Robert Lulie
" Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va..." (Gv 3,8)
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30/06/13
Quarantacinque
Un'anima donata al vento e' più speciale di un'altra sacrificata al mare. Può si' viaggiar come le correnti degli oceani e rinchiudersi negli abissi, ma in sé può scoprire il mare ed essere libera.
Robert Lulie
Robert Lulie
29/06/13
La sequela - XIII T.O.
Lc 9, 51-62
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
In questo testo noi vediamo Gesù in cammino verso Gerusalemme: «prese la ferma decisione», dice questa nuova traduzione del Vangelo; il testo in greco dice «rese dura la sua faccia», «sollevò il suo volto», cioè prende una espressione decisa... «di mettersi in cammino verso Gerusalemme», e manda dei messaggeri davanti a sé. Comincia così il cammino verso la sua Passione, verso ciò che non poteva che far paura alla sua carne di uomo, qualcosa verso cui non poteva che muoversi decisamente, o altrimenti vi era il rischio di bloccarsi, ma tentennare era impossibile. E' così che bisogna andare verso le cose di Dio, senza restar lì a domandarsi mille volte "lo faccio o non lo faccio": andare, saltare, passare oltre... è un atto dinamico.
Ecco, Gesù parte, e noi vediamo in questo testo tutto un susseguirsi di scene.
In primo luogo, nel suo cammino, Gesù cerca di avere alloggio presso un villaggio di Samaritani, i quali però hanno un'antipatia, un antagonismo, verso Gerusalemme e allora li rifiutano. Giacomo e Giovanni vogliono a questo punto una vendetta, vogliono che scenda un fuoco dal cielo e li consumi, come avvenne per Sodoma e Gomorra. Effettivamente il peccato di Sodoma e Gomorra fu proprio quello della "non-accoglienza", la strumentalizzazione e l'abuso dell'ospite, di colui che non viene accolto e ricevuto secondo la tradizione beduina. In realtà i due apostoli stanno citando le Scritture: "Non ci accolgono, allora il piano di Dio è la vendetta!". No: il piano di Dio è Gerusalemme.
Molto spesso appare qualcosa che sembra molto giusto e ci distoglie da ciò che noi dobbiamo veramente fare.
Questa è un po' la chiave di tutto il testo.
Se continuiamo a leggere il testo, seguiranno tre casi di sequela:
- Il tale che gli dice «ti seguirò ovunque tu vada!», mettendo al centro il proprio saper seguire, la propria capacità di essere fedele. Gesù risponderà, in qualche modo, a questa, che sembra essere una positivissima proposta di sequela;
- un altro che chiede prima di poter andare a seppellire suo padre;
- un altro ancora che chiede di congedarsi da casa propria.
Queste sono tutte situazioni - dalla citazione biblica, alla disponibilità personale, alla emergenza di carità relazionale - che sono buone o comunque giustificabili. Questo testo vuole dirci, invece, che quando seguiamo il Signore Gesù, non è vero che il problema è scegliere tra il bene e il male, il vero problema è scegliere tra il bene e il bene, ovverosia, tra il bene primario e il bene secondario, tra un bene reale e un bene apparente, perché il vero problema è arrivare alla meta. E' assolutamente secondario fare qualcosa che pure sembra importantissimo: salutare i propri genitori, addirittura seppellire i propri defunti: opera di misericordia fondamentale, cosa che nella tradizione ebraica è assolutamente centrale... Non è vero che questo è primario! Noi crediamo di poter mettere d'accordo priorità diverse. La "priorità", invece, per definizione, è una perché è prima di qualcosa. Non possono esistere due priorità! Con il Signore c'è una priorità: il bene che bisogna fare secondo quello che Lui ci ha detto. Qui si tratta di capire che, dalle questioni di giustizia - il non essere stati accolti, e allora punire - alle questioni della propria psicologia, della propria disponibilità, la spinta delle proprie pulsioni e voglie- «ti seguirò ovunque tu vada» - a quelle che sono le emergenze affettive e caritative, non c'è niente che sia valido abbastanza per fermare il cammino della volontà di Dio.
Non si tratta di mettersi i paraocchi e andare avanti senza capire, ma è un cammino interiore, è il cammino della propria semplificazione, il cammino della propria verità. Il fatto è che noi vorremmo far contente un po' troppe persone, vorremmo risolvere un po' troppi problemi, mentre normalmente i problemi che possiamo risolvere sono abbastanza pochi; normalmente le cose che dobbiamo realmente assecondare, anche nel nostro cuore, non sono poi così tante... C'è, sicuramente, un rischio di fare il male, ma molto più spesso c'è il rischio di fare un bene che non è il nostro, fare un bene che non ci spetta: ci sono mille cose buone da fare nella vita, ma semplice e lineare è la nostra missione. Molto spesso nel discernimento della volontà di Dio bisogna partire dalla prima evidenza: sì, ci saranno mille cose da fare, ma io sono una persona; se sono un sacerdote ho delle priorità, non ci sono mille diversificazioni. Quante volte si vede la dispersione di una vocazione perché uno va appresso a cose che sembrano buone, ma sono "altre". Non c'è bisogno che il maligno, quando ci tenta, ci faccia fare il male: basta che non ci faccia fare il bene che dobbiamo fare noi. E così nella vita familiare, nella vita sociale: ci sono i nostri primari doveri, quelle cose che sono proprio "nostre", anche quelle elementari, di un cristiano. Uno finisce per fare grandi cose, ma non fa le cose che veramente deve fare.Uno finisce per essere disponibile alle emergenze sacrosante, ma non nostre!
Questo è un testo molto serio sul "sottrarsi alle dispersioni". Gesù non ha il tempo di pensare a "vendicarsi" o fare giustizia con questi samaritani... perché il problema per Lui ora è andare avanti fino a Gerusalemme.
Gesù non è uno che sta creando una situazione protetta, come una tana, un nido... E' ciò che risponde a quest'uomo che gli dice «ti seguirò ovunque tu vada», che pensa che vi sia un qualche luogo, un posto dove stare... Il Vangelo di Giovanni ci racconta che quando i discepoli lo incontrano e gli chiedono «Maestro dove abiti?», Egli risponderà «Venite e vedete», ossia propone un'esperienza, un'azione, un movimento... e non ci dice dove abita: loro vanno, vedono, ma in realtà fanno un'esperienza. Il vero problema è stare, dunque, in un dinamismo, e non stare centrati su qualche cosa che poi è una staticità.
«Ti seguirò dovunque tu vada» è un volontarismo: sono Io che ti chiamo. Quando il centro parte dal nostro essere, anche nelle cose più sante, finiamo un po' per corromperle: non sono io che faccio il prete, è il Signore che mi chiama, è Lui che decide come lo faccio; non sono io che lo seguo dovunque Egli vada, ma è Lui che misericordiosamente mi apre la strada e io umilmente - se ce la faccio - lo seguo.
E così ci sono "priorità" che non sono priorità; ci sono "emergenze" che vanno disattese; certe volte bisogna saper abbandonare un gran bene per un bene superiore. Non è vero che basta che una cosa sia buona perché debba esser fatta, ci vuole che sia secondo la nostra sequela di Cristo, secondo il suo rapporto con noi, altrimenti come dice Giovanni al capitolo 15° : «Senza di me non potete far nulla». Facciamo le cose, ma non portano a niente. Quanto bene che si fa nel mondo, che però non porta a niente; c'è poco bene che salva veramente: quello che dobbiamo cercare fare.
don Fabio Rosini
La lettera perduta - Paolo Curtaz
In una immaginaria lettera andata perduta nei tempi, e poi recentemente ritrovata, S. Paolo, l'apostolo delle genti. racconta la sua conversione e il suo cammino di fede...
Ogni conversione è una storia da raccontare, ogni incontro con Dio è una testimonianza del suo amore per tutti noi. Molti tra voi, fratelli provenienti dal paganesimo, pensano che la conversione sia passare dal non credere al credere, dall’adorare false divinità al riconoscere il volto del vero Dio.
«Ripenso spesso a quel momento. Come ogni momento iniziale, Quel momento ha rappresentato l’inizio di una vita nuova, completamente diversa per me. Molte volte, in questi anni, mi sono chiesto se non si sia trattato di una suggestione, se io non abbia davvero preso un colpo di sole.
