19/09/13

La parrocchia e l'iniziazione cristiana - E. Bianchi


Intervista di Marco Guzzi ad Enzo Bianchi,  priore della Comunità monastica di Bose.

tratto da:   

"Ricominciare nell’anima, nella Chiesa, nel mondo"

La parrocchia: una comunità di estranei?

D: Nel tuo libro Il mantello di Elia scrivi: «Indubbiamente oggi è difficile discernere il dono della vita fraterna, perché viviamo in un tempo poco felice, in mezzo ad una generazione perversa e malvagia, che del termine “comunità” ha fatto uno scempio, svuotandolo di senso e annullandolo a forza di parlarne».
In che senso parli della nostra come di una generazione particolarmente perversa e malvagia, e in che senso ritieni che staremmo perdendo il significato più profondo e più vivo della parola “comunità”?

R: Quando parlo di generazione perversa e malvagia mi riferisco direttamente alle parole di Gesù, che connotava la sua generazione come perversa e malvagia, perché di fronte alla predicazione ascetica del Battista aveva risposto con un rifiuto, e di fronte alla predicazione di Gesù, condotta nella compagnia con gli uomini, ha risposto che lui era un mangione e un beone. Si tratta dunque di una generazione che pur di non ascoltare la verità svuota, contesta, consuma i messaggi che le vengono rivolti. Ma è pur vero che ogni generazione, di fronte alla verità, è definita perversa e malvagia dalle Scritture.
La parola comunità implica essenzialmente la comunione, la koinonìa, eppure è stata applicata in questi anni con una banalità tale da arrivare a essere svuotata completamente di senso, e la responsabilità è soprattutto dei cristiani. Ci sono dei giorni in cui sono tentato di cambiare il nome di “Comunità di Bose” con quello di “Monastero di Bose”. Poi mi suona un po’strano il nome “monastero”, perché significherebbe entrare in quell’ottica dell’esenzione rispetto alla chiesa, alla società e agli uomini, che non mi appartiene. E allora me lo impedisco.
Però in realtà la parola “comunità” che cosa richiama ormai alla mente della gente? Richiama i centri di servizio per gli emarginati, e in primo luogo per i tossicodipendenti. Ormai per la gente è questo una comunità. Ma penso all’uso che se ne è fatto in questi anni, in cui perfino un gruppetto di ragazzi doveva fare comunità, senza averne le possibilità reali, perché una comunità la possono creare soltanto uomini responsabili e soggetti a pieno titolo di rapporti, anche di rapporti economici. Questo abuso ha svuotato la tensione a riproporre la chiesa come comunità autentica, quella descritta negli Atti degli Apostoli, per i quali la comunità è koinonìa fraterna, è condivisione della vita, dei beni, delle speranze, delle angosce e dei drammi che informano la storia degli uomini. Condizione che si esprime nell’unanimità e nell’eucarestia, dove si forgia il corpo di Cristo.

D: Ti ponevo questa domanda proprio per iniziare una riflessione sulla crisi delle parrocchie. Tutte le parrocchie, appunto, si dicono comunità, e poi si scopre il più delle volte che non ci si conosce nemmeno per nome. Péguy riteneva che l’inizio di una rinascita del cristianesimo dovesse prendere le mosse da una rifondazione delle parrocchie, che effettivamente spesso manifestano una certa desolazione, un’incapacità di entusiasmo creativo e quindi di attrazione della gente. Viene da chiedersi che cosa abbia da dare al mondo, agli uomini che asfissiano nel mondo, questa chiesa che si incarna in forme che, più di tutte le altre, soffrono di capacità di respirazione, di mancanza di creatività, di credibilità, di forza auto generativa. Come è possibile, secondo te, ritrovare una sorgente di fuoco reale?

