15/03/13

Uomini di fede: Giacobbe (2)


Giacobbe portatore della promessa. 
Allora questa storia dei due fratelli è chiara: nel caso di Abramo, non si può far entrare nella promessa Ismaele, perché Ismaele è figlio dell’imbroglio, dei ricorsi, degli accomodamenti, delle ambiguità dell’uomo. Ismaele rimane amato da Dio ma non può entrare nella promessa: la promessa non è fatta da mani d’uomo. Sarà Isacco ad entrare nella promessa, dono straordinario di Dio ad una donna ormai sterile. Questo è un importante insegnamento per noi: non possiamo far entrare nel piano di Dio quello che a questo piano, assolutamente, non appartiene. 
Così per quanto riguarda Giacobbe ed Esaù. La promessa è affidata a Giacobbe, ma questo non significa che Esaù non esista; anzi, se ci pensiamo egli si trova in una condizione privilegiata rispetto al fratello, in quanto Giacobbe andrà incontro ad una sorte molto dura: dovrà scappare dalla terra per sfuggire alle ire del fratello, a causa dei suoi inganni. Vivrà come nomade ed esiliato, per finire i suoi giorni in terra d’Egitto. Quindi una vita realmente travagliata, contrariamente ad Esaù che invece è rimasto tranquillamente nella sua terra. 
Si potrebbe quasi dire che attraverso la durezza della vita che gli spetta in sorte, Giacobbe sconta il suo peccato, i suoi inganni, la sua ambiguità, i suoi imbrogli. Seppur Giacobbe rappresenti in qualche modo la figura biblica in cui il popolo di Israele maggiormente si identifica, gli stessi profeti sono stati molto duri nei suoi confronti: «Il Signore è in causa con Giuda e punirà Giacobbe per la sua condotta e lo ripagherà secondo le sue azioni» (Os 12, 3). 
Questo mostra che la moralità dei Patriarchi di Israele non era certo perfetta, essi non sono di quella moralità pura che noi avremmo motivo di attenderci. 

Ma questo ci fa capire un’altra cosa che è molto importante: Dio non comincia mai dalla morale; Dio comincia dalla fede. L’errore che invece spesso noi facciamo è quello di cominciare dalla morale: se per esempio uno va da un sacerdote e mostra di vivere una situazione di coppia di semplice convivenza, la prima cosa che si fa è dirgli “Tu devi lasciare questa situazione!”. 
Dio non agisce così: non comincia dalla morale, ma comincia dalla fede. Se uno inizia un cammino di fede, dopo avverrà anche il cambiamento nella morale, ma non si può cominciare dalla morale senza scoraggiare e senza spegnere il lucignolo fumigante. 
E questo è abbastanza chiaro attraverso la lettura della Parola di Dio nei patriarchi. Anche ad Abramo è richiesta una fede perfetta e Abramo arriverà a questa fede perfetta nel momento in cui mostrerà la sua disponibilità ad uccidere il proprio figlio per obbedire a Dio. La morale viene dopo, perché la morale è una dimensione umana, non è una virtù teologale: la fede è teologale! La morale no; è una virtù che presuppone una intelligenza e presuppone anche una esperienza: una maggior intelligenza di Dio e un’esperienza di Dio, mi porterà ad una condotta morale integerrima. Ma se io questa intelligenza di Dio non ce l’ho, se io questa esperienza di Dio non l’ho mai avuta, sarà molto difficile che io possa interrompere certe abitudini di vita morale. 
E allora se Dio comincia dalla fede noi dovremmo imparare da questo un’altra cosa: che ci può anche essere una fede perfetta e una morale zoppicante, come la morale di Abramo, come la morale di Giacobbe. E, dall’altra, ci può essere anche una morale perfetta, ma senza fede. 