E invece no, fratelli in Cristo: il Signore che stavo perseguitando si è degnato di manifestarsi al mio cuore.
Vorrei chiarire alcune cose semplici.
Molti cercano apparizioni e miracoli, pensando che Dio debba necessariamente manifestarsi in modo straordinario. Forse anch’io, nei primi tempi, pensai a qualcosa del genere, che, cioè, ogni uomo doveva fare un’esperienza straordinaria e miracolosa per incontrare Dio.
Poi, però, capii che la manifestazione più straordinaria è quella del cuore. Gli occhi ingannano, il cuore no. Noi fissiamo il cuore sulle cose invisibili che durano sempre, perché quelle visibili scompaiono.
I miei compagni non videro nulla forse perché, semplicemente, non c’era nulla da vedere.
Io vidi tutto forse perché, semplicemente, era giunto per me il tempo di vedere.
Dio è così: aspetta il momento giusto per farsi vedere.
Ho nuovamente raccontato la mia conversione perché desidero che ognuno di voi incontri personalmente il Signore.
Preso dall’entusiasmo, all’inizio, pensavo che a tutti sarebbe successo come a me. Poi, col passare degli anni, capii che Dio non si lascia mettere in gabbia, nemmeno dai suoi discepoli.
Incontrando Cefa a Gerusalemme, e gli altri, mi feci raccontare la loro conversione: Pietro e Andrea conobbero il Maestro pescando!, Levi mentre riscuoteva le tasse, Giovanni su suggerimento del Battezzatore, e così via. Ognuno aveva incontrato il Maestro in maniera diversa.
Poi, Quando iniziai la mia predicazione di apostolo, mi meravigliai nel vedere come la grazia di Dio attraversasse i cuori in maniera inattesa: Luca il medico si convertì ascoltando le mie parole, così come Lidia e Aquila e Nicanore. Altri, penso a Moses e a Terzio, conobbero Gesù servendo i poveri e le vedove. Alcuni, penso a Felicita, mi dissero di avere incontrato Gesù nelle parole di sua madre Mariam, quando era con Giovanni a Efeso; altri ancora, penso a Lucio Flavio, lo trovarono nel silenzio e nella preghiera.
Così ho capito che Dio si fa incontrare in molti modi, in maniera diversa e non sta a noi stabilire i tempi e i momenti. le circostanze.
L’importante, come disse Gesù, è che le lampade del desiderio siano accese.
Ma io, persecutore, desideravo Dio?
No, credo di no.
Avevo fatto delle mie convinzioni e della mia arroganza il mio dio.
Eppure egli, per un misterioso ed imperscrutabile disegno, seppe leggere in quell’afflato crudele e violento un desiderio nascosto di assoluto.
Nascosto anche a me stesso.
La conversione
"Conversione di Saulo", il Caravaggio |
A volte è così.
Per me, invece, la conversione fu tanto più eclatante quanto più difficile: io credevo di credere, ero certo delle mie convinzioni, non dubitavo nulla e di nulla.
Quanto è più difficile convertire un credente!
Quanto è più difficile convertire un devoto zelante che crede di conoscere Dio quale ero io!
Dio ha dovuto urlare, farmi inciampare nelle mie sicurezze, che mi avevano portato a diventare un violento nel suo nome, per farsi riconoscere.
State vigilanti, fratelli nel Signore: anche a noi discepoli può succedere di diventare arroganti, di essere certi di possedere la verità, di guardare con disprezzo a coloro che non si comportano come noi.
Quando Gesù si scagliava contro le certezze di noi farisei, stava parlando ad ogni credente di ogni tempo: anche nel suo nome potremmo tornare a chiudere il cuore, a stravolgere il Vangelo, a rinchiudere Dio in una gabbia.
In questi anni di gioia e di fatica l’ho visto con i miei occhi: l’unico vero discepolo è colui che, pur avendo conosciuto Dio, sa di non sapere; pur avendolo amato, sa di poter amare ancora; pur seguendo le sue leggi, sa di non potersene fare scudo.
Un’altra cosa ho capito, col passare degli anni: la conversione dura tutta la vita.
Non avviene in un momento puntuale, non accade una volta per sempre.
Quando fui battezzato dal fratello Anania, visibilmente timoroso e impacciato, reso tale per effetto della mia triste fama, pensai che le cose sarebbero state chiare e semplici da allora in poi. Ora, vecchio e stanco, pronto a dare la mia vita per il Signore, guardandomi indietro mi rendo conto di quanto io sia cambiato in questi anni di predicazione.
Molte volte le mie certezze sono state messe in discussione, dagli eventi, dai nemici, dai fratelli. E più conoscevo l’inesprimibile mistero della Redenzione e più capivo di non avere ancora capito. Questo vi suggerisco, amati nel Signore che vorrei ancora dare alla luce e offrire a Dio: non rassegnatevi mai, non abituatevi, neppure ad una vita santa.
Cercate il Signore, sempre».
Paolo Curtaz, da «La lettera perduta»
27/06/13
Estiva - Vincenzo Cardarelli
Distesa estate
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell'albe senza rumore
ci si risveglia come in un acquario
dei giorni identici,astrali
stagione la meno dolente
d'oscuramenti e di crisi
felicità degli spazi
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca
stagione estrema,che cadi
prostrata in riposi enormi
dai oro ai più vasti sogni
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno
e sembri mettere a volte
nell'ordine che procede
qualche cadenza dell'indugio eterno.
Vincenzo Cardarelli
25/06/13
Ritorno - K. Gibran
C'è qualcosa di grande in me
e non riesco a farlo uscire.
E' un "io" grande e silenzioso
che siede e guarda
un "io" più piccolo agitarsi
in azioni di ogni genere.
Sono costantemente consapevole
di una nascita che deve avvenire.
E' come se da anni
un bimbo volesse nascere
e non potesse venire alla luce.
Continua attesa e travaglio
ma nessun parto.
E tuttavia, se morirò
prima che la nascita abbia luogo
continuerò a tornare
finché non avvenga.
Khalil Gibran
24/06/13
Ci manca il sorriso - A. Pronzato
«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)
Una fragola sul ciglio del burrone
Ritorno a parlare di gioia, perché ritengo sia, insieme all'amore, il tema che emerge maggiormente dal "mistero di Cana".
«Persuadere gli uomini che sono infelici è un'azione infame e fin troppo facile. Un compito sacro consiste, invece, nel ripetere all'uomo che è felice, e che si tratta per lui soltanto di rendersene conto!» (L. Pauwels).
Vogliamo, allora, dedicarci a questo "compito sacro"? (...)
In qualsiasi ambiente c'è qualcosa di buono e di bello che legittima la gioia. Si tratto soltanto di accorgersene.
Anche nelle situazioni meno piacevoli occorre rintracciare un appiglio cui allacciare il nostro sorriso.
Buddha, un giorno, raccontò questa parabola:
«Un uomo che camminava per un campo s'imbattè in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l'orlo.
La tigre lo fiutava dall'alto. Tremante, l'uomo guardò giù, in fondo all'abisso, dove una tigre lo aspettava a fauci spalancate per divorarlo.
Soltanto la vite lo reggeva. Ma ecco due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. Il disgraziato, guardandosi attorno, scorse accanto a sé una fragola fiammeggiante. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l'altra spiccò la fragola. Com'era dolce!».
Ecco il nostro compito nei confronti degli altri.
Far rilevare le tigri in agguato o il burrone spalancato sul vuoto è un compito meschino, un compito di morte.
Aiutare a scoprire la fragola che è lì, a portata di mano, è un impegno nobile, una missione di vita.
E la fragola, beninteso, non è soltanto la consolazione momentanea. Può essere la salvezza.
Trovare ragioni per la gioia non vuol dire, forse, risalire alla sorgente della nostra esistenza, della nostra vocazione? Non vuol dire forse riscoprire Qualcuno la cui presenza riscatta abbondantemente la banalità e la negatività delle cose che ci circondano e ci opprimono? (...)
Dare la gioia che non si ha...
