Racconto della "Passione" secondo Luca. (Lc 22,14-23,56)
Poco
o
tanto
abbiamo
tutti
frequentato
un
certo
immaginario
su
Dio
che
ce
lo
restituiva
come
custode
geloso
della propria
autosufficienza.
Fatichiamo
a
tenere
insieme grandezza
di Dio
e
quel
suo
incedere
a
dorso
di
un
asino,
segno
dello
stile
mite
e
umile
con
cui
incede
nella
vita
dell’umanità! Come
dar
torto
ai
Giudei
che,
nei
giorni
immediatamente
prima
della
passione,
contestavano
a
Gesù
il
fatto
che
egli
potesse
essere
il
Figlio
stesso
di
Dio? Come
non
patire
scandalo
di
fronte
a
uno
che
si
ritrova
alla
mercé
di
un
tribunale
terreno
e
non
batte
ciglio
per
difendersi?
Come
poter
pensare
che
abbia
delle
prerogative
divine
uno
che
si
ritrova
bersaglio
dell’umano
risentimento?
Come
tenere
insieme
il
nostro
immaginario
su
Dio
e
la
rivelazione
di
Dio
che
Gesù
attesta
di
essere?
Le
due
cose
non
stanno
insieme:
o
il
nostro
immaginario
su
Dio
è
falsato
o
quell’uomo
è
un
bugiardo,
un
impostore.
Delle
due
l’una:
la
seconda,
guarda
caso.
Ma
perché
questo
inedito
modo
di
rivelare
il
divino?
Perché,
se
anche
solo
per
un
attimo,
Gesù
facesse
uso
del
potere,
come
gli
viene
abbondantemente
suggerito
da
chi
lo
irride,
consacrerebbe
la
forza,
lo
strapotere
come
i
criteri
per
assoggettare
l’uomo.
Dio
non
si
imporrà
mai
come
evidente;
non
costringerà
mai
l’uomo
ad
accogliere
la
comunione
con
lui.
Per
questo,
accettando
di
toccare
il
fondo
dell’umana
abiezione,
toccando
cioè
l’umile
misura
dell’uomo,
non
si
sentirà
mai
diminuito.
Quando
uno
ama
e
ama
per
davvero,
non
teme
di
esporsi
al
ridicolo
e
persino
al
rifiuto,
lasciando
sempre
all’altro
la
libertà
di
accogliere
il
dono
dell’amore
o
meno.
Perché
non
vuole
essere
amato
per
forza.
Patirà
nell’abbandono
e
nella
solitudine
più
grandi
la
sua
passione
d’amore
ma
non
si
imporrà
mai
come
necessario.
Quanto
avremmo
bisogno
di
metterci
a
questa
scuola
quando
saremmo
tentati
di
costringere
l’altro nella
rete dei
nostri
ricatti
affettivi! È
il
paradosso
della
nostra
fede
che
non
finiremo
mai
di
comprendere
appieno:
la
vicenda
di
Gesù
non
si
chiude
con
qualcosa
di
tangibile
che
ne
ricordi
la
presenza
e
l’operato.
Tutto
sembra
irriducibilmente
distrutto;
i
suoi
amici
sono
fuggiti;
il
bene
che
ha
compiuto
sembra
dimenticato.
Che
cosa
resta?
La
sua
misericordia
e
il
suo
perdono.
Ad
attestare
ancora
oggi
la
presenza
di
Dio,
non
apparati
, ma
l’umile
gesto
di
chi
non
prevarica. Facciamo
fatica
a
comprendere
un
tale
linguaggio
noi
che
frequentiamo
abbondantemente la
cultura
del
non
perdere,
del
vincere
a
ogni
costo.
La
passione
del
Figlio
di
Dio
ci
attesta
che
snodi
salvifici
si
schiudono
all’orizzonte
delle
nostre
storie
non
quando
si
è
certi
di
poter
contare
sulla
forza
di
qualcuno
ma
quando
qualcuno
rinuncia
volutamente
all’esercizio
della
forza
mettendo
la
propria
vita
a
servizio
di
altri.
L’esercizio
della
forza,
infatti,
se
preserva
l’incolumità
di
qualcuno,
finisce
comunque
per
mietere
non
poche
vittime.
Accade
anche
a
noi
di
non
comprendere
tanti
degli
eventi
che
subiamo
o
di
cui
siamo
protagonisti:
sconfitte
di
ogni
giorno,
sofferenze
legate
ad
una
malattia,
incomprensioni,
scelte
sbagliate,
problemi
economici.
Accade
anche
a
noi
di
invocare
il
Padre
e
sperimentare
il
suo
silenzio.
Eppure
egli
parla:
la
presenza
del
Padre
è
da
scorgere
nella
decisione
con
la
quale
Gesù
si
rialza.
Se
non
parla
con
una
parola,
il
Padre
parla
con
la
determinazione
che
il
Figlio
si
ritrova.
Non
temiamo
di
andare
avanti
comunque,
non
abbiamo
paura
di
restare
fedeli
a
delle
esigenze
che
ci sembrano
ardue,
non
scoraggiamoci
quando
all’orizzonte
intravediamo
giorni
senza
futuro.
Il
solo
rimanere,
il
perseverare
è
già
il
segno
che
Dio
è
ancora
all’opera
nella
nostra
vita.
Il
pianto,
il
gemito,
il
dolore
diverranno
non
l’anticamera
di
una
morte,
ma
i
segni di un travaglio.
don Antonio Savone
tratto da http://nuke.acasadicornelio.it