20/07/13

Marta e Maria - XVI T.O.

Lc 10, 38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».


Mentre erano in cammino... una donna di nome Marta lo ospitò.
Ha la stanchezza del viaggio nei piedi, la fatica del dolore della gente negli occhi. Allora riposare nella frescura amica di una casa, mangiare in compagnia sorridente è un dono, e Gesù lo accoglie con gioia. Quando una mano gli apre una porta, lui sa che lì dentro c'è un cuore che si è schiuso all'amore. 
Ha una meta, Gerusalemme, ma lui non «passa oltre» quando incontra qualcuno. Per lui, come per il buon Samaritano, ogni incontro diventa una meta, un obiettivo. Gesù entra nella casa di due donne d'Israele, estromesse dalla formazione religiosa, va direttamente nella loro casa, perché quello è il luogo dove la vita è più vera. E il Vangelo deve diventare vero nel cuore della vita. 
Maria, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 
Sapienza del cuore, il fiuto per saper scegliere ciò che fa bene alla vita, ciò che regala pace e forza: perché l'uomo segue quelle strade dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità (sant'Agostino). 
Mi piace immaginare questi due totalmente presi l'uno dall'altra: lui a darsi, lei a riceverlo. E li sento tutti e due felici, lui di aver trovato un nido e un cuore in ascolto, lei di avere un rabbi tutto per sé, per lei che è donna, a cui nessuno insegna. Lui totalmente suo, lei totalmente sua. A Maria doveva bruciare il cuore quel giorno. Da quel momento la sua vita è cambiata. Maria è diventata feconda, grembo dove si custodisce il seme della Parola, e per questo non può non essere diventata apostola. Per il resto dei suoi giorni a ogni incontro avrà donato ciò che Gesù le aveva seminato nel cuore. 
Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose. 
Gesù, affettuosamente come si fa con gli amici, rimprovera Marta, ma non contraddice il suo servizio bensì l'affanno, non il cuore generoso di Marta ma l'agitazione. A tutti ripete: attento a un troppo che è in agguato, a un troppo che può sorgere e ingoiarti, che affanna, che distoglie il volto degli altri. Marta - sembra dire Gesù, a lei e a ciascuno di noi - prima le persone, poi le cose. 
Gesù non sopporta che Marta sia confinata in un ruolo di servizio, che si perda nelle troppe faccende di casa: tu, le dice Gesù, sei molto di più; tu puoi stare con me in una relazione diversa, non solo di scambio di servizi. Tu puoi condividere con me pensieri, sogni, emozioni, conoscenza, sapienza. «Maria ha scelto la parte migliore», ha iniziato cioè dalla parte giusta il cammino che porta al cuore di Dio. 
Perché Dio non cerca servitori, ma amici, non cerca delle persone che facciano delle cose per lui, ma gente che gli lasci fare delle cose dentro di sé.

P. Ermes Ronchi

da "Avvenire"

18/07/13

Ci manca il senso dell'umorismo - A. Pronzato

«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)


Un'opera di misericordia inedita: restituire il sorriso
Nel Talmud si riferisce di un episodio che ha quale protagonista il celebre Rabbi Beroka, il quale aveva il privilegio di godere della direzione spirituale del profeta Elia. Questi gli appariva sopratutto nella piazza del mercato.
Un giorno gli pone una domanda piuttosto bizzarra: «Padre mio, c'è qualcuno fra questa moltitudine di persone, che avrà parte al Regno futuro?».
«No», risponde decisamente Elia. Ma poco dopo passano due uomini, e il profeta prontamente si corregge: «A dire il vero, questi avranno parte al Regno futuro».
Il Rabbi, incuriosito si mette a tallonare i due e, quando li raggiunge, non riesce a trattenersi dall'indagare sul loro mestiere. Quelli rispondono: «Siamo due buffoni. Quando incontriamo gente depressa, le restituiamo il buonumore. Oppure, allorché vediamo due individui che disputano furiosamente, ci sforziamo di riportare la pace con un po' di allegria, cercando di sdrammatizzare le cose...».