E arriva l'ora in cui ti trovi con l'otre, e perfino la bottiglia, sprovvisti di vino. Ebbene, quella è la situazione favorevole per distribuire vino a tutti.
Mi spiego. Puoi vivere momenti in cui, per quanto ti frughi in saccoccia ed esplori gli angoli più reconditi del tuo essere, non riesci a scovare neppure uno spicciolo di gioia.
Esistono circostanze in cui, per quanto esamini gli avvenimenti della tua cronaca quotidiana, e li scruti da tutti i lati, non vi scopri nulla che possa legittimare neanche un sorriso della durata di un lampo.
E ci sono situazioni nelle quali le persone che ti circondano, per quanto le pesi con una bilancia benevola, non ti offrono che motivi di delusione, perfino di disgusto.
Con tutta la buona volontà, non riesci a raggranellare in te e attorno a te un solo grammo di gioia. Ti ritrovi povero di gioia.
Nella maniera più desolante, assoluta.
Non un guizzo di luce, uno squarcio di sereno sul tuo orizzonte. Soltanto buio e tristezza, grigio e amarezza, stanchezza e sconforto.
Ebbene, ti resta una incredibile possibilità. Quella di offrire la gioia. La gioia che non hai beninteso.
Sì, proprio tu, straccione, povero in canna, nullatenente in fatto di gioia, sei nelle condizioni di arricchirti di quel prodotto che scarseggia a casa tua, che è sparito dai tuoi armadi, regalandolo agli altri.
Il coraggio - diceva don Abbondio - se uno non ce l'ha, non se lo può dare. La gioia, invece, se uno non ce l'ha, ha sempre la possibilità di darla.
Per uno strano paradosso, dandola la si riceve! (...)
La gioia non è il superfluo, non sono gli avanzi del tuo banchetto, che ti degni di distribuire perché sei ben sazio.
Se aspetti a dispensare gioia soltanto quando la possiedi, queste occasioni fortunate si presenteranno raramente nella tua vita.
No. In fatto di gioia non si offre del superfluo, ma del necessario. Direi di più: del non avere, della mancanza.
Preoccupati, dunque, della gioia degli altri. Esci fuori dal guscio delle tue questioni, delle tue ansietà, dei tuoi problemi angosciosi, delle tue difficoltà. Smettila di pensare a te stesso.
Dimentica i tuoi guai. Trascura i tuoi fastidi.
Pensa, piuttosto, alla solitudine, alle sofferenze, alla tristezza degli altri. Occupati dei guai, dei fastidi del tuo prossimo.
Prenditi a cuore gli affanni, le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai, la forza che non possiedi, la speranza che senti vacillare in te, la fiducia che sta scricchiolando dentro di te.
Illuminali dal tuo buio. Arricchiscili con la tua povertà.
regala un sorriso quando hai voglia di piangere. Produci serenità dalla tempesta che si è scatenata sulla tua testa.
"Ecco, quello che non ho te lo do...". Sia questo il tuo paradosso, anzi il tuo miracolo personale di Cana.
Ti accorgerai che la gioia, a poco a poco, entrerà in te, invaderà il tuo essere, diventerà veramente tua, nella misura in cui l'avrai regalata agli altri. Esiste una gioia, una felicità e una pace della persona, dell'essere, che si comunica, si trasmette, agisce per contagio. Ed è naturale.
Ma c'è pure una gioia, molto più preziosa, una serenità, che si crea dal nulla nell'atto di donarla.
Nel gesto stesso di offrire un tesoro che non possiedo, me lo ritrovo tra le mani. Meglio, me lo ritrovo "dentro".
Vogliamo provare?
Il sacramento del sorriso
All'interno della gioia, esiste un sacramento particolare: quello del sorriso.
Certo. C'è sorriso e sorriso. Si vedono in giro solo sorrisi artificiali, ingannevoli. Sorrisi esibiti per un senso del dovere. Sorrisi agghiaccianti. Sorrisi devoti che danno sul melenso.
Certi sorrisi di persone religiose richiamano l'idea della morte, sono quanto di più macabro io conosca, mi sembrano il ghigno di un teschio, costituiscono un "memento mori" senza la promessa, o almeno il presagio, della risurrezione.
Esistono perfino sorrisi minacciosi. Shakespeare ha detto che si può ammazzare una persona con un sorriso.
Il sorriso, comunque, non s'improvvisa. E' un'arte che esige un lungo apprendistato. Il sorriso bisogna costruirlo pazientemente, faticosamente. Con che cosa?
Prima di tutto, con l'equilibrio interiore, con la fedeltà a se stessi. Con la pace e la serenità dell'anima. Una persona amareggiata non sa sorridere.
Con la semplicità, che vuol dire unificazione della propria vita, riduzione all'essenziale. (...)
Il sorriso non è appiccicato alla faccia. Ma è la luminosità stessa di un volto vero.
La sorgente del sorriso è dentro, in profondità.
Ogni parola che esce dalla nostra bocca dovrebbe essere impregnata, oserei dire profumata, di sorriso.
La verità è seria, ma sorridente al tempo stesso. La verità ha paura sia della noia che della tristezza.
Il sorriso è qualcosa della trasparenza di Dio.
Sorridere al buio
(...) Quando mancano i denti non si riesce più a mangiare il pane secco. Ma si può sempre sorridere, magari di nascosto, col cuore. Il sorriso, in certe circostanze, può essere l'estrema risorsa per rischiarare un poco il buio che ci minaccia.
Ho parlato di sacramento. Ebbene, questo sacramento ha il potere di creare, all'interno di troppi inferni o purgatori fabbricati dagli uomini, uno spazio di libertà, di gioia, di vita, di pace. Il sorriso, ossia il segno concreto di un paradiso possibile, il presagio di una beatitudine. Perfino sulla terra.
In ritardo di tre giorni...
Si racconta di uno scienziato tedesco che, cercando un posto tranquillo dove sistemarsi, aveva finito per scegliere un'abitazione che stava nelle immediate vicinanze di un monastero di clausura.
Lui non aveva la fede, ma quell'ambiente presentava il vantaggio di essere ideale, quanto a quiete, per le sue ricerche. «Qui almeno troverò il silenzio di cui ho bisogni per i miei studi e i miei esperimenti», pensava.
Le sue previsioni si rivelarono esatte solo parzialmente.
Di fatto, gran parte della giornata la sua casa era come avvolta dal silenzio, rotto soltanto dal suono di una campanella.
Ma poi venivano le ore di ricreazione delle monache. E allora non c'era verso di difendersi da quell'allegria scoppiettante.
L'esplosione delle risate trapassava muri e finestre.
Per lo studioso diventò quasi un'ossessione. Ragionava: «Queste donne sono povere, conducono una vita di penitenza, non conoscono il piacere. Come fanno ad essere così contente? Non ci sarà sotto, per caso, qualcosa di losco?».
Decise di togliersi il pensiero parlandone direttamente con l'abbadessa. Questa gli fornì una spiegazione di una semplicità disarmante: «Siamo le spose di Cristo...».
«Ma il vostro sposo non è morto circa duemila anni fa?», obiettò quello.
«Mi scusi, signor professore, ma lei non deve essere stato informato che tre giorni dopo è risorto da morte. e noi siamo testimoni, appunto, di ciò che è accaduto tre giorni dopo...», concluse la monaca con uno smagliante sorriso sulle labbra.
Io ho il dubbio che parecchi cristiani, come il professore, siano rimasti fermi al Venerdì Santo...
Esortava monsignor Tonino Bello: «Riconciliamoci con la gioia, miei carissimi fratelli: le croci sembreranno antenne, piazzate per farci udire la musica del cielo». E, naturalmente, non dimentichiamoci di far udire anche agli altri questa musica.
don Alessandro Pronzato
tratto da
"C'era la Madre di Gesù... A Cana con Maria, per scoprire quello che ci manca"
22/06/13
Quarantaquattro
Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la vita a remare contro corrente; sono stanca, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi trasporti dolcemente fino al mare.
Isabel Allende, da "Paula"
13/06/13
Quarantatre
12/06/13
Il vero dono non vuole reciprocità - E. Bianchi
Esiste ancora il dono, oggi?
