'uomo fa, ma è una dimensione costitutiva del suo stesso essere: l'uomo è domanda, è appello. Questa dimensione non può non manifestarsi nella preghiera: in essa, infatti, «qualunque ne sia l'occasione specifica, tutto l'essere viene portato dinanzi a Dio» (Heinrich Ott). Rivolgendosi a Dio con la domanda nelle diverse situazioni esistenziali, il credente - sena rinunciare alla propria responsabilità e al proprio impegno - attesta di volere sempre e di nuovo ricevere dalla relazione con lui il senso della propria vita e la propria identità, e confessa di non "disporre" della propria esistenza. In questo senso, la preghiera di domanda è certamente scandalosa, in quanto urta la pretesa di autosufficienza dell'uomo. In profondità, poi, dietro a ogni particolare preghiera di domanda vermanete cristiana, vi è una domanda radicale di senso, che il progresso tecnologico non potrà mai rendere superata e che investe direttamente non solo il credente ("Chi sono?"), ma anche il Dio «in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28).
Con la preghiera di domanda, inoltre, il credente stabilisce un tempo di attesa tra il bisogno e il suo soddisfacimento, pone una distanza tra sé e la sua situazione concreta: egli si innalza dal suo bisogno e lo trasfigura in desiderio. La pregheira di domanda è davvero "l'officina" del nsotro desiderio, perchè in essa noi possiamo imparare a desiderare, cioè a conoscere e disciplinare i nostri desideri, distinguendoli dai nostri bisogni e cercando di accordarli con il desiderio di Dio: «nela preghiera lo Spirito santo educa il nostro desiderio, per decentrarlo dal nostro bisogno e ricentrarlo sul desiderio di Dio» (Jean-Claude Sagne). Insomma, noi chiediamo doni che colmino i nostri bisogni, e lo Spirito santo ci porta a invocare la presenza del Donatore, ovvero a chiedere l'amore, desiderio del desiderio.
Ecco perché la preghiera di domanda mira, in realtà, alla Presenza del Dio a cui si rivolge, prima ancora che all'ottenimento di uno specifico beneficio: essa è comprensibile e praticabile solamente all'interno di una relazione filiale con Dio, vissuta all'insegna della fede.  (...) la fede e la relazione filiale vissute da Gesù, il modo in cui egli si è rivolto al Padre, diventano così esemplari per il credente. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer:
Dio non realizza tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse, cioè egli rimane il Signore della terra, conserva la sua Chiesa, ci dona sempre nuova fedem non ci impone mai pesi magiori di quanto possiamo sopportare, ci rende lieti con la sua vicinanza e il suo aiuto... Tutto ciò che possiamo a buon diritto attenderci e chiedere a Dio, possiamo trovarlo in Cristo... Dobbiamo immergerci sempre di nuovo, a lungo e con molta calma, nel vivere, parlare, agire, soffrire e morire di Gesù, per riconoscere ciò che Dio promette e ciò che egli adempie. (Resistenza e resa, 1998)
In questo senso è estremamente significativa l'esperienza del Getsemani, l'ora decisiva della vita di Gesù. Nell'imminenza della sua passione egli confessa Dio quale «Abba, Padre» (Mc 14,36) e, con insisitenza, gli chiede che passi da lui «quell'ora» (Mc 14,35), «quel calice» (cfr. Mt 26,39). Nello stesso tempo, però, Gesù sottomette la sua richiesta a un criterio ben preciso: «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36), «Non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39).
Questa è l'autentica preghiera di domanda del cristiano, discepolo di Gesù Cristo!

