22/02/13

Uomini di fede: Abramo (1) - G. Ravasi

Un forno fumante nella notte.

«La visione si manifestò ad Abramo di notte, mentre egli gemeva e piangeva. Dominato dai suoi tristi pensieri, Abramo non poteva dormire; per questo si alzò a pregare e, mentre pregava in tale intima tempesta, Dio gli apparve e parlò familiarmente con lui, cosicché Abramo, pur essendo sveglio, fu rapito totalmente fuori di sé da quella visione».
Così Lutero, a pochi mesi dalla morte, commentava il capitolo 15 della Genesi, aperto da un Abramo profeta e veggente, ma amareggiato per il suo destino di morire senza figli e di avere per erede il suo maggiordomo, Eliezer di Damasco. Comincia in tal modo la via erta che il credente dovrà affrontare (scoprendola irta di ostacoli), sul cui cielo si stampa una promessa così retorica e improbabile: «Conta le stelle, se riesci a contarle: tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,6). (...)

Credere è un atto di fiducia, il verbo ebraico che lo indica, scivolato nel nostro amen, posto a sigillo delle preghiere, esprime lo «stare stabili», il «basarsi» su qualcuno o qualcosa, affidandosi completamente a una persona o a una realtà. Credere è, quindi, rischiare su una persona per molti versi misteriosa come Dio ed è per questo che la fede non può perdere del tutto il sapere della paura e del sospetto. Agli squarci luminosi subentrano le tenebre in un incessante contrappunto. (...) Nella sua opera "Dio esiste?" Hans Küng afferma che la fede «non garantisce un'assoluta sicurezza (...) Il riconoscimento fiducioso non è preceduto da una conoscenza razionale. La realtà nascosta di Dio non s'impone di prepotenza alla ragione». (...)
Comprendere e credere s'intrecciano ma non si identificano, pena la rispettiva morte.

Abramo, dopo l'illuminazione della promessa, è riportato a un'altra lezione sulla fede, "sceneggiata" ancora nel capitolo 15 della Genesi, che riflette un'arcaica tradizione.
Terrore e rivelazione s'incrociano sul fondale d'un tramonto che sconfina nella notte. Prima è chiesto al patriarca di compiere un rituale truculento di giuramento o di alleanza. Sulla polvere della steppa vengono disposti lungo due file alcuni animali squartati e sanguinolenti. E' un rito di automaledizione: gli stipulatori di un patto, passando in mezzo a quei lacerti di carne, si augurano la stessa sorte (lo squartamento) in caso di violazione del patto. (...) Intanto sul patriarca si stende un velo di sonno, ma anche di terrore: «Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abramo ed un oscuro terrore lo assalì». (Gn 15,12).
La teofania comporta per l'uomo il venir a contatto col tremendum del mistero e il sonno e la visione sono la rappresentazione simbolica della necessità di un diverso canale di conoscenza per ascoltare e dialogare con Dio. Ma «quando il sole tramontò e si fece buio fitto», ecco la sorpresa: «un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi» (Gn 15,17). Si sa che il fuoco è per eccellenza un segno del divino, che è inafferrabile, incontrollabile e vivo come il fuoco e quindi trascendente, ma capace di riscaldare e illuminare, e quindi vicino e immanente. E' dunque, sorprendentemente solo Dio, sotto l'emblema igneo del forno e della fiaccola, a transitare in mezzo agli animali squartati; Abramo assiste ma non entra in quel corridoio sanguinolento. L'alleanza-berît, di cui si parlerà spesso nella Bibbia, è un dono che nasce da un'iniziativa divina unilaterale e gratuita. All'uomo spetta unicamente accoglierla nella fede e rifiutarla nell'incredulità. Le ragioni del credere sono fondate in ultima istanza sulla fedeltà divina. La discendenza e la terra sono soltanto "promesse" che si ancorano al giuramento di Dio: «Alla tua discendenza / io do questa terra / dal fiume d'Egitto / al grande fiume, l'Eufrate» (Gn 15,18).
Si tratta di due orizzonti lontani verso i quali l'uomo si deve incamminare con un lungo e defatigante itinerario che raffigura la dialettica della fede, sempre sospesa alla promessa e al rischio. (...) Oscar Cullmann affermava che «credere significa fare umilmente astrazione da me stesso e contemplare la luce radiosa di un evento al quale non collaboro affatto». In realtà Abramo collabora: il rito degli animali è preparato da lui, l'azione umana è occasione per la rivelazione divina. L'atto di fede non è magia sacrale e l'uomo non è un automa mosso da un fato prevaricatore. (...) Questa visione prevalentemente "strumentale" dell'uomo è respinta dalla Bibbia, pur convinta che è solo il forno ardente simbolo del divino, che può passare tra gli animali squartati senza correre il rischio di trovarsi automaledetto. Deboli, sì, ma non oggetti. Fedeli, magari, ma non prevaricati.

Gianfranco Ravasi

tratto da "Il racconto del cielo" (pp. 65-67)