In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare? Ecco una domanda a mio avviso decisiva: nell’educazione, nella trasmissione alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c’è attenzione al dono e all’azione del donare come atto autentico di umanizzazione? C’è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito?
Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del tornaconto. In un’epoca di abbondanza e di opulenza si può addirittura praticare l’atto del dono per comprare l’altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà.
Si può perfino usare il dono - pensate agli «aiuti umanitari» - per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra. Questa ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: già nell’antichità si diceva «Timeo Danaos et dona ferentes», «Temo i Greci anche quando portano doni»... Ma c’è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti - lontani! - per i quali vale la pena provare emozioni...
Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. I cristiani sanno come nella storia perfino il dono di Dio, la grazia, abbia potuto e possa essere presentato come una cattura dell’uomo, un’azione di un Dio perverso, crudele, che incute paura e infonde sensi di colpa.
Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un’arte che è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» - perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è - richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro.
Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c’è la vendita, lo scambio, il prestito. Nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine.
Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l’uomo ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator. Certo, c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente, l’uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo. Ha immesso una diastasi nelle relazioni, nei rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito «buono», cioè il «debito dell’amore» che ciascuno ha verso l’altro nella communitas. Sta scritto, infatti: «Non abbiate alcun debito verso gli altri se non quello dell’amore reciproco» (Rm 13,8).
La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola donata, data all’altro. Oggi siamo forse meno consapevoli di cosa significhi «dare la parola, donare la parola», ma il dono della parola è il sigillo sulla fiducia, sul credere negli altri. Senza fede negli altri non c’è cammino di umanizzazione, ma l’eloquenza della fiducia è proprio il donare la parola, che è promessa e accensione di responsabilità verso l’altro. Nelle più quotidiane e autentiche «storie d’amore», proprio perché l’incontro diventi storia, perché l’attimo diventi tempo, occorre la parola data, la promessa.
Ma dal dono della parola si deve tendere, attraverso una serie di atti di dono, al dono della vita. Questo dono estremo è possibile là dove un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita, spendere la vita, dedicare tutta una vita a... Sono le stesse ragioni per cui vivono, per le quali la loro vita trova senso. Dare la propria vita è però l’operazione più difficile, che urta contro le nostre fibre e il nostro senso di autoconservazione. Noi siamo abitati dalla pulsione biologica a vivere, a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri... Ma ecco la possibilità di dare noi stessi, la nostra vita per gli altri. Non c’è via intermedia.
La tentazione dell’uomo è quella di dare, piuttosto che se stesso, altre cose a lui estranee: è la logica dei sacrifici offerti a Dio... Ma quello non è un dono, ed è significativo che nel cristianesimo la sola offerta possibile sia quella di se stessi, del proprio corpo, della propria vita per gli altri. Si tratta di non sacrificare né gli altri né qualcosa, ma di dedicarsi, mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la giustizia, la vita piena. Ma cosa significa donare se stessi? Significa dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio all’altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna come me, un fratello, una sorella in umanità. Dare la propria presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano, in una prossimità il cui linguaggio narra il dono all’altro.
Ma il dono all’altro - parola, gesto, dedizione, cura, presenza - è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro. Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso, diviene quasi naturale perché c’è in noi, nelle nostre profondità la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la relazione.
C’è una parola di Gesù - non riportata nei Vangeli, ma ricordata dall’apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto riferito negli Atti degli apostoli - che è molto eloquente: «C’è più gioia nel donare che nel ricevere». Esperienza reale di chi sa farsi prossimo avvicinandosi all’altro perché l’altro, anche quando avesse il volto del lebbroso, se è visto faccia a faccia, chiede alle nostre viscere di soffrire insieme, chiede la compassione, chiede il dono della presenza e del tempo, chiede il dono di noi stessi. L’atto del donare provoca gioia al donatore perché è un atto concreto che lega il donatore al cosmo, all’altro: è un atto percepito come speranza di comunione. L’accumulazione che non conosce la logica del dono, invece, accresce sempre la dipendenza dalle cose e separa l’uomo dall’uomo, l’uomo dagli altri. Non c’è vera gioia senza gli altri, come è vero che non c’è speranza se non sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della condivisione, della solidarietà.
In questo donare e ricevere, proprio perché l’azione è oltre la giustizia che si nutre delle regole dell’eguaglianza, si fa spazio l’amore che è ispirato dalla sovrabbondanza, come dice Paul Ricoeur, appare cioè il «buon debito dell’amore». L’azione del dare la parola, del donare le cose espropriandole da se stessi, del dare la presenza e il tempo non chiede restituzione, ma richiede che l’iniziativa del dono sia proseguita, continuata. Il donare non può essere sottoposto alla speranza della restituzione, di un obbligo che da esso nasce, ma lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame sociale. Il debito dell’amore regge la logica donativa alla quale è peculiare il carattere della gratuità, l’assenza della reciprocità. Com’è vera la parola di Gesù sull’arte del dono: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)! Ogni vita umana è istituita dal debito dell’amore, grazie al quale l’altro è colui del quale si è responsabili, una persona che, una volta incontrata, ha diritto a essere destinataria dell’amore in virtù della prossimità che si è creata.
Enzo Bianchi
Quarantadue
Alle volte l'anima vola lontana ed è in quelle occasioni che capita possa trovare la propria casa, ancora ignara alla mente ma è il cuore che sente.
È allora che si prova quell'improvvisa strana malinconia che dal nulla ci assale e ci fa sentire estranei anche se stiamo in mezzo a ciò che ci è più familiare.
11/06/13
Mancano segni per farci riconoscere - A. Pronzato
«... Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: "Non hanno più vino"» (Gv 2,3)
Cristo ha sopravvalutato la nostra sete
C'è qualcuno che si pone, con la massima serietà - è incredibile la serietà che si mette nel discutere di questioni futili - una domanda: i convitati alle nozze, in quel di Cana, dopo che avevano prosciugato le scorte predisposte per la festa, e recavano già segni inequivocabili di una bevuta non certo al risparmio, sono poi riusciti ad assorbire anche il nuovo, prodigioso rifornimento di qualità eccezionale?
(...)
Gesù, forse, ha sopravvalutato la nostra sete.
Sono numerosi, oggi gli uomini che fanno del piacere il fine del loro vivere, e ritengono che la religione costituisca una minaccia per i loro divertimenti.
Ma, come ho già rilevato precedentemente, non sono poche nemmeno le persone "religiose" che considerano la gioia incompatibile con la serietà dell'impegno cristiano.
Gli uni pretendono di stare allegri e spensierati senza indebite intrusioni di Dio nelle loro feste.
Gli altri si illudono di servire Dio escludendo la festa "non comandata".
Il corteo dei bacchettoni
Vogliamo tirare in ballo anche noi il termine "bacchettoni"? Pare derivi da bacchetta (quella che il confessore allungava sulla testa dei penitenti o che veniva usata per flagellarsi). (...)
Si diventa bacchettoni, allorché si porta in giro una faccia triste quale segno della propria religiosità. E si diventa bigotti (dal tedesco antico bi Gott, per Dio! formula di imprecazione) allorché "per Dio" si fanno tante cose ardue, costose, ma senza gioia.
Strana mentalità quella di certa gente devota. Che pensa sia valido e religioso e meritorio solo ciò che risulta pesante, tedioso, sgradevole. Per cui il sacrificio sarebbe comunque accetto a Dio, mentre provare il godimento per qualcosa apparirebbe, se non peccaminoso, almeno poco rispettoso e comunque inconciliabile con la perfezione.
Degna di Dio la penitenza, non altrettanto la gioia di vivere. (...)
Quale differenza rispetto alla "sana" religiosità ebraica...
Significativa questa sentenza rabbinica: «Nel giorno del giudizio l'uomo dovrà rendere conto di tutto ciò che i suoi occhi hanno visto e di cui egli non ha goduto». Superfluo precisare che la cosa riguarda il campo del lecito.
Invece, sempre secondo quella mentalità distorta cui facevo riferimento, esclusivamente la rinuncia, non la pienezza umana, dovrebbe scandire il cammino del credente.
L'adorazione esigerebbe una faccia ombrosa, perfino patibolare, mentre la voglia di "rallegrarsi col Signore" viene considerata leggerezza intollerabile.