Enzo Bianchi

tratto da "Perché pregare, come pregare"

10/03/14

Dare senso all'insensatezza - Carlo Molari


Dare senso all'insensatezza
Nel cambiamento culturale che velocemento si sta realizzando da alcuni decenni (...) uno dei dati comuni a molte esperienze è la scoperta della insensatezza di situazioni storiche e personali al punto da dubitare del significato e del valore della vita intera. (...)
Molti riconscono che la prospettiva dinamica ed evolutiva, che caratterizza l'attuale cultura, produce sconcerto vitale, disorientamento storico, "disincanto", dato che i punti di riferimento per una direzione sensata al pensare e all'agire appaiono troppo labili e provvisori, quando non sono completamente assenti.
Anche in prospettiva atea il «disincanto fa paura perché costituisce la risposta alla millenaria domanda sul senso» (Flores d'Arcais, Etica senza fede 1992). (...)
L'uomo deve dare senso alla realtà, che non sempre lo contiene, ma il senso non lo può trovare nelle cose o nelle situazioni come il successo o la carriera o altro del genere e neppure nella pietà da esercitare, ma deve introdurlo in altro modo. La soluzione offerta dalle cose non è soddisfacente per chi ritiene che nella vita sia in gioco una realtà più grande di noi. Il problema dell'uomo, perciò, è questo: come introdure senso dove non c'è senso, o, detto altrimenti, quale fede esercitare e quale atteggiamento assumere per vivere in modo sensato le situazioni insensate.


Dare senso in prospettiva religiosa
Anche in prospettiva religiosa è necessario imparare a dare senso agli eventi, perché essi come tali non lo contengono. Neppure si può  affermare che il riferimento a Dio come ricompensa finale o come legislatore
provvidente dia senso all'esistenza. Il non senso sta all'interno delle situazioni ed è lì che deve essere sconfitto. Dentro le esperienze e le situazioni storiche deve essere introdotto un senso che non vi si trova.
Questo modo di impostare il problema contraddice una diffusa concezione di provvidenza. Come se per il credente tutto ciò che accade abbia un suo valore intrinseco, perché in un modo o in un altro corrisponde al volere divino. Questa concezione non è esatta. Non tutto ciò che accade sulla terra corrisponde al volere divino. Anzi, la maggior parte delle condizioni storiche sono certamente contrarie alla volontà di Dio, perché inquinate dal peccato e limitate dalla infedeltà agli uomini.
La volontà di Dio non si realizza negli eventi in quanto tali, ma nel modo con cui vengono vissuti. Stando così le cose l'uomo non compie la volontà di Dio semplicemente subendo ciò che accade, ma immettendovi un senso nuovo. Ci sono infatti molte situazioni della creazione e della storia che non corrispondono al volere divino, ma nelle quali ci è ugualmente richiesto di vivere in modo positivo, così da compiere la volontà di Dio.