«Tu scherzavi sempre...»
Sul versante cristiano, numerosissimi sono stati i santi che hanno praticato quest'opera di misericordia: restituire il sorriso ai cristiani. Basterà citare San Bernardino da Siena. (...)
La gente, che all'alba, accorreva in Piazza del Campo per ascoltare quelle prediche, esplodeva in fragorose risate di fronte a un autentico fuoco d'artificio di battute, descrizioni ironiche e notazioni argute che accompagnavano la trattazione degli argomenti più seri.
Quando Bernardino morì, e immediatamente si parlò di lui come santo in anticipo sulla canonizzazione regolare, tra i frati minori, suoi confratelli, ce ne fu uno che si precipitò a baciare la sua salma singhiozzando: «Perdonami, padre, di aver dubitato della tua santità. Il fatto è che tu scherzavi sempre».
Ho l'impressione che il pregiudizio di quel frate si perpetui ancor oggi. Ecco perché molti cristiani esitano ad accostare il santo alla voglia di scherzare, e ritengono la risata come qualcosa di sacrilego, e tale comunque da compromettere la solennità dell'aureola.
Siamo abituati a vedere santi "contegnosi", magari familiari col pianto, ma il riso sulla loro bocca ci sembra per lo meno sconveniente. E dire che San Filippo Neri, fiorentino burlone, ha praticato precisamente la "pedagogia della risata". (...)
Vicino a noi, un personaggio austero come Padre Pio da Pietralcina, martoriato dentro e fuori, non disdegnava di ricorrere, in certe occasioni, all'ironia, talvolta sferzante, tal'altra bonaria.
Un giorno gli riferiscono che un celebre professore di Firenze ha ipotizzato quale causa delle stigmate «un autolesionismo provocato da auto-ipnosi che, conscia o no, il frate generava pensando troppo intensamente a Cristo».
Padre Pio sbotta: «Provate voi a pensare intensamente a un bue, e poi vedete se vi crescono le corna...».

I santi sono precipitati a Cana
Sarebbe possibile mettere insieme un'opera monumentale, una colossale enciclopedia dedicata all'umorismo dei santi. E mi stupisco che nessuno ci abbia mai pensato. (...)
In realtà i santi hanno fatto ressa alla sala del banchetto di Cana, e hanno attinto abbondantemente quel vino miracoloso, che ha prodotto in loro effetti stupefacenti. E peggio per noi se non ce ne accorgiamo o esitiamo a registrare questo fenomeno. (...)

In confessionale, per ritrovare il sorriso
Un giorno il Curato d'Ars uscì in una confidenza sconcertante: «Se fossi triste, andrei subito a confessarmi».
E Chamfort, in una sua massima, sostiene: «Una giornata in cui non si è riso almeno una volta è una giornata perduta».
Il santo e lo scrittore mordace esprimono la stessa realtà, sia pure in modo diverso. Ossia, l'umorismo come dovere.
Sorriso, umorismo anche nel recinto sacro della religione.  (...)
E' stato osservato che là, dove l'umorismo non ha diritto di cittadinanza, regna la pedanteria. E dove regna la pedanteria , si perde la freschezza, si appanna la gioia della fede.
Qualcuno farà rilevare che i testi di ascetica e mistica sorvolano sull'argomento. E questo è il segno evidente che non sono abbastanza seri... Non tengono conto del fatto che la risata è sempre liberatrice. Libera dalle ossessioni, dai tormenti, dagli scrupoli, dalle inibizioni, dagli innumerevoli complessi.
Chi non è capace di ridere, si espone a un rischio gravissimo: diventa ridicolo.
Qualche barbassore, sempre troppo serioso, non mancherà di certo di obiettare spazientito: «(...) Dimmi dove trovi l'umorismo nel Vangelo. Dove sta scritto che Gesù abbia riso?».
Potrei replicare citando le parole di J. Sullivan: «L'umorismo non è mai assente dal Vangelo. Spesso, più che dalle parole stesse, scaturisce dal contesto in cui vengono pronunciate».
E quanto alla mancanza di sorriso in Cristo, è sufficiente, penso, una strizzatina alle meningi: poteva attirare nugoli di bambini, masse di gente semplice, un uomo burbero, scostante, col cipiglio sempre spianato?
E poteva avere un volto afflitto quando sentiva il maestro di tavola complimentarsi con lo sposo per quel vino prodigioso e di provenienza misteriosa?
E poteva forse dire con una grinta spianata ai propri amici: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11)? Gesù, al contrario, proprio nell'imminenza della Passione, non ha inoculato nelle vene dei suoi discepoli la tristezza, ma la gioia. E riesce arduo immaginare che l'abbia fatto senza almeno un sorriso.

