Maria di Nazaret non si limita ad avvertirci che stiamo perdendo il senso dell’amore, ma ci suggerisce pure i rimedi per ritrovarlo.
Tra questi abbiamo sottolineato l’importanza di recuperare l’amore “alla fonte”, ossia in Dio, sorgente e modello e misura del nostro amore, di agganciarlo alla fedeltà, di esprimerlo col sacramento del volto.
Il sacramento del volto.
L’amore mette il volto allo scoperto. Lo svela.
Il volto diventa, in tal modo, specchio per l’altro. Uno si riconosce, esiste grazie all’altro. [Dice] Kierkegaard: «Basta guardare un uomo per sapere con certezza se sia stato veramente innamorato. Diffonde attorno a lui un alone di trasfigurazione, una certa divinizzazione che si perpetua lungo tutta la sua vita. (…) C’è in lui un’armonia che pervade tutta la sua vita». Un’armonia che viene espressa soprattutto attraverso il “sacramento” del volto.
Anche il cristiano è un volto che incontra altri volti. Gli incontri che contano sono quelli che avvengono tra volti. Certe persone, che magari ti stanno a pochi centimetri di distanza, risultano inavvicinabili. Non arrischiano il volto. Non si espongono col volto. Troppo impegnativo, costoso.
Il volto è "mascherato", difeso, protetto, sottratto allo sguardo, nascosto chissà dove. Si comunica con qualcos'altro, non col volto. E quando non c'è di mezzo il volto, non esiste comunicazione, ma inganno, diffidenza, istinto di difesa.
Un cieco mi confidava che il motivo di sofferenza più acuta per la sua infermità è costituito dall'impossibilità di «accarezzare con gli occhi il volto di una persona».
E' stato detto che si può sparare a un uomo solo chiudendo gli occhi, evitando di guardarlo in faccia (...) Con l'indifferenza, io cancello il volto dell'altro. Con l'avidità e la cupidigia, lo rendo oggetto, merce di consumo. Con gli occhi iniettati dal veleno del disprezzo, io sopprimo l'altro.
E' necessario smantellare il mio volto aggressivo, ostile all'altro. E' urgente liberarlo da ogni istinto di dominio, possesso, visione utilitaristica. Restituirgli trasparenza, semplicità, accoglienza. (...)
Non soltanto il volto, ma anche la voce ha una funzione rivelatrice.
Brutto segno quando gli sguardi si evitano, allorché non si ha più il coraggio di guardare negli occhi la persona amata. Non essere guardati, significa essere rifiutati, ignorati. Io esisto grazie allo sguardo dell'altro.
Tuttavia, un segno ancora più preoccupante è quello rappresentato da una voce "mascherata", che ha perso la tonalità della freschezza, il timbro della spontaneità, la vibrazione della tenerezza.
Chi ama avverte immediatamente quando nella voce dell'altro si è prodotta un'incrinatura, una stonatura, quando è sparito l'accento della sincerità.
Paradossalmente, è più facile mascherare la faccia che non la voce (...).
La voce permette di vedere.
L'amata del Cantico punta tutto sulla voce del "diletto":
«Una voce! Il mio diletto!
Eccolo viene
saltando per i monti
balzando per le colline» (2,8).
Una voce impercettibile, che però viene registrata dal cuore, anche durante il sonno:
«Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! E' il mio diletto che bussa» (5,2).
Quando si informa presso le guardie se hanno visto l'amato del suo cuore (3,3), rimane delusa. Gli occhi non sono in grado di fornire l'informazione desiderata. Meglio affidarsi alla voce: «Fammi sentire la tua voce» (8,13).
Restituzione grazie alla voce.
Le pecore, nel recinto, durante la notte, possono provare l'impressione di aver perduto il pastore.
Lo ritrovano, al mattino, non quando lo vedono, ma allorché «ascoltano la sua voce» (Gv 10,3). Allora avviene l'incontro, il riconoscimento reciproco, grazie ad una specie di liturgia della voce.
«Egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori... Cammina innanzi a loro. E le pecore lo seguono perché riconoscono la sua voce» (10,4).
E' la voce che permette di distinguere il pastore dagli intrusi. E' la voce che restituisce ciò che è stato sottratto agli occhi.
La voce non tradisce.
Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, allorché si affida al "vedere", si sente autorizzata a piangere, perché avverte ciò che le è stato tolto: «hanno portato via il mio Signore dal sepolcro e non so dove l'hanno posto» (Gv 20,13).
Lo ritrova al suono, inconfondibile, della voce: «Maria!» «Rabbunì!».
Gli occhi hanno fatto velo, non le hanno consentito di riconoscerlo. Quel timbro, quel tono, il nome pronunciato come una carezza, fanno scoccare la scintilla del "riconoscimento".
Anche lei, come le pecore nel recinto, riconosce il Pastore quando lo sente pronunciare il proprio nome (Gv 10,3b).
Rispondere al richiamo della voce.
Infine, Giovanni Battista.
Lui, come tutti i solitari, accetta di chiudere gli occhi. Rifiuta la conoscenza che arriva da parte degli occhi.
Ma, ad un tratto, «sussulta di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3,29).
E l'uomo del deserto, che si è imposto di tacere, ritrova dentro di sé la propria voce che esce fuori di prepotenza, ha l'audacia di rispondere al richiamo di quell'altra voce, corre incontro più veloce dei passi. (...)
E' la voce, quindi che consente la manifestazione.