In questo senso la croce di Cristo è evento emblematico. La decisione di condannare a morte Gesù sia da parte del Sinedrio che da parte di Pilato, era certamente contrario al volere di Dio, perché ingiusta e peccaminosa. Il discernimento di Gesù è consistito nel determinare come vivere quella situazione ingiusta e peccaminosa in modo da renderla positiva per sé e salvifica per gli altri. 
Discernere la volontà di Dio non consisite nel determinare quale scelta compiere fra le molte possibili, o nel decidere quale evento debba accadere, ma nel precisare con quali atteggiamenti vivere le situazioni nelle quali, per caso, necessità, per scelta nostra o di altri, ci veniamo a trovare.
Anche se le situazioni fossero contrarie al volere di Dio, come la croce lo fu per Gesù, e non potessimo sottrarcene, dovremmo interrogarci come vivere quella situazione in modo da compiere la volontà di Dio. Rendere salvifica una situazione significa viverla in modo da crescere come figli di Dio e fare in modo che le dinamiche negative che essa contiene vengano annullate, suscitando quindi al suo interno spinte favorevoli alla vita. (...)
Concretamente vivere tutte le situazioni in modo positivo significa saper riconoscere e accogliere la forza creatrice presente e aver la consapevolezza della funzione di servizio che ci chiede. Il presupposto teologico di questa consapevolezza è il fatto che la forza creatrice di Dio e il suo amore, che si esprimono nel mondo, non possono essere annullati da nessuna deformazione delle creature. L'azione di Dio si esercita a quel livello profondo della persona nel quale si verifica lo sviluppo dell'identità definitiva e che, a un certo momento della maturità personale, nessuno può più invadere.
Per questo l'uomo è in grado di affrontare e vivere tutte le esperienze storiche con la consapevolezza che prorpio lì, all'interno di quella situazione, la forza creatrice gli perviene. Non perché Dio l'abbia scelta per metterci alla prova, o per vedere se siamo fedeli anche in condizioni difficili, dato che sono le creature per la loro incompiutezza, ad introdurre il male nei processi storici. Ma l'azione delle creature come l'ingiustizia degli uomini non può mai essere così radicale da annullare la forza creatrice, che resta al fondo di ogni processo storico e che, quando abbiamo coltivato lo sguardo di fede e aperto l'occhio interiore, siamo in grado di percepire e di accogliere.
Vivendo in tale modo, ci è dato di crescere come figli di Dio e di raggiungere la nostra identità definitiva. Il passaggio da servi a figli è proprio il processo della nostra identificazione definitiva. Questa è la ragione finale della vita. Se invece noi mettiamo il senso compiuto nella dimensione in cui realizziamo le cose, attuiamo dei progetti, ne scopriamo immancabilmente l'inutilità e l'insensatezza.
La prima condizione, quindi, per annullare la dinamica negativa che le situazioni contengono è viverle in modo da crescere come figli di Dio, accogliendo l'offerta di vita che esse in ogni caso contengono.(...)
L'identità di figli di Dio, infatti, non si sviluppa nella stessa direzione nella quale siamo chiamati ad esercitare il servizio alla vita. Esercitiamo il servizio alla vita facendo cose, realizzando progetti, aiutando gli altri con azioni provvisorie e precarie. La direzione del servizio è la morte nella quale la nostra azione va verso l'esaurimento, mentre la dimensione nella quale cresciamo come figli si sviluppa continuamente e acquista caratteristiche sempre più positive man mano che procediamo. Mentre l'esistenza nella direzione operativa perde senso, diventando inutile, nella direzione spirituale, invece, si arricchisce e acquista senso. Alla fine non possiamo far nulla, ma possiamo essere tutto quello che dovevamo diventare: persone in grado di accogliere «il nome scritto nei cieli» (Lc 10,20). Abbiamo cioè raggiunto la nostra identità definitiva.
Quando non accettiamo questa nostra condizione o non la viviamo con consapevolezza, non riusciamo ad affrontare bene, non solo la sofferenza, il limite, la vecchiaia, ma neppure i momenti positivi perché non siamo in armonia con le profonde dinamiche dell'esistenza. L'esistenza ci appare insulsa.
Questa è la situazione nella quale molti si trovano. Oggi è facilesperimentare l'insensatezza finale in tempi molto brevi. Abbiamo infatti una grande quantità di beni a disposizione, i piaceri sono a portata di mano, il benessere offre continue illusioni. Per questo oggi molti giovani sono già stanchi di vivere e colgono l'insensatezza di tante scelte che pure sono chiamati a compiere. 
L'esperienza dell'insensatezza diventa drammatica e fatale. Quando però si sviluppa la dimensione spirituale anche le situazioni insensate sono affrontate in modo sensato perché, come scrive S. Paolo, nessuno «ci può separare dall'amore di Dio» (Rm 8,39); nessuno, cioè, può impedire di accogliere quella forza creatrice per cui cresciamo come persone definitive.

Carlo Molari
tratto da «Per una spiritualità adulta»

08/03/14

Le tentazioni di Gesù - I Quaresima (A)

 Mt 4, 1-11

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.





Apriamo la Quaresima con questo testo classico: il testo delle tre tentazioni di Gesù nel deserto che viene illuminato dalla prima e fondamentale tentazione che compare nella Bibbia, che è quella raccontata dal Libro della Genesi, della caduta del primo uomo. Cerchiamo quindi di capire qual è il punto di unione tra questo 3° capitolo della Genesi e il 4° capitolo del Vangelo di Matteo.
Ci sono tante prospettive di lettura straordinarie su queste tentazioni, ma la cosa fondamentale che vorrei sottolineare oggi, fra le altre, è questo cammino dell'autenticità; dove attacca la tentazione? dove attacca il potere della menzogna? Sulla nostra propria identità. La fedeltà a Dio non è una fedeltà che prescinde dalla fedeltà a noi stessi: è la stessa identica cosa, perché la verità è una sola. Il giorno in cui siamo nella verità con Dio, siamo nella verità con noi stessi, e siamo nella veerità anche con gli altri.
Dove và ad attaccare il serpente con Eva? Nello stesso posto in cui andrà ad attaccare il tentatore con Gesù.
Vediamo le tre tentazioni.

«Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»
"Essere figli di Dio" (secondo la tentazione) significherebbe manipolare la realtà, ovverosia chiedere alle cose di essere in funzione delle nostre necessità: Gesù ha fame quindi le pietre devono diventare commestibili.
«Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù» perché così Dio opera.
... Ovverosia, prendi in mano tu l'iniziativa: se sei figlio di Dio, Dio deve seguire quello che a te sembra essere un buon progetto.
«Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai»
Che tutte le cose siano tue, a tua disposizione. Dove c'è una Missione del Figlio di Dio (nel caso di Gesù quella di essere il Messia), questo mondo ci può servire per adempierla, e allora entriamo nelle leggi di questo mondo e serviamoci delle sue tecniche, dei suoi oggetti... senza stare a guardare troppo quanto ci costa questo.

Queste tre tentazioni alla fine spingono l'umo verso la necessità di cambiare la sua condizione: il rapporto con i propri sensi, che devono essere sempre appagati; il rapporto con la sua intelligenza, perché se lui ha un progetto questo progettino deve andare in porto! e Dio si deve piegare a questo progetto; il rapporto con gli oggetti, con il mondo, che può essere pervertito in una funzionalità tutta finalizzata a quello che è il nostro potere, la nostra autoaffermazione. 
Tutte queste cose, in fondo, erano già contenute nella tentazione del serpente ad Eva: diventare come Dio. In queste tre tentazioni, ritroviamo questa prima seduzione del serpente: essere come Dio.
Attraverso questa suggestione, in sostanza il serpente dice ad Eva che deve essere diversa da come è.... e implicitamente le sta dicendo che lei non va bene così com'è, che lei deve fare un "upgrade", un "download" di un nuovo modello! Lei non ha da scoprire la bellezza di ciò che è,  ma deve diventare altro: deve diventare come Dio. 
Questa tentazione immette nel cuore umano il problema della competizione: io non mi definisco più per le mie caratteristiche, io mi definisco per essere più o meno uguale a qualcun'altro. 
Questa è una logica di menzogna: l'uomo viene proiettato verso "quello che non è". Di fatto è come se Eva - e noi con lei - dovessimo imparare a rispondere: ma che mi importa di diventare come Dio? Il mio problema è piuttosto quello di "essere Eva"! Essere me stessa, essere felice di quello che io sono!
E così si hanno queste tre "fughe" nelle compensazioni: attraverso gli appetiti (tutto deve essere in funzione delle nostre voglie!), la fuga nei progetti, e il diventare pieni di potere, pieni di possessi... Tutto questo non è altro che una fuga dal nostro "oggi". 
E' un grande, strepitoso, devastante sistema di alienazione... e non ci può che portare nell'infelicità. Eva, nel momento in cui cerca di essere altro da quello che è entra nell'inganno: non ha più occhi che funzionano, non vede più il pericolo delle cose e attraverso gli atti che attestano questa sua scelta di entrare in competizione, di essere come Dio, di essere qualche cosa di "grosso", di importante...  e non Eva, non se stessa... arriverà al dolore, alla vergogna, alla perdita del rapporto con se stessa. 
Eva non sarà più felice di essere Eva. 

Se andiamo a vedere bene, sopratutto nella seconda e terza tentazione, il Signore Gesù ha una "merce" che gli viene chiesto, teoricamente, di barattare - su suggestione del demonio - per affermare una umanità che si riscatta, che fugge dalla sua condizione: dovrebbe gettare se stesso dal pinnacolo, ovverosia rischiare la propria vita, mettere a repentaglio la propria incolumità. E ancora, nella terza tentazione, deve piegare se stesso, perdere la sua dignità. 
Tutte queste cose ci dicono che uno, pur raggiungere un obiettivo spesso non si rende conto che cosa c'è in gioco e quello che sta rischiando.