R: Oggi è molto difficile: purtroppo le parrocchie sono più luoghi di servizi offerti che non luoghi di epifania della koinonìa dei cristiani. Gli stessi cristiani che a volte si lamentano della mancanza di vita comunitaria sono poi poco disponibili a fare della domenica il luogo del loro incontro attorno alla tavola della Parola e dell’Eucarestia, perché si disperdono anziché radunarsi: il week-end li porta al mare, in montagna. Ma senza osservanza del giorno del Signore è possibile una vita ecclesiale? (…) Siccome la parrocchia non risponde più ad alcuni bisogni essenziali della vita cristiana, allora emergono i movimenti ecclesiali. E io, pur essendo molto critico nei confronti dei movimenti devo pur dire che essi assolvono a dei compiti che spetterebbero alla parrocchia, ma che questa non è più in grado di adempiere.
Che cosa dovrebbe essere la parrocchia? Innanzitutto una comunità di fede, in cui cioè la fede dev’essere celebrata insieme attorno all’eucarestia, e dev’essere anche vissuta insieme. La parrocchia dovrebbe essere il luogo in cui si accoglie la Parola di Dio, in cui la gente si sente convocata dalla Parola di Dio. Ma spesso la Parola di Dio non trova luogo, una centralità, nella parrocchia, ed ecco che allora sorgono movimenti che proprio attorno alla Parola di Dio riescono a raggruppare uomini e donne, sottraendoli alla parrocchia.
La parrocchia dovrebbe poi essere il luogo della vita fraterna, del riconoscimento degli uni nei confronti degli altri, della compaginazione dei doni e dei ministeri, il luogo dove è vissuta la carità fraterna. Ma se la parrocchia non riesce a essere questo, ecco allora sorgere dei movimenti che garantiscono la dimensione dell’affetto fraterno e del riconoscimento. 
La parrocchia dovrebbe essere un luogo di preghiera, ma se essa continua a offrire ai cristiani soltanto la messa, ecco allora i carismatici, che con la libertà e la creatività che sanno dare alla preghiera di invocazione, di ringraziamento, di gioia e di pianto, nuovamente tolgono forze alla parrocchia.
C’è poi il senso dell’appartenenza. La parrocchia dovrebbe essere il luogo in cui il cristiano sente la sua appartenenza alla chiesa; ma nell’anonimato attuale, in una parrocchia come quelle attuali che funzionano soltanto come datrici di servizi, ogni senso di appartenenza si affievolisce, per cui emerge addirittura l’ipotesi settaria. (…)

D: Ma il problema è che bisognerebbe interrompere il circolo vizioso della routine ormai paralizzata nei suoi schemi logori. Sarebbe necessario un momento di frattura, di ripensamento globale, di giudizio anche su tutto ciò che continuiamo a tenere in piedi e che non ha più alcun senso né evolutivo né tanto meno di conversione…

R: Certamente. Occorrerebbe innanzitutto prendere sul serio la chiesa locali, la chiesa che si raccoglie intorno all’eucarestia su un certo territorio. Bisogna intanto richiamare i cristiani al senso della domenica, affinché non si sottraggano ma vivano senza evasioni quello che è il momento centrale e irrinunciabile di incontro e riconoscimento reciproco nella fede. Il vivere concretamente l’eucarestia domenicale non può essere considerato, cosa che avviene anche da parte di molti cristiani che si vogliono coscienti e aperti, come un elemento marginale e alla fin fine trascurabile del vissuto cristiano, perché sul problema della santificazione del giorno del Signore è in gioco la sopravvivenza stessa della fede, che altrimenti si trova svuotata ad adesione gnostica, ad assenso intellettuale.
Occorrerebbe inoltre un’autentica attuazione della riforma liturgica avviata dal Vaticano II, affinché l’assemblea diventi veramente il soggetto liturgico (…).
Occorrerebbe poi che la carità, la carità con la “C” maiuscola, l’agape, non si risolvesse solo in un’organizzazione burocratica della carità con la “c” minuscola, ma che desse vita a una comunità capace di leggere e interpretare i bisogni dei poveri, degli emarginati e quindi andasse loro incontro realmente tramite l’incontro di volti, attraverso dei veri rapporti umani.
La carità cristiana non è solo filantropia.

Ritrovare una parola che infiammi.

(…)  Occorre ripristinare questo primato della fede nella vita dei credenti, e che a questo primato della fede corrisponda un’autentica esperienza spirituale del fatto cristiano, una vita spirituale autentica e profonda. (…) Si deve fare uno sforzo affinché la qualità della vita dei cristiani sia una qualità adeguata alla crescita spirituale in cui sono iniziati, una qualità adeguata al messaggio evangelico. Altrimenti avremo sempre dei cristiani che ascoltano passivamente, una chiesa discente, come si diceva una volta, che resta però immatura, scolorita e incapace di rendere conto della speranza che è in lei, e di pronunciare una parola che in qualche misura sia anche profetica, che abbia peso, autorevolezza, che possa davvero essere una chiamata per gli altri, un appello, e che veicoli il messaggio evangelico.

D: Io ho poi l’impressione che la chiesa utilizzi spesso un linguaggio troppo ragionevole, ovvio, già sentito. Ma questa ragionevolezza non è già al potere di ogni dimensione, non è già acquisita e accettata quasi universalmente in questo mondo da politici, sindacalisti, intellettuali e giornalisti di ogni colore? E allora, se la chiesa si presenta agli uomini con questi argomenti, con queste parole e, solo o preminemente con questi accenti in buona parte ereditati dalla tradizione politica e sociale del moderno, come può pretendere di incarnare sulla terra qualcosa di nuovo e di inaudito? (…)

