24/02/13

Uomini di fede: Abramo (3) - G. Ravasi


O Signore mio, amato e crudele!

«Una quercia fulminata era il Vegliardo. / Volavano sulla fronte nubi / come a una vetta alta e nuda. / Ma legato il basto al giumento / tagliò con lucida calma la legna. / Indi, la mano del fanciullo / perduta nella sua grande mano, / prese l'ombra di lui / a ondeggiare sull'altopiano / ... / O Vecchio, com'era il volto del Dio? / forse un lenzuolo di sangue? / o una roccia nera, un cratere in fiamme? /... / O Signore mio, amato e crudele!»

Abbiamo citato solo l'avvio e l'ultimo verso della bella poesia, simile ad una ballata, che David M. Turoldo ha dedicato a uno dei più celebri, laceranti e affascinanti passi della Genesi e dell'intera Bibbia, il capitolo 22 del primo libro sacro. (...) Qual'è il vero segreto di questa pagina superba e scandalosa?
Per l'analisi strutturalista «il centro di gravità del racconto si trova nei versetti 6-8: la decisione di Abramo resisterà alle domande del figlio che, ingenuamente, tormenta il suo amore paterno? Abramo resta fermo e supera la tentazione... Ciò che Dio ha preparato è un sacrificio-al-posto-del-figlio ma che implichi da parte di Abramo la volontà stessa di sacrificare il figlio» (Rèmi Lack nelle sue Letture strutturaliste della Bibbia). Per l'analisi psicoanalitica come quella proposta da Henri Linard de Guertechin, in questo racconto si celebra il contrasto tra la paternità tirannica e la filiazione: Abramo è liberato dall'onnipotenza illusoria della falsa paternità attraverso la rinuncia a una filiazione.possesso, oscuro oggetto del desiderio. Obbedendo a Dio, Abramo ritorna anch'egli a essere figlio. (...)
Al di là della foresta delle libere interpretazioni o delle letture parziali, qual è il significato originale di questa pagina, potente nella sua sobrietà narrativa? (...) Siamo di fronte al tema della fede "nuda", che non ha altri appoggi se non nella Parola trascendente. Fede che conosce, però, il baratro dell'oscurità, che brancola alla ricerca di un senso, che si scontra col mistero. Fede ricondotta al suo stadio più puro: il terribile cammino silenzioso di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova divenuta il paradigma di ogni itinerario di fede. E' un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell'iniziale, implacabile comando: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco [si noti l'insistenza], e offrilo in olocausto» (Gn 22,2). Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del figlio che un'unica volta, con ingenuità straziante, intesse un dialogo marcato in profondità dal contrasto affettivo, segno della solidarietà umana sotto un cielo così indifferente e crudele: «Padre mio! ...Eccomi, figlio mio... Dov'è l'agnello per l'olocausto ... Dio stesso provvederà, figlio mio» (Gn 22,7-8) (...).
Sul monte Moria «Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco, lo depose sull'altare sopra la legna; poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (Gn 22, 9-10). Fin dove si arriverà? Si crea una tensione spasmodica che verrà squarciata e risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio, chiamando ancora il patriarca come in apertura: «Abramo, Abramo!». Solo lui poteva in quel in quel momento trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e disperata. La fede è ora ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e tragico, essendo priva di alcun appoggio umano, razionale e religioso. Eppure una logica c'è: come figlio carnale Isacco doveva morire perché Abramo rinunciasse anche al sostegno della sua paternità e non avesse neppure le ragioni della carne e del sangue per credere nella promessa, ma solo quelle della parola divina. Per questo Dio lo invita alla distruzione del legame umano paterno-filiale. Abramo, dopo la prova, riceve Isacco non più come figlio ma in quanto "promessa" divina, grazia pura e assoluta. Non per nulla il finale del racconto è riempito dalla promessa: «Io ti benedirò di ogni benedizione e renderò immensa la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul litorale marino...» (Gn 22,17).


Il seno tinto di nero.

Genesi 22 è, dunque, un testo esemplare e paradigmatico sulla fede come lotta e Abramo ne è l'archetipo (...). Lo scandalo del testo biblico è tutto nel fatto che Dio giunge al punto di contraddire oltre alla ragione la sua stessa promessa, creando una contraddizione interna al credere: non era, infatti, Isacco dono della promessa di Dio? Eliminarla non è forse smentire la stessa promessa? La fede, quindi, supera se stessa eppure, si è già visto, non approda all'assurdo ma a un dono e a uno stato superiore. (...)
Il figlio della carne e del sangue scompare idealmente sul Moria, Abramo deve rinunciare a lui; quello che, scendendo dal monte, lo accompagnerà non sarà più un semplice erede o un figlio di Sara, sia pure avuto in modo prodigioso, sarà invece un figlio-dono, sarà il vero figlio "promesso". Per riceverlo, però, il patriarca ha dovuto affondare il coltello nella sua paternità. Solo rinunciando a tutto, nel giorno tempestoso della prova, si ottiene tutto, come ripeterà anche Gesù introducendo la legge del perdere per trovare, del lasciare per ricevere (Lc 18,28-30). (...)
L'obbedienza della fede alla fine dona pace e rivela che dietro il volto apparentemente crudele di Dio si cela un progetto non di morte ma di vita e di grazia. La Lettera agli Ebrei, che svolge il tema in chiave cristologica, giungerà ad affermare che Abramo offrì suo figlio perché era certo «che Dio è capace di far risorgere anche dai morti e per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,19); una lezione di speranza nella risurrezione. Ma è più vicino al significato originario del testo biblico della Genesi Kierkegaard che spiega il volto di Dio celato oltre il cielo del monte Moria con questa bella immagine materna: «Quando il bambino dev'essere svezzato, la madre si tinge di nero il seno. Sarebbe crudele che il seno restasse desiderabile quando il bambino non deve più attaccarsi. Così il bambino crede che il seno si sia modificato. Ma la madre è la stessa, il suo sguardo è sempre pieno di tenerezza e di amore». La discendenza di Abramo proseguirà, dunque, con Isacco, il figlio gioioso della promessa. Ma la promessa conserverà intatto il suo valore enigmatico: dov'è mai la prole numerosa come le stelle e i grani della rena marina? La fede rimane inchiodata alla croce del rischio.


Gianfranco Ravasi

tratto da "Il racconto del cielo"  (pp. 70-76)