Troppe le sei giare traboccanti di vino per chi vi si accosta col contagocce e con il terrore di lasciarsene inebriare. (...)
Più "uomo" per incontrare Dio
Il segno di Cana deve farci capire che Dio dice sì alla nostra gioia, alla vita, alla spontaneità, alla naturalezza.
Che un'esistenza pienamente religiosa può e deve essere anche pienamente umana.
Che per incontrare Cristo non devo diventare "più celestiale", "più angelico", ma "più uomo".
Che i beni della terra sono da disprezzare solo quando determinano atteggiamenti di ingratitudine, avidità, egoismo, ingiustizia, sopraffazione. Ma, in questo caso, non sono i beni ad essere "detestabili" ma l'uomo che diventa sacrilego con la sua ottusa cupidigia.
Che le gioie semplici di quaggiù possono costituire un ottimo apprendistato per la felicità eterna.
Quando al termine della Messa veniva proclamato il Prologo di Giovanni, tutti si inginocchiavano nel momento in cui il prete scandiva quella frase stupenda: «Et Verbum caro factum est». Si piegavano le ginocchia di fronte alla "carne" del Figlio di Dio, venuto ad assumere la condizione umana nella sua totalità, a consacrare i valori, i gesti tipici della nostra umanità.
Il Cristo compie a Cana il primo "segno", rivela la propria gloria, di cui non possiamo sostenere lo splendore, ma solo cogliere qualche sprazzo, non con un prodigio "celeste" - terrificante, o estasiante in senso mistico -, ma simpatizzando con la gioia degli uomini.
E «i suoi discepoli credettero in lui» dopo aver visto un segno "miracoloso" di delicatezza, di tenerezza, un prodigio di sensibilità.
So benissimo che il "mistero di Cana" ha pure una valenza simbolica, e che le vere nozze sono "altre", e che quel vino è soltanto un anticipo, un assaggio, una figura, di quello che Cristo, sposo messianico, nella sua ora, ossia sulla croce, offrirà in abbondanza alla Chiesa sua sposa.
Sono però anche convinto che la realtà definitiva non cancella la consistenza del "segno", sia pure provvisorio.
E noi, come i primi discepoli, diamo la nostra adesione a questo Dio che si preoccupa delle nostre minuscole vicende quotidiane, e vi si lascia coinvolgere, ed entra nella nostra vita per condividere, oltre che le pene, anche le minuscole gioie.
E tutte le volte che gustiamo qualcosa di bello e di buono, ammiriamo la delicatezza di un fiore, ci commuoviamo per la trasparenza di un volto, ci incantiamo di fronte ad un tramonto, attendiamo con impazienza una persona amica, facciamo festa con l'ospite, Lui è vicino. E consenziente.
Sì. Noi diventiamo cristiani nella misura in cui scopriamo che Lui è d'accordo, non soltanto con i nostri sacrifici, ma anche con le nostre gioie.
Quando Dio decide di manifestare la sua gloria, non dà spettacolo, non si affida alle cose importanti.
Quando Dio lascia cadere il velo del suo mistero, della sua inaccessibilità, non siamo costretti a guardare in alto, ma sulla tavola domestica. La sua potenza si iscrive nel registro delle cose semplici. E la trascendenza non teme di contaminarsi con la convivialità.
Voglio assistere all'apparizione di un uomo
(...) Mi permetto di citare una mia preghiera composta dopo aver meditato sulla frase del Prologo:
«... Apparve un uomo mandato da Dio. Aveva nome Giovanni» (Gv 1,6).
Lasciami contemplare, in tutta la sua bellezza, questa frase del Vangelo.
Quando Tu, o Dio, entri nella storia degli uomini, a Betlemme appare un uomo, anzi un bambino.
Ma, prima ancora, per segnalare la presenza del tuo Verbo fatto carne, "appare" un uomo, il precursore.
Noi pensiamo esclusivamente alle apparizioni degli angeli e di altri personaggi celesti.
Il nostro tempo, poi, è avido in maniera quasi spropositata di "apparizioni" dall'alto. Invece il Prologo ci presenta, prima di tutto, l'apparizione di un uomo che viene dalla terra Dono del cielo, ma ricavato e coltivato in terra. (...)
Riconosce e fa riconoscere il Cristo facendosi riconoscere come uomo.
Pare che noi abbiamo bisogno, per nutrire la nostra fede un po' smorta, di apparizioni celesti in continuazione. Tu, invece, hai bisogno dell'apparizione di un uomo per segnalare la tua presenza in mezzo agli uomini. Soltanto quando appare un uomo di nome Giovanni il tuo Verbo può piantare la tenda in mezzo a noi.
La tua luce, per risplendere, non ha bisogno di un cielo terso, ma di un uomo, del volto di un uomo.
E' un uomo e, successivamente, saranno uomini a recare la notizia della luce.
Signore, io ho bisogno di assistere all'apparizione, a numerose apparizioni, di uomini.
Tutti abbiamo bisogno di preti che siano veramente uomini.
Ho l'impressione che la testimonianza della verità sia legata, troppo spesso, all'apparizione di libri e documenti assortiti, più che all'apparizione di uomini, la cui verità di uomini sia trasparenza della verità divina.
Certo, uomini di Dio. Ma prima di tutto, uomini. (...)
Qualche volta, invece, bisogna registrare l'apparizione di individui che pensano di rendere servizio a Te rinnegando la propria umanità, testimoniare le cose dall'alto falsificando e occultando le loro origini (esibiscono una specie di passaporto che vorrebbero far credere rilasciato in cielo, e da cui sono stati cancellati tutti i lineamenti umani che porterebbero all'identificazione di un uomo!), tagliando le proprie radici terrestri, presentando la verità nell'abolizione dei sentimenti, del cuore, della tenerezza, in una parola, della vita.
Individui che credono di rendere testimonianza alla luce eliminando dalla loro pelle e dal loro linguaggio ogni traccia di terra. Non uomini, ma esseri neutri, paracadutati da chissà quale mondo (comunque, non il tuo).
Signore, rendili consapevoli che quando si perde il contatto con la propria umanità, si perde il contatto con la propria anima e con quella dei propri simili. Allorché si smarrisce l'umano, si perde, inevitabilmente anche il divino.
Sì, la fede ha bisogno dell'apparizione di uomini. Perché l'apparizione di un uomo costituisce l'indizio più sicuro della tua presenza in mezzo a noi.
La carne che si abbandona allo Spirito, senza per questo abbandonare la sfera dell'umanità, diventa il miglior "conduttore" della luce.
Quando ho bisogno di luce per la mente, infilo la porta della biblioteca.
Ma allorché avverto il bisogno di vita, vorrei incontrare per strada un prete che, attraverso la comune umanità, mi aiutasse a scoprire le tracce del tuo passaggio in mezzo a noi.
Signore, sollecita i tuoi testimoni ad avere il coraggio di imprestarti la loro umanità in modo da manifestarti in maniera convincente.
Rendili consapevoli che l (...) la loro l'umanità è il sintomo più sicuro della tua presenza sulla terra.
Che non c'è niente di meglio dell'apparizione di un uomo che possa dare il sospetto e la voglia di Dio.
Recare liete notizie di vita
In questa prospettiva, anche la Madonna, a Cana, "ci fa segno". Ripenso ancora a quell'icona intitolata alla "Vergine della gioia inattesa".
Aspettavamo il Dio dell'austerità e della severità. E lei ci aiuta a capire, con la complicità del vino, che il suo Figlio si trova a proprio agio dove c'è vita, gioia, amicizia. (...)
La Vergine ci fa scoprire un Dio "gratuito". Costringe delicatamente a uscire allo scoperto un Dio che si preoccupa del superfluo, dell'inutile. (...)
Gesù non si è recato a Cana per rimediare, con la sua presenza e le sue parole "ascetiche", alla mancanza di vino. Per predicare la rassegnazione e la temperanza. E' andato per far festa. E ha impedito, con un miracolo, chela festa finisse male o troppo presto.
Una comunità dove manchi la gioia di vivere si rifiuta, praticamente, di invitare l'Ospite.
Lui non è venuto solo a portare le nostre croci, ma a portare le nostre gioie.