R: E’ la grande tentazione della chiesa presente in ogni tempo e già segnalata nel Nuovo Testamento. Tu parli di “ragionevolezza”, ma si potrebbe parlare anche di discorsi che vorrebbero aderire alla mentalità della gente del mondo. Ma noi dobbiamo ricordare il messaggio di Paolo, per cui sussiste una sophìa umana dinanzi alla quale la sapienza di Dio è stoltezza e follia. La fede cristiana ha questa possibilità di mostrarsi agli uomini come follia, come parola della croce, come scandalo. Se le togliamo questa forza, noi la annacquiamo, la depauperiamo, la svuotiamo, la riduciamo a un discorso intorno ai valori, tra i tanti discorsi che fanno gli uomini intorno ai valori.
Oggi d’altronde la situazione è ancora più drammatica di quanto tu non indichi, perché non si tratta più solo di un limite linguistico o di dialogo col mondo, ma è lo stesso atteggiamento pratico dei cristiani che rischia di vanificare ogni annuncio. Qual è oggi la pastorale dominante? E’ quella che porta i nomi del volontariato, dell’impegno, dell’attivismo, in cui cioè un cristiano passa praticamente il suo tempo di vita ecclesiale solo in opere filantropiche, impegnato nell’organizzazione della carità. Tutto questo trasforma la chiesa in un’istituzione filantropica tra le altre, in un’istituzione che non è più in grado di pronunciare quella parola di salvezza per la quale sussiste e solo attraverso la quale deve essere coordinata al mondo. 
Gli uomini sono tutti da amare, per la chiesa, per noi cristiani, ma amare gli uomini non può significare accettazione acritica della mondanità né conversione al mondo piegandosi semplicemente ai desideri che esso esprime. (…)
In una situazione di non persecuzione, anzi di buona accoglienza della chiesa nella società, non ci accorgiamo, come scriveva Ilario di Poitiers nel IV secolo che in realtà c’è «un persecutore molto più insidioso, che lusinga, che non colpisce alla schiena ma accarezza il ventre, non ci confisca i beni ma anzi ci finanzia per darci la morte, non ci spinge alla libertà imprigionandoci ma verso la schiavitù onorandoci nel palazzo, non ci flagella i fianchi ma ci prende il cuore, non ci taglia la testa con la spada ma ci uccide l’anima con il denaro…».

Sperimentare Cristo che vive in me.

D: Credo che molti giovani si allontanino, sfuggano a queste strutture parrocchiali, che poi vorrebbero mostrarsi come create appositamente per i giovani, proprio perché non vi incontrano la parola che può davvero cambiare e orientare tutta la nostra vita. Queste parrocchie sembrano troppe volte dei dopo scuola, e forse come tali svolgono anche una preziosa funzione, ma solo fino alla maturità, allorquando, intorno ai 18 anni, i ragazzi entrano nella vita seria e quindi lasciano la parrocchia (…)
Come avviare dunque un approccio più profondo alla spiritualità, che è poi ciò che tante persone vanno a cercare in Oriente? (…)

R: Il grande problema è quello della gnosi cristiana.
Non dobbiamo mai dimenticare che il cuore del cristianesimo è certamente una persona, Gesù Cristo; ma proprio perché è una persona storicamente vissuta, noi lo conosciamo solo attraverso le Scritture. Non sussiste un’altra via per conoscere Cristo. (…)
C’è in noi questo amore del Signore, che significa contemporaneamente conoscenza del Signore e adesione al Signore, oppure non c’è? La pastorale, la predicazione, la catechesi, hanno questo riferimento si o no? Io temo che sovente non si trovi questo riferimento in tutta la sua necessaria centralità. Si insegnano piuttosto dei valori, si insegnano delle vie etiche, ma non questo amore-fede-conoscenza-adesione al Signore.
Ora è chiaro che un giovane, che percepisce la chiesa come un’istituzione che detiene valori e che sovente finisce con i suoi precetti e divieti per sembrare un vigile urbano, a 18 anni, o anche prima, a12, 14, se ne andrà, lascerà la Chiesa, perché non ha per nulla conosciuto il Cristo. Il giovane crede e dice di aver lasciato la chiesa, ma in verità ha lasciato la vita parrocchiale, la frequentazione dei preti, del parroco. Lui nemmeno si sogna di aver lasciato Cristo, perché questo Cristo non lo ha mai conosciuto. Nessuno gli ha mai richiesto l’esperienza di fede, di amore e di conoscenza effettiva di Cristo. Nessuno gliel’ha mai insegnata.
Questo è uno dei nodi fondamentali della crisi attuale del cristianesimo.
Mi ha sempre impressionato un detto di un padre della chiesa del IV secolo, che parlando ai preti li interrogava: «Voi vi chiedete come mai i giovani crescendo si allontanino dalla chiesa? Ma è naturale: è come nella caccia alla volpe, dove i cani che non l’hanno mai vista, prima o poi si stancano, rinunciano, e tornano a casa; mentre quei pochi che hanno visto la volpe proseguiranno la loro caccia fino in fondo».