Stabilisce il contatto.
Anticipa l'incontro.
Celebra il possesso.
Onorare i debiti di amore.
E, per favore, non pensiamo che l'amore sia un "di più", qualcosa cui non sono strettamente tenuto. Che la bontà rappresenti un lusso che mi concedo quando mi sento in vena di generosità.
L'amore non si colloca nel registro del "superfluo" o dello "straordinario" che distribuisco, a mia discrezione, magari per sentirmi migliore degli altri. (...).
La carità non è quel "qualcosa in più" che, nella tua magnanimità, senza alcun obbligo specifico al riguardo, offri agli altri.
La carità "la devi". E' un credito che ciascuno vanta nei tuoi confronti.
L'amore: ecco ciò che il cristiano deve a tutti.
Allorché hai amato il prossimo, l'hai aiutato, servito, perdonato, sfamato, curato, beneficato, non hai fatto niente di straordinario. Hai pagato semplicemente i debiti, secondo le usanze del regno di Dio. (...)
Amore e discrezione.
L'amore vero non va esibito clamorosamente e chiassosamente, ma dev'essere rigorosamente accompagnato dal senso del pudore, una preoccupazione costante di discrezione.
L'indifferenza, l'estraneità talvolta possono essere peggiori dell'odio. Perché riescono a cancellare la persona dell'altro. Tuttavia io "cancello" l'altro, non solo allorché lo ignoro, ma anche quando gli tolgo la libertà, lo soffoco, lo strumentalizzo, lo uso disinvoltamente come trofeo della mia carità, come pretesto per risolvere i miei problemi personali.
Ci può essere un amore "prepotente", spudorato, che schiaccia l'altro, sopprime la sua dignità, lo rende oggetto, ne viola l'intimità, ne calpesta il mistero inviolabile.
Esiste una distanza colpevole. Quella dell'insensibilità, dell'incapacità a compromettersi, dell'assenza vile. Ma esiste anche un eccesso di vicinanza, altrettanto colpevole. Quella dell'invadenza, dell'indiscrezione, dell'ingerenza.
Tra invadenza e assenza: questi i confini estremi che delimitano il territorio che deve essere occupato dalla comunione con l'altro.
Anche nel farmi prossimo, perciò, devo impormi certi limiti. Non evidentemente, i limiti dettati dall'egoismo e dalla comodità, ma quelli suggeriti dal rispetto dell'altro.
Avvicinarmi, ma lasciando spazio all'altro. Avvicinarmi, senza togliergli il respiro, la libertà, la naturalezza. Avvicinarmi, aiutarlo, sena sostituirmi a lui. Sì, avvicinarmi, senza soffocarlo nel mio abbraccio.
La delicatezza, nel campo della carità, è sempre una virtù tra le più preziose. Se scomparisse, sparirebbe anche l'amore.
Personalmente, ho una gran paura di una certa gente decisa a "farmi del bene" a tutti i costi. Persone animate da tanta buona volontà, che si sono fabbricate nella loro testa un'idea particolare di quello che dovrebbe essere il "mio" bene. E cercano, a tutti i costi, di trapiantarmi quel loro modello di bene, senza essere sfiorate minimamente dal dubbio che quello, più che il "mio", è il "loro" bene.
A tutti i costi mi vogliono bene, negandomi, a tutti i costi, il diritto di essere me stesso.
L'unico diritto che mi riconoscono è quello di rassomigliare all'immagine che di me si sono costruite loro.
In certi casi, viene, perfino il sospetto che quegli individui, più che amare l'altro, amino, attraverso l'altro, se stessi di un amore idolatrico, quasi forsennato.
Comunque, è difficile fare l'inventario dei pasticci e dei guai combinati da gente che impiega cervello - poco - e bontà - troppa, ma di quella andata a male, e che quindi puzza - col proposito più o meno dichiarato di fare del bene "a tutti i costi" (...).
L'amore autentico è possibile soltanto nella libertà.
E una persona veramente libera è quella che tutela e promuove la libertà dell'altro.
Vorrei vedere la tua voce...
Maria, se c'è un sogno impossibile che coltivo, è proprio quello di "vedere" la tua voce. Captarne la tonalità, registrarne il timbro, misurarne la... silenziosità, avvertirne la luminosità (sì, perché sono convinto che tu, creatura di luce, possedevi un'inconfondibile "voce luminosa").
Mi basterebbe coglierne una scheggia, un frammento piccolissimo. Ho il sospetto, infatti, che anche una minuscola vibrazione della tua voce mi consentirebbe di affacciarmi al mistero della tua persona.
Non so se hai mai parlato di amore.
Forse non ne avevi bisogno. Il tuo, anche quando parlavi d'altro, ti riferivi alle realtà più comuni, era il linguaggio dell'amore. Tutta la tua persona "diceva" amore. E, sopratutto, la tua voce. (...)
Maria, Vergine della discrezione, aiutaci a camminare, specialmente nel territorio sacro dell'amore, in punta dei piedi, togliendoci i calzari della banalità, dell'invadenza, della retorica, della superficialità, delle melensaggini devote.
Restituisci al nostro linguaggio il senso della misura, del riserbo (...) che permette di sfiorare il mistero, senza sporcare né profanare nulla.
Maria, aiutaci a recuperare la voce dell'amore.
don Alessandro Pronzato
tratto da: "C'era la Madre di Gesù...A Cana, con Maria, per scoprire quello che ci manca"