L'invito che la Quaresima oggi ci fa', alla preghiera, al digiuno, all'elemosina, è per darci degli strumenti che rappresentano la chiamata alla verità, al rispetto della nostra dignità. 
La sobrietà, la generosità, il rapporto con Dio sono tutte strade di pace, di libertà, di bellezza. 
La tentazione nasconde la nostra bruttezza, la nostra vergogna, la nostra infelicità.

don Fabio Rosini

Comunione e sobrietà - A. Nicora


La quaresima ci incammina verso la Pasqua e ci prepara a celebrarla come riscatto della nostra libertà di figli e come sua gioiosa celebrazione nel servizio dell'amore. (...)
Là [durante i 40 giorni nel deserto], vivendo nella solitudine e nell'austerità volontaria, Gesù prova la fame, e nel distacco radicale dalle cose conosce la tentazione e la vittoria, conquistando nella sua umanità la perfetta libertà di vivere il compito messianico non come pretesa ma come obbedienza, non come dominio ma come servizio e sacrificio. La virtù cristiana della sobrietà è un modo specifico e concreto di rivivere il deserto di Gesù, facendo nostra la sua oblazione d'amore e disponendoci a condividere la sua vittoria sull'egoismo e sulla morte per la salvezza nostra e dell'umanità.
Pasqua è festa di vita. Gesù ha detto: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
La Vita del Risorto è la vita in pienezza, in abbondanza, a cui tutti siamo chiamati. (...) E' la vita di colui che si realizza in pienezza ed è felice in quanto anche tutti gli altri sono realizzati, felici e in comunione. (...)

Ma non c'è comunione se non si accettano i limiti. Se uno non accetta i limiti al suo potere, poter fare ciò che vuole, e al suo avere, avere tutto ciò che desidera, non conoscerà mai la gioia della comunione, ma solo il travaglio della competizione, l'effimero gusto del sorpasso, e alla fine, l'angoscia della solitudine. Rifiutando il senso del limite, non si costruisce comunione, ma si fa soltanto oppressione, distruzione degli altri, e, alla fine, anche di se stessi (...) Mentre l'amore chiede di far spazio all'altro come fratello, alla carità vera che si fa solidarietà. In quanto creature, del resto, il limite è congenito. Se non si coglie il valore del tramonto e della notte, si vive tutta un'esistenza nella paura del dolore, del fallimento, della sconfitta, della vecchiaia, della morte e non si gusta il dono della vita terrena, ricevuto entro i necessari limiti che permettono anche l'esistenza degli altri e la gioia dello stare insieme. Uno stare insieme, una comunione, una festa che, per dono del Padre, saranno perfette e durature dopo la morte quando entreremo nella sua casa, cioè nell'eterno; e però già qui nel tempo si possono gustare come un inizio, un pegno, un anticipo, purché sappiamo accettare il sacrificio che comportano. (...)

Per questo la settimana santa è preceduta dalla quaresima e la domenica di Pasqua dal venerdì santo. Seguire Gesù, infatti, vuol dire accogliere la croce: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». La croce è il segno più vero dell'amore, perché nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per la persona amata.. Perciò il segno del cristiano è il segno della croce, perché (...) ci indica la meta: la vita di comunione di tutti in Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. E con il gesto ci rammenta il necessario costo della comunione, il cammino per arrivarci: l'accettazione dei limiti, del tramonto, della morte, cioè della croce, come Gesù ha fatto. (...) Quando non si accettano i limiti necessari alla comunione, si introducono nel cuore dell'uomo e nel mondo squilibri di ogni genere. Ricomporre le armonie profonde del cuore, compromesse dal peccato, non è nelle possibilità dell'uomo, è soltanto dono di Dio in Cristo Redentore. Ma frenare e riparare gli squilibri strutturali, umani, sociali, ecologici, introdotti nel mondo da un cuore insaziabile di guadagno e potere, è compito dell'uomo; non può essere atteso miracolisticamente da Dio. Non porrà pezze, Dio, al buco dell'ozono. Se semino zizzania, nascerà zizzania e non buon grano, per quante preghiere faccia. E' necessaria dunque una partecipazione nella "riparazione": un supplemento di fatica, di impegno, di buona volontà, di allenamento; e, appunto, penitenza e digiuno la quaresima ci propone come cammino per una vita più piena di senso e di solidarietà, più libera dalle cose e da noi stessi.

