Giacobbe e Dio.
Proprio quando ormai Giacobbe si era stabilizzato nella terra di suo zio Làbano, il Signore gli ordina di partire e tornare nella terra della promessa.
Giacobbe obbedisce, prende con sé le mogli, i figli, tutto il suo clan, i beni e parte. Ma è mangiato dalla paura: sta tornando per ordine di Dio, ma ha la coscienza sporca per gli inganni che aveva teso al fratello Esaù portandogli via la primogenitura e ha paura della sua vendetta. Quindi cerca degli stratagemmi in modo da rendere Esaù ben disposto nei suoi confronti, prima del suo arrivo. Manda avanti prima gli ambasciatori, e poi inizia ad inviare dei doni al fratello al fine di placarne le ire, prima di incontrarlo.
Poi Giacobbe, con moglie e figli, scende attraverso lo Jabbòk che è un affluente del fiume Giordano; era quella la strada dei Patriarchi, attraverso cui lo stesso Abramo era passato. E’ una parte molto selvaggia, in cui è difficile camminare, ma anche Giacobbe passa attraverso questa strada per tornare a quella che dovrebbe essere la Terra promessa. Passa lo Jabbòk, ed entra nella “Terra del Santo”.
Ma qui, durante la notte deve sostenere una lotta: non si arriva alla “Terra del Santo” impunemente.
«Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Questi gli disse: “Lasciami andare perché è spuntata l’aurora” Giacobbe rispose: “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto”. Gli domandò: “Come ti chiami?” Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto” Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome!” Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?” E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl perché disse: “Davvero ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva” Spuntava il sole quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca». (Gn 32, 25-32)
E’ un testo un po’ misterioso, però molto denso di spiritualità, sul quale si potrebbero dire molte cose. Dietro a questa immagine scorgiamo sicuramente dei riferimenti mitologici che vengono utilizzati dalla Sacra Scrittura per manifestare altri significati.
Secondo la mitologia, infatti, i fiumi erano sempre sotto la custodia di un dio; anche qui, al guado dello Jabbòk c’è “un dio” che attende Giacobbe: il Signore Dio di Israele.
E il significato di questa lotta di Giacobbe con l’uomo misterioso, non è altro che il simbolo di una necessaria purificazione che Giacobbe dovrà sostenere prima di rientrare nella Terra della promessa. Quello di Giacobbe è infatti un “ri-torno”, e quindi il ri-torno richiede una purificazione, una conversione.
E questa purificazione è sempre, in sostanza, una “lotta con Dio”. Infatti dice la Genesi: «Allora Giacobbe chiamò quel luogo Panuèl perché disse: “Davvero ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”».
Ma è la lotta che sostiene “l’amico di Dio”. Dio non lotta con un ateo; Dio non può lottare con l’empio: Dio lotta con l’amico, perché è attraverso questa lotta che lo purifica.
Fondamentalmente tutta la vita di Giacobbe è la vita di un uomo che lotta con il Signore, ma che lotta con amicizia, con affetto… E in cosa consiste questa lotta, questa purificazione, che il Signore richiede a Giacobbe prima di entrare nella Terra della promessa? La lotta di Giacobbe è la stessa lotta del popolo di Israele; è la stessa lotta di ogni uomo di fede, di ciascuno di noi. E’ la lotta di chi vorrebbe tirare Dio dalla sua parte, vorrebbe “possederlo”.
Dio dice ad Israele «Tu sei il mio popolo, io sarò con Te», ovvero “Tu mi appartieni” e il popolo lo gira in un “Tu stai con me”, “Ti tengo nelle mani”. Ecco la tentazione e l’ambiguità fondamentale del popolo di Dio: “Dio è con noi e quindi quello che facciamo noi è tutto fatto bene!”
Anche il profeta Geremia esploderà con questo lamento: “Inutile che diciate tempio di Dio!” che significa proprio il fatto che il popolo di Israele pensava di avere Dio “nelle mani”: custodito, nel tempio, come una cosa “di sua proprietà”. E’ la tentazione di voler manipolare Dio, di volerlo strumentalizzare. Ed è proprio da questa ambiguità che Dio vuole purificare il suo popolo. Dio non si lascia manipolare da nessuno, non si lascia strumentalizzare.
Ed è un po’ quello che facciamo anche noi; lo vediamo anche nelle nostre preghiere: non vogliamo stare dalla parte di Dio, ma piuttosto pretendiamo che Dio stia dalla parte nostra: “Io sono tuo amico, vado in chiesa, appartengo al gruppo tal dei tali e quindi le cose che faccio io devono andar bene. Io sono tuo amico e quindi le disgrazie non le devo avere. Io sono tuo amico e quindi sono garantito da tutto”. Il Signore non ci sta a questo.
Siamo noi che dobbiamo stare dalla parte di Dio, non il contrario. Siamo noi che dobbiamo fare la volontà del Signore e non pretendere che il Signore faccia la nostra volontà. Ecco la continua lotta.