L'umorismo è una cosa seria
L'umorismo è una cosa seria, come è seria l'umiltà di cui l'umorismo rappresenta uno dei... sintomi più convincenti.
Chi non sa sorridere è troppo ingombrato dal proprio io.
Nietzsche diceva che il diavolo è lo «spirito di severità».
E' difficile avere il senso delle proporzioni, tenere in ordine la scala dei valori nella vita. (...)
L'umorismo ci rende leggeri. In giro c'è troppa gente "pesante". Ossia incapace di spostarsi, perché ha collocato in sé il centro di gravità dell'universo. Perché carica, appesantita dai propri punti di vista, dalle proprie idee, dai propri pregiudizi, dalle proprie "istanze". (...)
In altre parole: bisogna avere il senso dei propri limiti, del relativo. E possedere, naturalmente, il senso dell'assoluto.
«L'umorismo  è il senso del relativo che fa da indispensabile contrappeso al gusto dell'assoluto» (Dubois-Dumée). Ecco perché troviamo l'umorismo come carisma piuttosto frequente presso i mistici, ossia presso persone «che non si fanno soverchie illusioni sulla santità del loro stato, né sul valore di osservanze ed esercizi, che tuttavia praticano con estrema serietà» (Cl. Champollion).

Essere il buffone di noi stessi
Il paradosso, lo stupefacente equilibrio, stanno proprio qui: agire con serietà, eppure non dare troppa importanza a ciò che si fa e ciò che si è. Questo vuol dire, precisamente, staccarsi da se stessi e misurarsi - insieme alla propria mercanzia - con l'assoluto che è Dio.
Nel medioevo i re tenevano il buffone di corte. Che non aveva soltanto il compito di divertire il sovrano, ma di farlo restare uomo, attaccato alla terra, cosciente della propria precarietà. Insomma, quella di buffone era una misura... igienica contro l'orgoglio.
Ciascuno di noi, in quanto partecipe del "sacerdozio regale di Cristo", è re. Sovrano in casa prorpia, capace di pacificare la propria natura, mettere rodine nelle proprie passioni, tenere a bada gli istinti. Incaricato di conquistare un pezzetto di Regno con la forza dell'amore. Destinato a stabilire la propria signoria sugli altri con l'umile servizio.
Ebbene, anche noi dovremmo tenere il buffone di corte.
Cerca di essere tu il buffone di te stesso. Che manda in frantumi la maschera di seriosità, sufficienza, supponenza. Che mette in evidenza quanto sei ridicolo allorché non sai sorridere di te stesso. Che ti impedisce di prenderti eccessivamente sul serio. Che ride delle tue pretese da mosca cocchiera e grillo parlante.
Non dimenticare il riso nella tua giornata. «Il riso è l'ultima arma della speranza. circondati su tutti i fronti dall'idiozia e dall'abiezione, sospinti a credere nell'imminenza dell'apocalisse finale, sembriamo tutti coltivare il riso come ultima difesa che ci rimane. Di fronte alla rovina e alla morte ridiamo invece di farci il segno della croce. O forse, più esattamente, il riso è il nostro modo di farci il segno della croce. E' la proa che, nonostante la scomparsa di qualsiasi motivo di speranza che si fondi sui fatti, non abbiamo cessato si sperare» (H. Cox).  (...)
Sorridi di te stesso, dei tuoi limiti, delle tue insufficienze.
Soltanto se non ti prenderai troppo sul serio, la tua vita diventerà una cosa seria. Utile anche agli altri.

