24/03/13

La Passione - Domenica delle Palme

Racconto della  "Passione" secondo Luca.  (Lc 22,14-23,56)

Poco
 o
 tanto
 abbiamo
 tutti
 frequentato
 un
 certo 
immaginario
 su
 Dio
 che
 ce 
lo
 restituiva
 come 
custode
 geloso
 della propria
 autosufficienza. 
Fatichiamo 
a 
tenere 
insieme grandezza
 di Dio 
e
 quel
 suo 
incedere
 a 
dorso 
di 
un 
asino,
segno
 dello 
stile 
mite 
e 
umile 
con 
cui 
incede 
nella 
vita 
dell’umanità! Come
 dar
 torto
 ai
 Giudei
 che,
 nei
 giorni
 immediatamente
 prima
 della
 passione,
 contestavano 
a 
Gesù
 il
 fatto
 che 
egli
 potesse
 essere 
il
 Figlio
 stesso
 di
 Dio? Come
 non
 patire 
scandalo 
di
 fronte
 a 
uno 
che 
si 
ritrova 
alla 
mercé 
di 
un 
tribunale 
terreno
 e 
non 
batte
 ciglio 
per 
difendersi? 
Come 
poter
 pensare 
che 
abbia 
delle 
prerogative
 divine 
uno 
che 
si 
ritrova
 bersaglio
 dell’umano
 risentimento?
 Come 
tenere 
insieme
 il 
nostro 
immaginario 
su
 Dio 
e 
la 
rivelazione 
di 
Dio 
che
 Gesù 
attesta 
di 
essere?
 Le 
due 
cose 
non
 stanno 
insieme:
 o 
il 
nostro 
immaginario 
su 
Dio 
è
 falsato
 o
 quell’uomo
 è
 un
 bugiardo,
 un 
impostore.
 Delle
 due 
l’una: 
la
 seconda, 
guarda 
caso.

Ma 
perché 
questo 
inedito 
modo
 di 
rivelare 
il
 divino?
 Perché,
 se 
anche 
solo 
per 
un
 attimo,
 Gesù
 facesse
 uso
 del
 potere,
 come
 gli
 viene
 abbondantemente
 suggerito
 da
 chi
 lo
 irride,
consacrerebbe
 la
 forza,
 lo
 strapotere
 come
 i
 criteri
 per
 assoggettare
 l’uomo.
 
Dio
 non
 si 
imporrà
 mai 
come 
evidente;
 non
 costringerà 
mai
 l’uomo
 ad
accogliere 
la 
comunione
 con
 lui.
 Per
 questo,
 accettando 
di 
toccare
 il 
fondo
 dell’umana 
abiezione,
toccando 
cioè 
l’umile
 misura
 dell’uomo,
 non
 si
 sentirà
 mai
 diminuito.
 Quando
 uno
 ama
 e
 ama
 per
 davvero,
 non
 teme
 di
esporsi
 al
 ridicolo 
e
 persino
 al
 rifiuto,
lasciando
 sempre 
all’altro 
la
 libertà
 di
 accogliere
 il
 dono 
dell’amore
 o
meno.
 Perché
 non
 vuole
 essere
 amato
 per
 forza.
 Patirà
 nell’abbandono 
e
 nella
 solitudine 
più 
grandi 
la
 sua
 passione 
d’amore
 ma 
non
 si 
imporrà 
mai
 come 
necessario.
 
Quanto
 avremmo 
bisogno 
di
 metterci
 a 
questa 
scuola 
quando 
saremmo
 tentati
 di 
costringere 
l’altro nella
 rete dei 
nostri 
ricatti
 affettivi! È
 il
 paradosso 
della
 nostra 
fede
 che 
non
 finiremo
 mai
 di 
comprendere 
appieno: 
la
 vicenda 
di 
Gesù
 non
 si 
chiude 
con
 qualcosa
 di
 tangibile
 che
 ne
 ricordi 
la 
presenza 
e 
l’operato.
 Tutto
 sembra
 irriducibilmente 
distrutto; 
i
 suoi 
amici
 sono
 fuggiti;
 il 
bene 
che 
ha 
compiuto 
sembra
 dimenticato.
 
Che
 cosa 
resta?
 La 
sua 
misericordia 
e 
il 
suo 
perdono.
  Ad 
attestare 
ancora 
oggi 
la 
presenza
 di 
Dio, 
non 
apparati
, ma
 l’umile 
gesto
 di 
chi 
non 
prevarica. Facciamo
 fatica
 a 
comprendere 
un 
tale 
linguaggio
 noi 
che 
frequentiamo 
abbondantemente la 
cultura
 del 
non
 perdere,
 del 
vincere 
a 
ogni 
costo.
 
La 
passione 
del 
Figlio 
di 
Dio 
ci
 attesta
 che 
snodi
 salvifici
 si
 schiudono
 all’orizzonte
 delle
 nostre
 storie
 non
 quando
 si
 è
 certi
 di
 poter
 contare 
sulla
 forza
 di 
qualcuno
 ma 
quando 
qualcuno 
rinuncia 
volutamente 
all’esercizio
 della 
forza
 mettendo
 la
 propria
 vita
 a
 servizio
 di
 altri.
 L’esercizio
 della
 forza,
 infatti,
 se
 preserva
 l’incolumità 
di 
qualcuno, 
finisce
 comunque 
per
 mietere 
non 
poche 
vittime. 
Accade
 anche
 a
 noi
 di
 non
 comprendere
 tanti
 degli
 eventi
 che
 subiamo
 o
 di
 cui
 siamo 
protagonisti:
 sconfitte 
di
 ogni 
giorno, 
sofferenze 
legate
 ad 
una 
malattia, 
incomprensioni, 
scelte 
sbagliate,
 problemi 
economici. 
Accade
 anche
 a 
noi
 di 
invocare 
il 
Padre
 e 
sperimentare
 il 
suo
 silenzio.
 Eppure 
egli 
parla: 
la 
presenza 
del
Padre
 è 
da 
scorgere
 nella
 decisione 
con
 la
 quale
 Gesù 
si 
rialza.
 Se 
non 
parla 
con 
una 
parola, 
il 
Padre
 parla
con
 la
 determinazione 
che 
il 
Figlio 
si 
ritrova. 
Non
 temiamo
 di
 andare
 avanti
 comunque,
 non
 abbiamo
 paura
 di
 restare
 fedeli
 a
 delle
 esigenze
 che
 ci sembrano 
ardue, 
non 
scoraggiamoci 
quando 
all’orizzonte
 intravediamo 
giorni
 senza
 futuro.
 Il 
solo 
rimanere, 
il
 perseverare
 è 
già 
il
 segno
 che
 Dio
 è
 ancora
 all’opera
 nella 
nostra 
vita. 
Il
 pianto, 
il
 gemito, 
il
 dolore
 diverranno
 non
 l’anticamera
 di 
una 
morte, 
ma 
i 
segni di un travaglio.

don Antonio Savone

tratto da   http://nuke.acasadicornelio.it