10/03/14

Dare senso all'insensatezza - Carlo Molari


Dare senso all'insensatezza
Nel cambiamento culturale che velocemento si sta realizzando da alcuni decenni (...) uno dei dati comuni a molte esperienze è la scoperta della insensatezza di situazioni storiche e personali al punto da dubitare del significato e del valore della vita intera. (...)
Molti riconscono che la prospettiva dinamica ed evolutiva, che caratterizza l'attuale cultura, produce sconcerto vitale, disorientamento storico, "disincanto", dato che i punti di riferimento per una direzione sensata al pensare e all'agire appaiono troppo labili e provvisori, quando non sono completamente assenti.
Anche in prospettiva atea il «disincanto fa paura perché costituisce la risposta alla millenaria domanda sul senso» (Flores d'Arcais, Etica senza fede 1992). (...)
L'uomo deve dare senso alla realtà, che non sempre lo contiene, ma il senso non lo può trovare nelle cose o nelle situazioni come il successo o la carriera o altro del genere e neppure nella pietà da esercitare, ma deve introdurlo in altro modo. La soluzione offerta dalle cose non è soddisfacente per chi ritiene che nella vita sia in gioco una realtà più grande di noi. Il problema dell'uomo, perciò, è questo: come introdure senso dove non c'è senso, o, detto altrimenti, quale fede esercitare e quale atteggiamento assumere per vivere in modo sensato le situazioni insensate.


Dare senso in prospettiva religiosa
Anche in prospettiva religiosa è necessario imparare a dare senso agli eventi, perché essi come tali non lo contengono. Neppure si può  affermare che il riferimento a Dio come ricompensa finale o come legislatore
provvidente dia senso all'esistenza. Il non senso sta all'interno delle situazioni ed è lì che deve essere sconfitto. Dentro le esperienze e le situazioni storiche deve essere introdotto un senso che non vi si trova.
Questo modo di impostare il problema contraddice una diffusa concezione di provvidenza. Come se per il credente tutto ciò che accade abbia un suo valore intrinseco, perché in un modo o in un altro corrisponde al volere divino. Questa concezione non è esatta. Non tutto ciò che accade sulla terra corrisponde al volere divino. Anzi, la maggior parte delle condizioni storiche sono certamente contrarie alla volontà di Dio, perché inquinate dal peccato e limitate dalla infedeltà agli uomini.
La volontà di Dio non si realizza negli eventi in quanto tali, ma nel modo con cui vengono vissuti. Stando così le cose l'uomo non compie la volontà di Dio semplicemente subendo ciò che accade, ma immettendovi un senso nuovo. Ci sono infatti molte situazioni della creazione e della storia che non corrispondono al volere divino, ma nelle quali ci è ugualmente richiesto di vivere in modo positivo, così da compiere la volontà di Dio.