Dammi un'anima a festa
Tommaso Moro, cancelliere di Enrico VIII, condannato a morte e rinchiuso nella Torre di Londra, una notte è stato assalito dalla tentazione del suicidio. Gli pareva di sentire una voce nel suo intimo che gli ripeteva, ossessivamente: «Impiccati».
Rispose: «Impiccarmi? A parte il fatto che sono troppo pesante, troppo grosso. Ma mi manca la corda...». E scoppiò a ridere.  Una risata squassante da far tremare le mura della prigione. Le tentazioni si vincono anche così.  (...)

Padre, ho peccato perché non ho riso abbastanza
Anch'io (...) ho composto una preghiera sull'argomento, di cui mi permetto citare una parte:
«Ho un piccolo, tormentoso sospetto, Signore. Temo che, nell'ultimo giorno, mi rimprovererai per non aver riso abbastanza su questa terra.
Eppure gli spettacoli divertenti non mancano, né scarseggiano gli attori volenterosi. Incominciando da me.
Sì, mi accuserai di non aver riso di me stesso. Della mia supponenza. Del sentirmi al centro del mondo. Dell'illusione che tutto dipenda dal mio fare, e che il progresso sia in rapporto al mio correre. Della preoccupazione ossessiva di ciò che gli altri pensano di me. (...) Delle mie lacrime infantili. Delle mie angosce... capricciose. Delle mie paure. Dei miei fallimenti...
... Signore, devo convincermi che la risata liberatrice rappresenta una pratica ascetica fondamentale. Il riso mi prepara all'eternità scrollandomi di dosso la polvere del contingente, le impalcature traballanti, i monumenti tarlati, le bardature solenni, il trucco e la vernice, le grandezze miserabili, i falsi valori, i pesi ingombranti. Il riso è ridimensionamento di ciò che pretende essere assoluto (...) sdrammatizzazione degli incidenti di percorso e dei guai che ci affliggono, correzione delle visioni distorte della realtà (...) riduzione all'essenziale, culto della povertà, tutela della propria libertà, oltre che della dignità.
Il riso è proclamazione dell'Assoluto, senso della provvisorietà, attesa dell'Eterno.
Signore, non nego che la terra sia anche una valle di lacrime. Ma forse non ci siamo ancora accorti che Tu ci hai dato il riso per prosciugarla almeno un po'.
E io temo proprio che quel giorno non mi chiederai se avrò pianto a sufficienza, ma vorrai accertare se avrò riso abbastanza... (....)
L'Apocalisse (21,4) sulla scorta di Isaia, ci assicura che Tu asciugherai le lacrime dai nostri occhi. Ma non dice che spegnerai il riso sui nostri volti».

Una correzione alla "Salve Regina"
Maria, sono sicuro mi permetterai di correggere così la preghiera della Salve Regina:  «Gementes et flentes et ridentes in hac lacrimarum valle».
Sono certo mi approverai con un sorriso.
A Cana c'eri pure per qualcosa...


don Alessandro Pronzato

tratto da: "C'era la Madre di Gesù... a Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca"


17/07/13

Nessun uomo è un'isola - John Donne

Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte della terra.
Se una zolla viene portata via dall'onda del mare,
la terra ne è diminuita,
come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa.
Ogni morte d'uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all'umanità.
E così non chiedere mai per chi suona la campana:
essa suona per te.

John Donne


da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-4783>

15/07/13

Quarantanove

Ogni violenza nel mondo ha delle conseguenze, come ogni azione. Esistiamo per prendere su di noi un po’ del dolore del mondo offrendo il nostro petto, non per moltiplicarlo, facendo a nostra volta violenza.

Etty Hillesum     

14/07/13

Il buon samaritano - XV T.O.

Lc 10, 25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».


Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. 
Seguono poche righe, uno dei racconti più brevi al mondo, e più belli, in cui è condensato il dramma e la soluzione di tutta intera la storia umana. Un uomo: non sappiamo il suo nome, ma sappiamo il suo volto: ferito, colpito, terrore e sangue, faccia a terra, non ce la fa. È il volto eterno dell'uomo, Il mondo intero passa per la strada che va da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un'altra strada, nessuno può dirsi estraneo alle sorti del mondo. Ci salveremo tutti insieme, o salvezza non sarà. 
Un sacerdote scendeva per quella medesima strada. 
Il primo che passa è un prete, un uomo di Dio. Vede l'uomo a terra, lo aggira, passa oltre. Oltre la carne e il dolore dell'uomo non c'è Dio, non ci sono il tempio e il culto solenne, c'è solo l'illusione di poter amare Dio senza amare il prossimo, l'illusione di sentirci a posto perché credenti, il pericolo di una religiosità vuota. L'appuntamento con Dio è sulla strada di Gerico. Percorri l'uomo e arriverai a Dio (Sant'Agostino) 
Il secondo che passa è un levita... Forse pensa: Ma perché Dio non interviene lui a salvare quest'uomo? Dio interviene sempre, ma lo fa attraverso i suoi figli, attraverso di me. La sua risposta al dolore del mondo sono io, inviato come braccia aperte. 
Invece un Samaritano, un eretico, un nemico, mosso a pietà, gli si fa vicino. Sono termini di una carica infinita, bellissima, che grondano di luce, grondano di umanità. Non c'è umanità possibile senza la compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, il meno zuccheroso, il più concreto: prendere su di me il destino dell'altro. Non è spontaneo fermarsi. La compassione non è un istinto, ma una conquista. Come il perdono: non è un sentimento, ma una decisione. 
Il racconto di Luca adesso mette in fila dieci verbi per descrivere l'amore: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò... fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò... Questo è il nuovo decalogo, i nuovi dieci comandamenti, per tutti, perché l'uomo sia promosso a uomo, perché la terra sia abitata da "prossimi", non da avversari. 
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, un uomo fortunato. Perché l'esperienza di essere stato amato gratuitamente, anche una sola volta nella vita, riempie di senso per lungo tempo la vita, risana in profondità chi ha subito violenza e si è sentito calpestato nell'anima. 
Ma chi è il mio prossimo? Gesù risponde: tuo prossimo è chi ha avuto compassione di te. Allora ama il prossimo tuo, ama i tuoi samaritani, quelli che ti hanno salvato, rialzato, che hanno pagato per te. Impara l'amore dall'amore ricevuto. Diventa anche tu samaritano.

P. Ermes Ronchi


12/07/13

Quarantotto

Avere una vocazione nel suo significato originario vuol dire essere guidati da una voce. [...] La voce interiore è la voce di una vita più piena, di una coscienza ulteriore più ampia. Nella voce interiore, l'infimo e il sommo, l'eccelso e l'abietto, verità e menzogna spesso si mescolano imperscrutabilmente, aprendo in noi un abisso di confusione, di smarrimento e di disperazione. L'uomo che, tradendo la propria legge, non sviluppa la personalità, si è lasciato sfuggire il senso della propria vita.


Karl Gustav Jung

10/07/13

La globalizzazione dell'indifferenza - papa Francesco


Testo integrale dell'omelia di papa Francesco durante la visita a Lampedusa, lunedì 8 luglio 2013

Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali.
Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta, per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e di Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie! (…)
Un pensiero lo rivolgo a cari immigrati musulmani, che, oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali.
La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’ scià!

Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.

«Adamo dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio.
E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. 
E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versa il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci nemmeno di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare!
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è i responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno!
Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nel’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino!”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. 
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi, porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto.
«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? »
Chi di noi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le loro famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?

Signore, in questa liturgia, che è una liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta l’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore!
Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo, dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

papa Francesco 



07/07/13

Operai per la messe - XIV T.O.