Mons. Attilio Nicora
"La virtù cristiana della sobrietà"  
 Lettera pastorale del Vescovo di Verona per la Quaresima, 1996



Il digiuno gradito a Dio... - Is 58, 2-12

Is 58, 2-12

Mi cercano ogni giorno,
bramano di conoscere le mie vie,
come un popolo che pratichi la giustizia
e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio;
mi chiedono giudizi giusti,
bramano la vicinanza di Dio:
«Perché digiunare, se tu non lo vedi?,
mortificarci, se tu non lo sai?»
Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari,
angariate tutti i vostri operai.
Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi
e colpendo con pugni iniqui.
Non digiunate più come fate oggi
così da fare udire in alto il vostro chiasso.
E' forse questo il digiuno che bramo,
il giorno in cui l'uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per il letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato,
nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
Allora la tua luce sorgerà come l'aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli ti dirà: «Eccomi!».
Se toglierai di mezzo a te l'opressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all'affamato,
se sazierai l'afflitto di cuore,
allora brillerà tra le tenebre la tua luce,
la tua teneba sarà come il meriggio.
Ti guiderà sempre il Signore,
ti sazierà in terreni aridi,
rinvigorirà le tue ossa;
sarai come un giardino irrigato
e come una sorgente
le cui acque non inaridiscono.
La tua gente riedificherà le rovine antiche,
ricostruirai le fondamenta di trascorse generazioni.
Ti chiameranno riparatore di brecce,
e restauratore di strade perché siano popolate.


05/03/14

Messaggio per la Quaresima 2014 - papa Francesco


Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9)

Cari fratelli e sorelle,
in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?

La grazia di Cristo


Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà: «Da ricco che era, si è fatto povero per voi…». Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in tutto simile a noi (cfr Fil 2,7; Eb 4,15). È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato. L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 22).
Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Paolo – «...perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad effetto! E’ invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica dell’Incarnazione e della Croce. Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo filantropico. Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori, e caricarsi del peso dei nostri peccati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria. Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le «impenetrabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8), «erede di tutte le cose» (Eb 1,2).
Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione. La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La povertà di Cristo è la più grande ricchezza: Gesù è ricco della sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a Lui in ogni momento, cercando sempre e solo la sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino che si sente amato e ama i suoi genitori e non dubita un istante del loro amore e della loro tenerezza. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo Messia povero. Quando Gesù ci invita a prendere su di noi il suo “giogo soave”, ci invita ad arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con Lui il suo Spirito filiale e fraterno, a diventare figli nel Figlio, fratelli nel Fratello Primogenito (cfr Rm 8,29).
È stato detto che la sola vera tristezza è non essere santi (L. Bloy); potremmo anche dire che vi è una sola vera miseria: non vivere da figli di Dio e da fratelli di Cristo.

La nostra testimonianza


Potremmo pensare che questa “via” della povertà sia stata quella di Gesù, mentre noi, che veniamo dopo di Lui, possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani. Non è così. In ogni epoca e in ogni luogo, Dio continua a salvare gli uomini e il mondo mediante la povertà di Cristo, il quale si fa povero nei Sacramenti, nella Parola e nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri. La ricchezza di Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, personale e comunitaria, animata dallo Spirito di Cristo.
Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle. La miseria non coincide con la povertà; la miseria è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza. Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana: privati dei diritti fondamentali e dei beni di prima necessità quali il cibo, l’acqua, le condizioni igieniche, il lavoro, la possibilità di sviluppo e di crescita culturale. Di fronte a questa miseria la Chiesa offre il suo servizio, la sua diakonia, per andare incontro ai bisogni e guarire queste piaghe che deturpano il volto dell’umanità. Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo; amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo. Il nostro impegno si orienta anche a fare in modo che cessino nel mondo le violazioni della dignità umana, le discriminazioni e i soprusi, che, in tanti casi, sono all’origine della miseria. Quando il potere, il lusso e il denaro diventano idoli, si antepongono questi all’esigenza di una equa distribuzione delle ricchezze. Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione.
Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza! E quante persone sono costrette a questa miseria da condizioni sociali ingiuste, dalla mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa, per la mancanza di uguaglianza rispetto ai diritti all’educazione e alla salute. In questi casi la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente. Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore. Se riteniamo di non aver bisogno di Dio, che in Cristo ci tende la mano, perché pensiamo di bastare a noi stessi, ci incamminiamo su una via di fallimento. Dio è l’unico che veramente salva e libera.
Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la comunione e per la vita eterna. Il Signore ci invita ad essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza! È bello sperimentare la gioia di diffondere questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazione e promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona. Potremo farlo nella misura in cui saremo conformati a Cristo, che si è fatto povero e ci ha arricchiti con la sua povertà. La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole.
Lo Spirito Santo, grazie al quale «[siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2 Cor 6,10), sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