In questo senso la croce di Cristo è evento emblematico. La decisione di condannare a morte Gesù sia da parte del Sinedrio che da parte di Pilato, era certamente contrario al volere di Dio, perché ingiusta e peccaminosa. Il discernimento di Gesù è consistito nel determinare come vivere quella situazione ingiusta e peccaminosa in modo da renderla positiva per sé e salvifica per gli altri. 
Discernere la volontà di Dio non consisite nel determinare quale scelta compiere fra le molte possibili, o nel decidere quale evento debba accadere, ma nel precisare con quali atteggiamenti vivere le situazioni nelle quali, per caso, necessità, per scelta nostra o di altri, ci veniamo a trovare.
Anche se le situazioni fossero contrarie al volere di Dio, come la croce lo fu per Gesù, e non potessimo sottrarcene, dovremmo interrogarci come vivere quella situazione in modo da compiere la volontà di Dio. Rendere salvifica una situazione significa viverla in modo da crescere come figli di Dio e fare in modo che le dinamiche negative che essa contiene vengano annullate, suscitando quindi al suo interno spinte favorevoli alla vita. (...)
Concretamente vivere tutte le situazioni in modo positivo significa saper riconoscere e accogliere la forza creatrice presente e aver la consapevolezza della funzione di servizio che ci chiede. Il presupposto teologico di questa consapevolezza è il fatto che la forza creatrice di Dio e il suo amore, che si esprimono nel mondo, non possono essere annullati da nessuna deformazione delle creature. L'azione di Dio si esercita a quel livello profondo della persona nel quale si verifica lo sviluppo dell'identità definitiva e che, a un certo momento della maturità personale, nessuno può più invadere.
Per questo l'uomo è in grado di affrontare e vivere tutte le esperienze storiche con la consapevolezza che prorpio lì, all'interno di quella situazione, la forza creatrice gli perviene. Non perché Dio l'abbia scelta per metterci alla prova, o per vedere se siamo fedeli anche in condizioni difficili, dato che sono le creature per la loro incompiutezza, ad introdurre il male nei processi storici. Ma l'azione delle creature come l'ingiustizia degli uomini non può mai essere così radicale da annullare la forza creatrice, che resta al fondo di ogni processo storico e che, quando abbiamo coltivato lo sguardo di fede e aperto l'occhio interiore, siamo in grado di percepire e di accogliere.
Vivendo in tale modo, ci è dato di crescere come figli di Dio e di raggiungere la nostra identità definitiva. Il passaggio da servi a figli è proprio il processo della nostra identificazione definitiva. Questa è la ragione finale della vita. Se invece noi mettiamo il senso compiuto nella dimensione in cui realizziamo le cose, attuiamo dei progetti, ne scopriamo immancabilmente l'inutilità e l'insensatezza.
La prima condizione, quindi, per annullare la dinamica negativa che le situazioni contengono è viverle in modo da crescere come figli di Dio, accogliendo l'offerta di vita che esse in ogni caso contengono.(...)
L'identità di figli di Dio, infatti, non si sviluppa nella stessa direzione nella quale siamo chiamati ad esercitare il servizio alla vita. Esercitiamo il servizio alla vita facendo cose, realizzando progetti, aiutando gli altri con azioni provvisorie e precarie. La direzione del servizio è la morte nella quale la nostra azione va verso l'esaurimento, mentre la dimensione nella quale cresciamo come figli si sviluppa continuamente e acquista caratteristiche sempre più positive man mano che procediamo. Mentre l'esistenza nella direzione operativa perde senso, diventando inutile, nella direzione spirituale, invece, si arricchisce e acquista senso. Alla fine non possiamo far nulla, ma possiamo essere tutto quello che dovevamo diventare: persone in grado di accogliere «il nome scritto nei cieli» (Lc 10,20). Abbiamo cioè raggiunto la nostra identità definitiva.
Quando non accettiamo questa nostra condizione o non la viviamo con consapevolezza, non riusciamo ad affrontare bene, non solo la sofferenza, il limite, la vecchiaia, ma neppure i momenti positivi perché non siamo in armonia con le profonde dinamiche dell'esistenza. L'esistenza ci appare insulsa.
Questa è la situazione nella quale molti si trovano. Oggi è facilesperimentare l'insensatezza finale in tempi molto brevi. Abbiamo infatti una grande quantità di beni a disposizione, i piaceri sono a portata di mano, il benessere offre continue illusioni. Per questo oggi molti giovani sono già stanchi di vivere e colgono l'insensatezza di tante scelte che pure sono chiamati a compiere. 
L'esperienza dell'insensatezza diventa drammatica e fatale. Quando però si sviluppa la dimensione spirituale anche le situazioni insensate sono affrontate in modo sensato perché, come scrive S. Paolo, nessuno «ci può separare dall'amore di Dio» (Rm 8,39); nessuno, cioè, può impedire di accogliere quella forza creatrice per cui cresciamo come persone definitive.

Carlo Molari
tratto da «Per una spiritualità adulta»