Lc 10, 1-12. 17-20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano. 
Gesù insegna uno sguardo nuovo per muoverci nel mondo: la terra matura continuamente spighe di buonissimo grano. Insegna un modo nuovo di guardare l'umanità: la vede come un campo traboccante di un'abbondanza di frutti. Noi abbiamo sempre interpretato questo brano come un lamento sul tanto lavoro da fare e sulla scarsità di vocazioni sacerdotali o religiose. Ma Gesù dice qualcosa di molto più importante: il mondo è buono. C'è tanto bene sulla terra. Sa che il padre suo ha seminato bene nei cuori degli uomini: molti di essi vivono una vita buona, tanti cuori inquieti cercano solo un piccolo spiraglio per aprirsi verso la luce, tanti dolori solitari attendono una carezza per sbocciare alla fiducia. Gesù manda discepoli, ma non a lamentarsi, come facciamo noi, di un mondo lontano da Dio, ma ad annunciare un capovolgimento: il Regno di Dio si è fatto vicino, Dio è vicino, vicino alla tua casa... Mai è stato così vicino! 
Viviamo oggi un momento epocale di rinascita spirituale, di rinascita alla vita. Questo mondo che a noi sembra avviato verso la crisi, è un immenso laboratorio di idee nuove, progetti, esperienze di giustizia e pace, un altro mondo sta nascendo, e reca frutti di libertà, di consapevolezza, di salvaguardia del creato. Di tutto questo lui ha gettato il seme, nessuno lo potrà sradicare dalla terra. 
Manca però qualcosa, manca chi lavori al buono di oggi. Mancano operai del bello, mietitori del buono, contadini che sappiano far crescere i germogli di un mondo più giusto, di una mentalità più positiva, più umana. A questi lui dice: Andate: non portate borsa né sacca né sandali... Vi mando disarmati. Decisivi non sono i mezzi, decisive non sono le cose. I messaggeri vengono portando un pezzetto di Dio in sé. Se hanno un pezzetto di Vangelo dentro, lo emaneranno tutto attorno a loro, lo irradieranno: «se in noi non è pace, non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci). Per questo non hanno bisogno di cose. Non hanno nulla da dimostrare, mostrano Dio in sé. Come non ha nulla da dimostrare una donna incinta: ha un bambino in sé e questo basta. 
Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Non dice: vi mando allo sbaraglio, al martirio. C'è il mistero del male, ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Vi mando come presenza disarmata, a combattere la violenza, ad opporvi al male, non attraverso un 'di più' di forza, ma con un "di più" di bontà. La bontà non è soltanto la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso della vita (P. Ricoeur).

P. Ermes Ronchi


06/07/13

Quarantasette

Conosco due forme di solitudine. L'una mi fa sentire terribilmente infelice, perduta e quasi sospesa, l'altra mi rende forte e felice. 
La prima è sempre presente quando non mi sento in contatto con i miei simili, quando in genere non ho il benché minimo contatto con alcunché: allora sono completamente tagliata fuori da tutti e da me stessa e non avverto il mio posto in questa esistenza. 
Nell'altro tipo di solitudine mi sento invece forte e sicura, in contatto con tutti, con tutto e con Dio...

Etty Hillesum

04/07/13

Risposare in Dio - Edith Stein


Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale sospensione di ogni attività della mente, nel quale non si possono più tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui, consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al proprio destino.
Questo stato un poco io l'ho provato, in seguito a un'esperienza che, oltrepassando le mie forze, consumò totalmente le mie energie spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato all'arresto di attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è qualcosa di completamente nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della morte. Al suo posto subentra un senso di intima sicurezza, di liberazione da tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo all'agire. E mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia a colmarmi e - senza alcuna tensione della mia volontà - a spingermi verso nuove realizzazioni.
Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un'attività e da una forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa attiva in me. Il solo presupposto necessario a una tale rinascita spirituale sembra essere quella capacità passiva di accoglienza che si trova al fondo della struttura della persona.

Edith Stein


01/07/13

Quarantasei







La troverai la via...
se prima avrai il coraggio di perderti. 

Tiziano Terzani