08/06/13

La vedova di Nain - X T.O.

Lc 7, 11-17

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicnò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare.  Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi» e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta a Giudea e in tutta la regione circostante.

Questo testo così semplice è bello e pieno di particolari.

Gesù entra in una città. Nel nome di questa città (Nain) ci sta un significato di gioia, di bellezza di delizia. 
Lui vi arriva col suo seguito di discepoli e di persone che lo seguono, e incontra un altro corteo; è l'incontro di due cortei che sono vicini alla porta della città. La città umana, che è il corteo di questa cittadina che è Nain, incontra il corteo trionfale di Cristo. La porta è la via di uscita della città: per questa porta si esce da questo mondo. Alla porta della città c'è infatti un morto, un figlio unico di madre vedova: una donna che non ha più lo sposo e ora piange il suo unico figlio. E' una scena straziante. 
In questa immagine c'è un riecheggiare quella che è la storia dell'umanità, che fa il suo tragitto e deve arrivare prima o poi alla porta: l'uomo cammina verso la porta che è la morte. E ha una madre: ha un mondo che lo ha generato; è la storia dell'umanità che genera figli che muoiono. Noi generiamo opere, persone, relazioni che presto o tardi moriranno. C'è il pianto dell'umanità in questa madre, che genera una vita destinata a morire.  In fondo ogni bimbo che nasce, nasce annunziando anche un dolore: ogni vita che diamo su questa terra è una vita breve, che non è eterna. Le nostre opere sono cose che generiamo e hanno sempre la corruzione giù innestata nel proprio sistema.
Questo pianto è il cammino dell'uomo. In fondo, tutto quello che può fare l'umanità è accompagnarci alla morte, andare piano piano verso la fine delle cose, verso il termine dei momenti belli, il tramonto delle cose gioiose.

Ecco, in questa pagina del Vangelo c'è l'incontro di questi due cortei: c'è il corteo dell'umanità, un corteo verso il pianto, verso il sepolcro... e un altro corteo, gioioso e allegro: è il corteo che vuole toccare l'altro corteo, una folla che vuole toccare un'altra folla. Sono i cristiani, che incontrano gli uomini e hanno qualcosa  da dire.
Innanzitutto è un corteo con un cuore: il Signore Gesù ha un cuore compassionevole. 
Il problema qui non è sopravvivere ma amare, prendersi a cuore il dolore dell'altro. E' interessante il termine usato per descrivere questa misericordia, questa compassione di Gesù nel vedere il corteo funebre: vi è un movimento delle viscere, le cose "più interne" di Gesù si muovono; perché questo è ciò che sta succedendo dalle viscere di Dio. Dalle viscere di Dio, l'umanità in cui Cristo si è incarnato, ha preso la forma d'uomo, ha un amore, una pulsione, una compassione a riguardo dei tristi casi dell'uomo. E ha da dire qualcosa, a questa umanità che si prepara sempre, comunque, ad un funerale: non piangere! 
Infatti, molto della cultura dell'uomo, molto di ciò che l'uomo fa in questa vita è "affrontare questo pianto", questo lutto, questa tristezza che nell'uomo resta.  Tutta la meccanica del divertimento, dell'alienazione, dell'inebriarsi, del costruire... è un modo di poter placare quel pianto. La tristezza dell'uomo produce opere, sistemi, cose da fare... perché uno deve sfuggire a questa tristezza. Certamente, alla fin fine tutto sparirà e tutto si perderà: l'amara profezia del libro del Qoelet esplicita ciò che c'è nel cuore dell'uomo: tutto è vano, tutto si perde...
Gesù dice: non piangere!

Bisogna staccarsi da questo lutto. La prima cosa di cui dobbiamo prendere consapevolezza è che noi non sappiamo tutto della nostra vita, non sappiamo veramente quello che ci sta succedendo: noi crediamo di sapere che tutto quello che è il nostro percorso e che va verso il sepolcro. 
No: c'è un'iniziativa di Dio. 
C'è però da non restare lì, incapsulati, incistati nella necessità di piangere questa tristezza: non sai tutto, non è vero che è certo quello che tu reputi essere una disgrazia. C'è anche qualche cosa che è iniziativa di Dio e che è sorprendente.
Gesù si avvicina e tocca la bara, «mentre i portatori si fermarono». Infatti la legge diceva che non si poteva toccare un morto,  c'erano gli uomini deputati a fare questo: anche secondo la Scrittura, chi è santo non può toccare la morte.  E invece adesso il Santo tocca la morte. Lui che accetterà la morte per trasformarla in una storia diversa, tocca la bara, si avvicina per avere un contatto. La vita tocca la morte. 
Questa è la sorpresa! Non è un'iniziativa che può prendere la morte: solo la vita può muoversi, prendere iniziativa. E dobbiamo ricordarcelo, questo: non sarà mai per mezzo di una nostra iniziativa che risolveremo il più grande dei nostri problemi: dovremo lasciarci inondare dalla compassione di Cristo. Lui ci tocca, putridi come siamo, arrivati alla fine, profondamente inutili e impotenti.
Egli tocca la bara e poi parla al defunto: «Ragazzo dico a te, alzati!».  Per la Parola di Dio può cambiare la nostra condizione. Qualcosa che ci dice chi siamo: qui è un ragazzo, e la giovinezza porta in sé forza, energia. Ecco, per la Parola di Gesù questa energia viene evocata.
Chi siamo noi? Noi crediamo di aver capito chi siamo e ci siamo dimenticati che c'è un progetto di Dio su di noi. Noi ci "leggiamo" in maniera sballata, fuori mira, ma non ci ricordiamo più di essere in fondo tutti dei ragazzi, piccoli bimbi di Dio, a cui Dio vuole parlare. Noi, che pretendiamo tanto da noi stessi e tutto quello che sappiamo produrre è qualche cosa che poi si perde, ci dimentichiamo di essere tutti dei piccoli davanti a Dio, chiamati ad essere dei bambini.  Non essere solamente dei bimbi di questa madre impotente e piangente, ma diventare figli del Padre della Vita, diventare fratelli del Signore Gesù Cristo che ci dice: "alzati!".  Quante volte c'è uno spirito di pianto, prono, sgonfio, dentro di noi!
Questa Parola viene a dirci: che cosa vede in te Dio? Per Dio sei sempre uno che può ricominciare, sei sempre un ragazzo! C'è un testo della liturgia che parla della «rinnovata giovinezza dello Spirito»: è un'orazione che si recita nel tempo pasquale. Che significa? Che quando arriva il Signore, tutti ripartiamo da zero; quando arriva il Signore non è vero che l'ultima parola è stata detta: l'ultima parola la dice l'Unico che è l'omega. L'alfa e l'omega è il Signore Gesù, e arriva e dice: ragazzo, alzati! Dico a te, parlo proprio con te!  Non è una parola astratta, non è una filosofia: è una relazione

E «il morto si mise seduto e cominciò a parlare».
E il ragazzo sia alza e si mette seduto. C'è una progressione: non si pretende che questo subito balzi in piedi e si metta a correre... Una cosa per volta: il Signore Dio ha pazienza, aspetta...
 E poi parla: risponde ad una relazione.
«Ed egli lo restituì a sua madre».
Ecco l'esperienza della Chiesa: di essere vestita di povertà umana, ma di vedersi consegnare figli fatti nuovi, resettati, messi nelle condizioni di ripartire, di rinascere. E di averli accanto a sé.
Il Signore ci conceda, attraverso questo Vangelo, di poter contemplare la potenza di Dio, che se parla con noi torniamo tutti giovani.


don Fabio Rosini