papa Francesco

02/03/14

Non preoccupatevi.... - VIII T.O.

Mt 6,24-34

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».



Non preoccupatevi. Per tre volte Gesù ribadisce l'invito: non abbiate quell'affanno che toglie il respiro, per cui non esistono feste o domeniche, non c'è tempo di fermarsi a parlare con chi si ama. Non lasciatevi rubare la gioia: quella capacità di godere delle cose belle che ogni giorno ci dona. Perché? Perché Dio non si dimentica di te. 
Domani ascolteremo un passo che è forse il più bello di Isaia: può una madre dimenticarsi del suo figliolo? Se anche una madre si dimenticasse, io non mi dimenticherò di te
Guardate gli uccelli del cielo, osservate i gigli del campo. Gesù osserva la vita e la vita gli parla di fiducia. Gesù oggi ci pone la questione della fiducia. Dove metti la tua fiducia? La sua proposta è chiara: «in Dio, prima di tutto, perché Lui non ti abbandona ed ha un progetto per te. Non mettere la fiducia nel tuo conto in banca». Non potete servire Dio e la ricchezza. Non è la ricchezza che Gesù ha di mira - infatti tra i suoi amici aveva persone ricche e altre povere - bensì ciò che lui chiama, in aramaico, mammona. «Mammona non è la ricchezza in sé, ma quella nascosta, avara, chiusa alla solidarietà, e che produce ingiustizia» (papa Francesco), che rende schiave le persone, che assorbe il loro tempo, i pensieri, la vita. Guardate gli uccelli (esserini liberi, quasi senza peso e senza gravità; lasciatevi attirare come loro dal cielo, volate alto e liberi) e non preoccupatevi. Se Dio nutre queste creature che non seminano, non mietono, quanto più voi che invece lavorate, seminate e raccogliete. 
Non è un invito al fatalismo o alla passività in attesa che la Provvidenza risolva al posto nostro i problemi: la Provvidenza conosce solo uomini in cammino (don Calabria). Non preoccupatevi, il Padre sa. Tra le tante cose che uniscono le tre grandi religioni, che ci fanno sentire vicini ai nostri fratelli ebrei e musulmani, ce n'è una bellissima: la certezza che Dio si prende cura, che Dio provvede. Non preoccupatevi, Dio sa. 
Ma come faccio a dirlo a chi non trova lavoro, a chi non riesce ad arrivare a fine mese, non vede speranza per i figli? La soluzione non è fatta di parole: «Se uno è senza vestiti e cibo e tu gli dici, va in pace, non preoccuparti, riscaldati e saziati, ma non gli dai il necessario per il corpo, a che cosa ti serve la tua fede?» (Giacomo 2,16). Dio ha bisogno delle mie mani per essere Provvidenza. Io mi occupo di qualcuno, e allora il Dio che veste i fiori si occuperà di me. 
Cercate prima di tutto il Regno. Vuoi essere una nota di libertà nell'azzurro, come un passero? Bello come un fiore? Cerca prima di tutto le cose di Dio, che sono solidarietà, generosità, amore, e troverai ciò che fa volare, ciò che fa fiorire!

P. Ermes Ronchi

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Si dimentica una donna del proprio bambino? - Is 49, 14-15

Isaia 49, 14-15


Sion ha detto:  «Il Signore mi ha abbandonato, 
il Signore mi ha dimenticato».
Si dimentica forse una donna del suo bambino, 
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? 
Anche se queste donne si dimenticassero, 
io invece non ti dimenticherò mai.