Quindi il popolo di Dio non era un popolo di santi. Il comando di Dio «Siate santi perché io, il Signore Dio vostro sono Santo» (Lv 19,1) deve essere interpretato come il fatto che la santità del popolo deve misurarsi con la santità di Dio e che il peccato emerge proprio nel raffronto con la santità del Signore, con la quale il popolo eletto si deve continuamente confrontare. Così noi, siamo un “popolo santo” ma non perché siamo santi canonizzabili; siamo santi perché dobbiamo misurarci con la santità di Dio. Mentre un ateo è sufficiente che si comporti secondo la propria coscienza, il cristiano non può prescindere dalla Rivelazione, non può prescindere dalla legge del Signore. E la propria coscienza la deve formare ed educare nel confronto con la legge del Signore. 

Ma la storia di Giacobbe, storia di imbrogli, sotterfugi, ambiguità, ci mostra anche un’altra cosa: Dio ottiene i suoi scopi, sia con le persone buone, così come con gli imbroglioni. Il piano di Dio va avanti non solo attraverso le virtù, ma anche attraverso i vizi degli uomini. Dio non trova ostacoli dinanzi a persone che non si comportano rettamente; naturalmente l’uomo ha la responsabilità delle azioni che compie, ma Dio poi se ne serve per realizzare comunque il suo piano di salvezza. 
Se Dio per mostrare la sua economia, che è economia di povertà, sceglie il piccolo come figlio della promessa e non il più grande, il più peloso, il buon tiratore di arco… come era Esaù, ma sceglie Giacobbe è perché vuole, precisamente, mostrare questo: che Lui sceglie le cose deboli per confondere i forti. 

La Terra della promessa. 
Il discorso precedente apre a quello che è il rapporto di Giacobbe con il dono della promessa: la Terra. 
Dalla storia noi sappiamo che come Abramo, neanche Giacobbe possiederà la terra. La terrà verrà molto dopo, quando Mosè farà uscire il popolo dall’Egitto e lo condurrà alla terra promessa. Questo che significa? 
Ci insegna un’altra cosa. E’ un grosso sbaglio quello di pensare che un discorso di fede possa cominciare da fatti economici o da fatti sociologici o da fatti politici; il discorso di fede resta un discorso di fede. Le relazioni sono tre: prima c’è Dio, poi l’altro e infine, dopo, c’è la terra. E a noi non è dato di invertire l’ordine. 
La terra che Dio promette è un dono. Difatti al popolo di Israele verrà detto: “La terra non la puoi vendere, perché non l’hai conquistata”: è un dono. E se è un dono e allora deve essere condiviso. come tutti i doni di Dio! 
Anche la nostra vocazione è un dono di Dio e come dono di Dio deve essere condiviso. Tutto quello che riceviamo da Dio deve essere condiviso con gli altri. Certamente, piacerebbe a tutti noi essere figli unici e cerchiamo anche spazi dove possiamo essere “unici”. Ma i fratelli sono sempre due! E’ questo il mistero e si evince molto chiaramente dalla storia dei Patriarchi: due chiamati a condividere la stessa eredità. Non c’è niente di esclusivo. 
E questa è la vita. E Giacobbe, dovrà scoprire questo; come Esaù dovrà scoprire questo; come anche noi, dobbiamo scoprire questo. Giacobbe deve accettare di condividere la terra con Esaù ed Esaù deve accettare che la promessa di Dio arrivi a lui attraverso Giacobbe. 
E’ questo il mistero della terra di Dio; esso non è altro che una parabola, un simbolo quanto mai reale, della condizione umana. 
Attenzione però, il figlio della promessa non è quello “garantito”: abbiamo già detto che Giacobbe è quello che deve scappare. Essere figli della promessa non significa avere delle garanzie di immunità o dei privilegi… tutt’altro! Può essere benissimo – ed è il caso specifico di Giacobbe – che questa promessa debba essere pagata realmente a caro prezzo. E Giacobbe infatti deve andar via e deve imparare, soprattutto, questa condivisione.

P. Domenico Acquaro O. de .M.
da una catechesi Quaresimale del marzo 1996