Il cristiano non è uno che va a fare le condoglianze. Reca, invece, liete notizie di vita.
Cattedra di umanità
Vergine, piena di grazia e ricca di tenerezza, prega per noi.
Maria, cattedra di umanità, non permettere che, in quanto seguaci di tuo Figlio, lasciamo mancare ai nostri fratelli questo segno fondamentale. Fa' che assicuriamo al mondo un supplemento di umanità.
Aiutaci a comprendere che, come diceva quel teologo «se lo Spirito santo non ci rende più umani, c'è da dubitare della sua santità».
Maria, complice dei cristiani che si fanno battezzare uomini, rendici capaci di partecipare profondamente alle sofferenze dei fratelli e, cosa ancora più difficile, di condividere la loro felicità.
Protettrice dei costruttori di umanità, prega per noi.
Tu che, in sintonia col cuore del Figlio, hai registrato tutte le sofferenze e le gioie degli uomini, facci star male per il dolore degli altri e godere per la loro gioia.
Maestra di chi non vuol imparare la tecnica dell'indifferenza, donai la promozione del cuore.
Esperta in umanità, abbi pietà del nostro mondo disumano, e aiutaci a far fiorire, col nostro amore e la nostra gioia, il deserto.
Rendici capaci di celebrare, ogni giorno, una stupenda "liturgia della vita".
E non stancarti di ricordarci che esistono pure i "misteri gaudiosi" ...
don Alessandro Pronzato
tratto da "C'era la Madre di Gesù... A Cana con Maria per scoprire quello che ci manca"
10/06/13
Quarantuno
Non sapendo quando l'alba verrà
lascio aperta ogni porta,
forse avrà ali come un uccello
oppure onde, come spiaggia.
Emily Dickinson
08/06/13
La vedova di Nain - X T.O.
Lc 7, 11-17
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicnò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi» e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta a Giudea e in tutta la regione circostante.
Questo testo così semplice è bello e pieno di particolari.
Gesù entra in una città. Nel nome di questa città (Nain) ci sta un significato di gioia, di bellezza di delizia.
Lui vi arriva col suo seguito di discepoli e di persone che lo seguono, e incontra un altro corteo; è l'incontro di due cortei che sono vicini alla porta della città. La città umana, che è il corteo di questa cittadina che è Nain, incontra il corteo trionfale di Cristo. La porta è la via di uscita della città: per questa porta si esce da questo mondo. Alla porta della città c'è infatti un morto, un figlio unico di madre vedova: una donna che non ha più lo sposo e ora piange il suo unico figlio. E' una scena straziante.
In questa immagine c'è un riecheggiare quella che è la storia dell'umanità, che fa il suo tragitto e deve arrivare prima o poi alla porta: l'uomo cammina verso la porta che è la morte. E ha una madre: ha un mondo che lo ha generato; è la storia dell'umanità che genera figli che muoiono. Noi generiamo opere, persone, relazioni che presto o tardi moriranno. C'è il pianto dell'umanità in questa madre, che genera una vita destinata a morire. In fondo ogni bimbo che nasce, nasce annunziando anche un dolore: ogni vita che diamo su questa terra è una vita breve, che non è eterna. Le nostre opere sono cose che generiamo e hanno sempre la corruzione giù innestata nel proprio sistema.
Questo pianto è il cammino dell'uomo. In fondo, tutto quello che può fare l'umanità è accompagnarci alla morte, andare piano piano verso la fine delle cose, verso il termine dei momenti belli, il tramonto delle cose gioiose.
Ecco, in questa pagina del Vangelo c'è l'incontro di questi due cortei: c'è il corteo dell'umanità, un corteo verso il pianto, verso il sepolcro... e un altro corteo, gioioso e allegro: è il corteo che vuole toccare l'altro corteo, una folla che vuole toccare un'altra folla. Sono i cristiani, che incontrano gli uomini e hanno qualcosa da dire.
Innanzitutto è un corteo con un cuore: il Signore Gesù ha un cuore compassionevole.
Il problema qui non è sopravvivere ma amare, prendersi a cuore il dolore dell'altro. E' interessante il termine usato per descrivere questa misericordia, questa compassione di Gesù nel vedere il corteo funebre: vi è un movimento delle viscere, le cose "più interne" di Gesù si muovono; perché questo è ciò che sta succedendo dalle viscere di Dio. Dalle viscere di Dio, l'umanità in cui Cristo si è incarnato, ha preso la forma d'uomo, ha un amore, una pulsione, una compassione a riguardo dei tristi casi dell'uomo. E ha da dire qualcosa, a questa umanità che si prepara sempre, comunque, ad un funerale: non piangere!
Infatti, molto della cultura dell'uomo, molto di ciò che l'uomo fa in questa vita è "affrontare questo pianto", questo lutto, questa tristezza che nell'uomo resta. Tutta la meccanica del divertimento, dell'alienazione, dell'inebriarsi, del costruire... è un modo di poter placare quel pianto. La tristezza dell'uomo produce opere, sistemi, cose da fare... perché uno deve sfuggire a questa tristezza. Certamente, alla fin fine tutto sparirà e tutto si perderà: l'amara profezia del libro del Qoelet esplicita ciò che c'è nel cuore dell'uomo: tutto è vano, tutto si perde...
Gesù dice: non piangere!
Bisogna staccarsi da questo lutto. La prima cosa di cui dobbiamo prendere consapevolezza è che noi non sappiamo tutto della nostra vita, non sappiamo veramente quello che ci sta succedendo: noi crediamo di sapere che tutto quello che è il nostro percorso e che va verso il sepolcro.
No: c'è un'iniziativa di Dio.
C'è però da non restare lì, incapsulati, incistati nella necessità di piangere questa tristezza: non sai tutto, non è vero che è certo quello che tu reputi essere una disgrazia. C'è anche qualche cosa che è iniziativa di Dio e che è sorprendente.
Gesù si avvicina e tocca la bara, «mentre i portatori si fermarono». Infatti la legge diceva che non si poteva toccare un morto, c'erano gli uomini deputati a fare questo: anche secondo la Scrittura, chi è santo non può toccare la morte. E invece adesso il Santo tocca la morte. Lui che accetterà la morte per trasformarla in una storia diversa, tocca la bara, si avvicina per avere un contatto. La vita tocca la morte.
Questa è la sorpresa! Non è un'iniziativa che può prendere la morte: solo la vita può muoversi, prendere iniziativa. E dobbiamo ricordarcelo, questo: non sarà mai per mezzo di una nostra iniziativa che risolveremo il più grande dei nostri problemi: dovremo lasciarci inondare dalla compassione di Cristo. Lui ci tocca, putridi come siamo, arrivati alla fine, profondamente inutili e impotenti.
Egli tocca la bara e poi parla al defunto: «Ragazzo dico a te, alzati!». Per la Parola di Dio può cambiare la nostra condizione. Qualcosa che ci dice chi siamo: qui è un ragazzo, e la giovinezza porta in sé forza, energia. Ecco, per la Parola di Gesù questa energia viene evocata.
Chi siamo noi? Noi crediamo di aver capito chi siamo e ci siamo dimenticati che c'è un progetto di Dio su di noi. Noi ci "leggiamo" in maniera sballata, fuori mira, ma non ci ricordiamo più di essere in fondo tutti dei ragazzi, piccoli bimbi di Dio, a cui Dio vuole parlare. Noi, che pretendiamo tanto da noi stessi e tutto quello che sappiamo produrre è qualche cosa che poi si perde, ci dimentichiamo di essere tutti dei piccoli davanti a Dio, chiamati ad essere dei bambini. Non essere solamente dei bimbi di questa madre impotente e piangente, ma diventare figli del Padre della Vita, diventare fratelli del Signore Gesù Cristo che ci dice: "alzati!". Quante volte c'è uno spirito di pianto, prono, sgonfio, dentro di noi!