E dove sta il tentativo di strumentalizzazione di Giacobbe? In quel suo trovare degli aggiustamenti, degli stratagemmi, prima per avere la primogenitura e quindi diventare erede della promessa e poi per placare le ire del fratello Esaù. E in quegli stratagemmi, che sono “aggiustamenti umani”, pensare che ci sia l’aiuto di Dio. Dio non ci sta: lo afferra e lotta con lui per purificarlo e il frutto di questa lotta sarà, il giorno dopo la riconciliazione con Esaù, ma non certo per il piano che ha predisposto Giacobbe. Infatti, la Genesi ci narra che, nell’incontro col fratello, Esaù meravigliandosi di tutti quei doni, li rifiuta «Esaù disse: “Ho beni in abbondanza, fratello mio, resti per te quello che è tuo!”» Piangono e si abbracciano.
Quindi Giacobbe deve lottare per superare l’ambiguità fondamentale di possedere Dio; e dopo la lotta con Dio, dopo la purificazione, quando fa giorno, ogni paura svanisce: tutte quelle cose che Giacobbe temeva si risolvono, poi, in realtà, in niente.
E allora possiamo leggere questo episodio come la conversione di Giacobbe. Come Abramo, che cerca di aggiustare la promessa di Dio, attraverso le sue strade - cercando di far nascere il figlio della promessa dalla sua schiava - , anche Giacobbe non è stato da meno, attraverso imbrogli e ambiguità. E ritornando alla “Terra del Santo” deve essere purificato, e in questa lotta deve essere “impoverito”, svuotato. E infatti la prima cosa di cui sarà impoverito sarà il suo nome: Giacobbe non si chiamerà più così, ma Israele, che significa “la forza di Dio” tradotto dal passo della Scrittura come «hai combattuto con Dio».
Giacobbe deve poi capire anche che essere depositario della promessa, essere l’uomo scelto da Dio non comporta dei privilegi, che lui non ha la terra come una preda ma che ce l’ha anche a nome del fratello, perché anche Esaù deve vivere nella stessa terra. Giacobbe allora sperimenta che non è con Esaù che se la deve vedere, ma con Dio. La terra è “del Santo” e non è controllabile con le furbizie che lui ha utilizzato per portar via la primogenitura al fratello. La Terra di Dio non sarà la sua terra, ma la deve condividere.
E vediamo che quando Giacobbe arriverà finalmente nella terra promessa porterà il suo popolo a purificarsi, chiedendo di lasciare gli idoli, perché nella terra di Dio non ci possono essere altri idoli: unico Dio è il Signore.
Allora ecco la lotta: una lotta che potremmo definire una lotta di amore tra Dio e Giacobbe. Giacobbe che vuole impadronirsi di Dio e Dio che non sta al gioco. Dio mi controlla, ma io non posso controllare Dio. Lui mi da una missione, ma io non posso ridurre Dio alla missione che mi dà. Lui mi da un nome, ma io non posso chiedere il Suo Nome: io ne sostengo la presenza, che però è il peso nel quale io poi resto slogato.
Tant’è che al termine di questa lotta Giacobbe chiede all’uomo misterioso di rivelargli il Suo nome, ma Dio il nome non glielo darà. Dio non rivela mai il Suo nome, perché nella Sacra Scrittura, svelare il proprio nome significa sottomettersi all’altro, mettersi nelle sue mani.
Ed è quasi paradossale questo Dio che chiama Giacobbe, gli dice di tornare nella terra promessa e poi lo aspetta al guado, per lottare con lui! Ma chi è questo Dio che tratta così gli amici?
Questo ci dice una cosa molto importante: il Dio di Abramo, il Dio di Giacobbe… non è il dio dei filosofi, come dice Pascal. Non è il dio della ideologia. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe è un dio diverso: è il tutt’altro. E non lo possiamo fare entrare nei nostri schemi. E’ la cosa più errata che ci possa essere: pensare di ricondurre Dio ai nostri schemi. Dio ci sfugge nella sua essenza perché procede secondo un’altra logica: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie». (Is 55,8)
La vita spirituale come lotta.
Allora è chiaro che questa lotta di Giacobbe è un po’ l’emblema della vita spirituale. La vicenda spirituale dell’uomo che è chiamato all’incontro col vero Dio, perché è che per primo Dio che l’ha chiamato; non è l’uomo che cerca Dio, ma è l’uomo che viene afferrato da Dio! E c’è tutta la sproporzione, naturalmente, tra Dio e l’uomo: l’uomo che sostiene questo peso, e da questo peso rimane “slogato”.