Questa Parola viene a dirci: che cosa vede in te Dio? Per Dio sei sempre uno che può ricominciare, sei sempre un ragazzo! C'è un testo della liturgia che parla della «rinnovata giovinezza dello Spirito»: è un'orazione che si recita nel tempo pasquale. Che significa? Che quando arriva il Signore, tutti ripartiamo da zero; quando arriva il Signore non è vero che l'ultima parola è stata detta: l'ultima parola la dice l'Unico che è l'omega. L'alfa e l'omega è il Signore Gesù, e arriva e dice: ragazzo, alzati! Dico a te, parlo proprio con te! Non è una parola astratta, non è una filosofia: è una relazione.
E «il morto si mise seduto e cominciò a parlare».
E il ragazzo sia alza e si mette seduto. C'è una progressione: non si pretende che questo subito balzi in piedi e si metta a correre... Una cosa per volta: il Signore Dio ha pazienza, aspetta...
E poi parla: risponde ad una relazione.
«Ed egli lo restituì a sua madre».
Ecco l'esperienza della Chiesa: di essere vestita di povertà umana, ma di vedersi consegnare figli fatti nuovi, resettati, messi nelle condizioni di ripartire, di rinascere. E di averli accanto a sé.
Il Signore ci conceda, attraverso questo Vangelo, di poter contemplare la potenza di Dio, che se parla con noi torniamo tutti giovani.
don Fabio Rosini
Quaranta
Ero libero. Avevo riacquistato la mia libertà. Appartenevo a Dio, non a me stesso, e appartenere a Dio significa essere liberi, liberi da tutte le ansie, le preoccupazioni e i dolori che appartengono a questa terra, dall’amore delle cose che sono in essa.
Che differenza c’è tra un luogo e l’altro, tra l’una e l’altra abitudine se la vita appartiene a Dio, e se ci affidiamo completamente alle sue mani? La sola cosa che conti è il fatto del sacrificio, la dedizione completa della propria personalità, della propria volontà. Tutto il resto è mero accidente.
07/06/13
Trentanove
di qualcosa di molto bello,
di molto semplice,
una sorta di paradiso perduto;
ho bisogno di una certa bellezza, questa mi fa vivere.
Igor Mitoraj
06/06/13
La lotta spirituale - Enzo Bianchi
Movimento
essenziale della vita spirituale cristiana è la lotta spirituale. Già la
Scrittura esige dal credente tale atteggiamento: chiamato a «dominare»
all'interno del creato, l'uomo deve esercitare tale dominio anche su di sé, sul
peccato che lo minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te
è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,7). Si tratta dunque di una
lotta interiore, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le
tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla
consumazione del male.
Paolo, servendosi di immagini belliche e sportive (la corsa, il pugilato), parla della vita cristiana come di uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore dell'uomo per poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall'antropologia biblica, dell' organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell'intelligenza è della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l'unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento.
La lotta spirituale mira, secondo la tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Se il suo fine è l'apatheia, questa va intesa non nel senso dell'impassibilità, ma dell'assenza di patologie. Così la lotta spirituale mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev'essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Sia l'Occidente che l'Oriente cristiano hanno codificato gli ambiti, gli spazi, in cui va esercitata tale lotta per mantenere il credente in un atteggiamento sano, cioè di comunione e non di consumo. La tradizione monastica ha sempre affermato con grande forza che la vita di fede assume la forma di un'incessante lotta contro le tentazioni. Antonio, il «padre dei monaci», ha detto: «Questa è la grande opera dell'uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio, e attendersi tentazioni fino all'ultimo respiro». Ma che significa «tentazione»?
Con questa espressione si indica un pensiero (i Padri greci parlano di loghismoi), una suggestione, uno stimolo che muove dall'esterno dell'uomo (ciò che si vede, che si ascolta, che ci sta intorno ecc.) oppure dal suo stesso interno, dalla sua struttura personale, dalla sua storia, dalle sue peculiari fragilità, e che insinua nell'uomo la possibilità di un' azione malvagia, contraria all'Evangelo.
Dal catechismo frequentato in fanciullezza molti ricorderanno la lista dei «sette peccati capitali», diffusasi nel mondo cattolico soprattutto nell'epoca della Controriforma, ma risalente a Gregorio Magno, il quale parlava di vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria. A sua volta questa lista di sette era un rifacimento dell' elenco degli otto pensieri malvagi formulato da Evagrio Pontico nel IV secolo e volgarizzato in Occidente da Giovanni Cassiano. Rileggere oggi questi «peccati» uscendo dalla griglia moralistica e dalla casistica con cui sono giunti fino a noi e interpretarli come «rapporti» può mostrare la loro sconcertante modernità (molti vi hanno visto una forma di psicoanalisi ante litteram) e aiutarci a raggiungere il nucleo profondo ed estremamente semplice da cui sgorgavano al di là delle forme più o meno maldestre con cui ci sono stati fatti conoscere.
Evagrio parlava anzitutto di gastrimarghía, la quale non investe solo il rapporto con il cibo (né va banalizzata nel «peccato di gola»), ma ogni forma di patologia orale (si pensi alle articolate implicazioni della bulimia e dell'anoressia). La porneía designa poi gli squilibri nel rapporto con la sessualità, soprattutto la tendenza a cosificare il corpo proprio e dell' altro, ad assolutizzare le pulsioni e a ridurre a oggetto di desiderio chi è chiamato a essere soggetto di amore. La philarghyria designa sì l'avarizia, ma più profondamente ci rinvia al rapporto con le cose e denuncia la tendenza dell'uomo a lasciarsi definire da ciò che possiede. L'orghé (ira) indica il rapporto con gli altri, che può essere stravolto fino alla violenza con la collera, e in cui il credente è chiamato al paziente e faticoso esercizio (cioè, etimologicamente, all'ascesi) dell' accettazione dell'alterità. La lype indica la tristezza, ma anche la frustrazione di chi non vive in modo equilibrato il rapporto con il tempo e resta incapace di arrivare all'unificazione del tempo della propria vita. Lacerato tra nostalgia del passato e fughe irreali in avanti, l'uomo preda dello spiritus tristitiae è incapace di aderire all'oggi, al presente. L'akedia (acedia; scomparso nella lista occidentale di Gregorio Magno probabilmente perché fatto confluire nella tristezza) designa una pigrizia, un taedium vitae, una demotivazione radicale che diviene pulsione di morte e financo tendenza suicidaria. Si manifesta come instabilità radicale, disgusto di ciò che si vive, volontà di azzeramento della propria esistenza, e rivela l'incapacità di vivere armonicamente il rapporto con lo spazio. La kenodoxia, vanagloria, è la tentazione di definirsi a partire da ciò che si fa, dal proprio lavoro, dalla propria opera: essa investe dunque l'ambito del rapporto con il fare, con l'operare. Infine, la yperephania (superbia) designa la hybris nel rapporto con Dio. È l'orgoglio, l'affermazione dell'ego, la sostituzione di «io» a «Dio».
Non è difficile vedere come il combattimento spirituale, che individua questi ambiti - riassuntivi di tutti i rapporti costitutivi della vita - come «campi di battaglia», voglia guidare il credente alla maturità personale e al dispiegamento della piena libertà. Vigilanza e attenzione sono la «fatica del cuore» (Barsanufio) che consente al credente di operarne la purificazione: è dal cuore infatti che escono le intenzioni malvagie ed è il cuore che deve divenire dimora del Cristo grazie alla fede. In questo senso la «custodia del cuore» (phylakè tes kardias) è l'opera per eccellenza dell'uomo spirituale, la sola veramente essenziale.
Ma come avviene tale lotta? La sconfinata letteratura ascetica sull' argomento, dal De agone christiano di Agostino alle opere di Evagrio Pontico e di Giovanni Cassiano fino al celebre trattato Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, consente di individuare un itinerario preciso, un dinamismo attraverso cui si sviluppa la tentazione nel cuore umano e che occorre disarticolare con la lotta interiore. È un dinamismo in quattro momenti fondamentali: la suggestione, il dialogo, l'acconsentimento, la passione (o vizio).