In fondo è la vicenda della fede. La fede è questa: l’uomo che accetta Dio, così come Egli è. Dio che non è oggetto di conquista. Io nella fede conosco Dio, per ciò che Egli è veramente, anche se però lo conosco solo in maniera velata. Quindi la fede mi da delle possibilità straordinarie: io che sono un nulla, grazie alla fede posso avere una certa conoscenza di Dio come Egli veramente è.
Questa è la fede: un voler afferrare e un essere afferrati. C’è questa tentazione di voler trattenere… però in fondo siamo noi, poi, afferrati e mandati da Dio. Non possiamo utilizzare Dio, ma veniamo mandati da Dio. E questa è la lotta, una lotta faccia a faccia con Dio.
In queste condizioni Giacobbe naturalmente non si è messo da sé, perché ciò che Giacobbe voleva era la primogenitura; ciò che Giacobbe voleva era essere l’erede della promessa, essere il portatore della benedizione del padre; ciò che lui voleva era il possesso della terra.
Nei suoi progetti e nelle sue attese lui non desiderava certo ciò che poi gli è capitato. Quando ha messo in atto tutti quegli imbrogli per ottenere la primogenitura non pensava di certo che si sarebbe complicato la vita: aveva prospettive di ricchezza, prospettive di benessere e invece le cose sono andate in maniera molto diversa, al punto che non solo è stato costretto a fuggire dalla terra, ma anche dopo che ci sarà tornato, dovrà lasciarla per andare in Egitto dove morirà in esilio. Peggio di così non gli poteva andare!
Allora, questa lotta della fede, non la scegliamo noi, ma è Dio che la sceglie; ed è la lotta con cui Dio si crea un popolo, con la quale Dio si crea un uomo. Quando noi siamo “scelti” non siamo scelti per rimanere come siamo: il Signore ci chiama per fare di noi delle persone nuove, delle persone diverse. Quando c’è una chiamata particolare, come può essere la chiamata di una certa vocazione, è una chiamata in cui Dio interviene per fare degli uomini nuovi, delle creature diverse. Non sceglie un uomo “già fatto” e per questo lo mette a parte: no, lo chiama e lo chiama “per rifarlo”, per ricostruirlo. Si tratta allora di una creazione nuova. Ed è un dono di Dio, non è mai una conquista.
Però bisogna stare attenti: la terra – e questo lo vediamo chiaramente anche nella vita di Giacobbe – è un dono, ma è anche una conquista, perché Dio non ci da mai le cose bell’e fatte. Dio ci chiama, e questo già è un dono, però questo dono deve essere poi conquistato, dobbiamo dare anche il nostro contributo, chiede la nostra collaborazione.
Alla luce di questo episodio vogliamo vedere non solo tutta la storia del popolo di Israele, ma anche la figura di Cristo; anch’Egli ha dovuto lottare con il Padre, non soltanto nel Getzemani, ma tutta la vita, perché l’umanità di Cristo ha dovuto sopportare il peso della sua divinità. «Il Verbo si è fatto carne… e noi abbiamo visto la gloria di Dio»: la gloria di Dio, nell’umanità di Cristo. E in Cristo si completa il tutto in una maniera davvero straordinaria.
Ma soprattutto in questa storia dobbiamo vedere la storia della Chiesa, che è una lotta continua per superare questa tentazione: la tentazione di voler mettere le mani su Dio! “Dio è con me e allora le cose che faccio io appartengono a Dio; i successi miei sono i successi di Dio; quello che faccio ha l’appoggio di Dio”. Non è vero per niente. Guardando alla storia della Chiesa ci accorgiamo che ci sono delle slogature continue, continue ferite, dovute a questa pretesa di avere Dio dalla propria parte e pensare di poterlo strumentalizzare, di voler mettere le mani su di Lui e portarlo dalla nostra parte. Ma non è così, perché Dio è Dio di tutti: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, come lo era di Esaù, di Labàno. Dio è il Dio di tutti gli uomini, non soltanto il Dio dei cristiani, il Dio dei cattolici. Anche se certamente è attraverso la Chiesa che Egli vuole arrivare a portare la benedizione e la verità anche su tutti gli altri.
E allora ecco che i termini della lotta misteriosa di Giacobbe si possono vedere in pratica anche nella nostra vita. Il Signore lotta con noi perché è attraverso questa lotta che Lui vuole insegnarci l’Amore, aiutarci a crescere in questo amore. E l’insegnamento è quello di non voler pretendere, di tirar Dio dalla nostra parte, portarlo a fare la nostra volontà. Siamo noi che dobbiamo chiedere al Signore che ci aiuti a fare la Sua volontà, dal momento che, come dice Dante, mettendo in bocca a Piccarda Donati queste parole, «In sua voluntade è nostra pace». Noi troveremo la nostra pace e la nostra serenità, non se Dio fa la nostra volontà – che spesso vede il bene dove in realtà non c’è – ma la pace sta nella nostra capacità di accettare la volontà di Dio e di metterla in pratica ogni giorno.
da una catechesi Quaresimale del marzo 1996