La suggestione è l'insorgere nel cuore dell'uomo della possibilità di un' azione malvagia, peccaminosa. Questo carattere negativo del pensiero è discernibile dal fatto che provoca turbamento nel cuore, toglie la pace e la serenità. Questo momento è assolutamente universale: nessuno ne è esente. Se con questo pensiero ci si intrattiene e si dialoga, se si neutralizza, ricorrendo a espedienti autogiustificatori, il disagio e il turbamento che esso ingenera nel profondo dell'uomo, allora esso diviene, pian piano, una presenza prepotente nel cuore, presenza non più dominabile, ma che domina l'uomo. E allora che avviene l'acconsentimento, cioè una presa di posizione personale che contraddice la volontà di Dio. Se gli acconsentimenti si ripetono perché non si mostra alcuna capacità di lotta, allora si diventa schiavi di una passione, di un vizio. Questo processo elementare può invece essere spezzato da una lotta che si eserciti subito, alloro nascere, contro i pensieri e le suggestioni.
Ma di nuovo: quali sono, molto concretamente, le modalità di tale lotta? Anzitutto l'apertura del cuore all'interno di una relazione con un padre spirituale; quindi la preghiera e l'invocazione del Signore; l'ascolto e l'interiorizzazione della Parola di Dio; una vita di relazione, di carità, intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, cioè la possibilità dell'idolatria. Le forme che la tentazione può rivestire sono molteplici e abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici fondamentali. li rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose (in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l'operare e, infine, con Dio. Tutti questi ambiti del nostro vivere, che definiscono la nostra identità umana e spirituale, devono essere ordinati e disciplinati attraverso una lotta. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. E per questo la lotta contro la tentazione trova il suo magistero eminente nell'eucaristia, che appunto è celebrazione della vita come comunione con Dio e con gli uomini.
A questa lotta occorre esercitarsi: bisogna anzitutto saper discernere le proprie tendenze di peccato, le proprie fragilità, le negatività che ci segnano in modo particolare, quindi chiamarle per nome, assumerle e non rimuoverle, e infine immettersi nella lunga e faticosa lotta volta a far regnare in sé la Parola e la volontà di Dio!
Organo di questa lotta è infatti il cuore, inteso biblicamente come organo della decisione e della volontà, non tanto dei sentimenti. La capacità di lotta spirituale, l'apprendimento dell'«arte della lotta» (Salmo 144,1; 18,35) è essenziale per l'accoglienza della Parola di Dio nel cuore umano. Se essa manca, allora «le preoccupazioni mondane, l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie soffocano la Parola» nel cuore dell'uomo e questa «rimane senza frutto» (Marco 4,19). Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne, ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa produce. È grazie ad essa che la fede diviene fede che rimane, perseveranza. È grazie ad essa che l'amore viene purificato e ordinato. Ha testimoniato il Patriarca ecumenico Atenagora: «Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all'interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. lo questa guerra l'ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché "l'amore scaccia la paura". Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. "Chi ci separerà dall'amore di Cristo?"». Sì, la tentazione, come ha scritto Origene, «fa del credente un martire o un idolatra».
Enzo Bianchi, «Lessico della vita interiore»
Paolo, servendosi di immagini belliche e sportive (la corsa, il pugilato), parla della vita cristiana come di uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore dell'uomo per poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall'antropologia biblica, dell' organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell'intelligenza è della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l'unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento.
La lotta spirituale mira, secondo la tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Se il suo fine è l'apatheia, questa va intesa non nel senso dell'impassibilità, ma dell'assenza di patologie. Così la lotta spirituale mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev'essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Sia l'Occidente che l'Oriente cristiano hanno codificato gli ambiti, gli spazi, in cui va esercitata tale lotta per mantenere il credente in un atteggiamento sano, cioè di comunione e non di consumo. La tradizione monastica ha sempre affermato con grande forza che la vita di fede assume la forma di un'incessante lotta contro le tentazioni. Antonio, il «padre dei monaci», ha detto: «Questa è la grande opera dell'uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio, e attendersi tentazioni fino all'ultimo respiro». Ma che significa «tentazione»?
Con questa espressione si indica un pensiero (i Padri greci parlano di loghismoi), una suggestione, uno stimolo che muove dall'esterno dell'uomo (ciò che si vede, che si ascolta, che ci sta intorno ecc.) oppure dal suo stesso interno, dalla sua struttura personale, dalla sua storia, dalle sue peculiari fragilità, e che insinua nell'uomo la possibilità di un' azione malvagia, contraria all'Evangelo.
Dal catechismo frequentato in fanciullezza molti ricorderanno la lista dei «sette peccati capitali», diffusasi nel mondo cattolico soprattutto nell'epoca della Controriforma, ma risalente a Gregorio Magno, il quale parlava di vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria. A sua volta questa lista di sette era un rifacimento dell' elenco degli otto pensieri malvagi formulato da Evagrio Pontico nel IV secolo e volgarizzato in Occidente da Giovanni Cassiano. Rileggere oggi questi «peccati» uscendo dalla griglia moralistica e dalla casistica con cui sono giunti fino a noi e interpretarli come «rapporti» può mostrare la loro sconcertante modernità (molti vi hanno visto una forma di psicoanalisi ante litteram) e aiutarci a raggiungere il nucleo profondo ed estremamente semplice da cui sgorgavano al di là delle forme più o meno maldestre con cui ci sono stati fatti conoscere.
Evagrio parlava anzitutto di gastrimarghía, la quale non investe solo il rapporto con il cibo (né va banalizzata nel «peccato di gola»), ma ogni forma di patologia orale (si pensi alle articolate implicazioni della bulimia e dell'anoressia). La porneía designa poi gli squilibri nel rapporto con la sessualità, soprattutto la tendenza a cosificare il corpo proprio e dell' altro, ad assolutizzare le pulsioni e a ridurre a oggetto di desiderio chi è chiamato a essere soggetto di amore. La philarghyria designa sì l'avarizia, ma più profondamente ci rinvia al rapporto con le cose e denuncia la tendenza dell'uomo a lasciarsi definire da ciò che possiede. L'orghé (ira) indica il rapporto con gli altri, che può essere stravolto fino alla violenza con la collera, e in cui il credente è chiamato al paziente e faticoso esercizio (cioè, etimologicamente, all'ascesi) dell' accettazione dell'alterità. La lype indica la tristezza, ma anche la frustrazione di chi non vive in modo equilibrato il rapporto con il tempo e resta incapace di arrivare all'unificazione del tempo della propria vita. Lacerato tra nostalgia del passato e fughe irreali in avanti, l'uomo preda dello spiritus tristitiae è incapace di aderire all'oggi, al presente. L'akedia (acedia; scomparso nella lista occidentale di Gregorio Magno probabilmente perché fatto confluire nella tristezza) designa una pigrizia, un taedium vitae, una demotivazione radicale che diviene pulsione di morte e financo tendenza suicidaria. Si manifesta come instabilità radicale, disgusto di ciò che si vive, volontà di azzeramento della propria esistenza, e rivela l'incapacità di vivere armonicamente il rapporto con lo spazio. La kenodoxia, vanagloria, è la tentazione di definirsi a partire da ciò che si fa, dal proprio lavoro, dalla propria opera: essa investe dunque l'ambito del rapporto con il fare, con l'operare. Infine, la yperephania (superbia) designa la hybris nel rapporto con Dio. È l'orgoglio, l'affermazione dell'ego, la sostituzione di «io» a «Dio».
Non è difficile vedere come il combattimento spirituale, che individua questi ambiti - riassuntivi di tutti i rapporti costitutivi della vita - come «campi di battaglia», voglia guidare il credente alla maturità personale e al dispiegamento della piena libertà. Vigilanza e attenzione sono la «fatica del cuore» (Barsanufio) che consente al credente di operarne la purificazione: è dal cuore infatti che escono le intenzioni malvagie ed è il cuore che deve divenire dimora del Cristo grazie alla fede. In questo senso la «custodia del cuore» (phylakè tes kardias) è l'opera per eccellenza dell'uomo spirituale, la sola veramente essenziale.
Ma come avviene tale lotta? La sconfinata letteratura ascetica sull' argomento, dal De agone christiano di Agostino alle opere di Evagrio Pontico e di Giovanni Cassiano fino al celebre trattato Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, consente di individuare un itinerario preciso, un dinamismo attraverso cui si sviluppa la tentazione nel cuore umano e che occorre disarticolare con la lotta interiore. È un dinamismo in quattro momenti fondamentali: la suggestione, il dialogo, l'acconsentimento, la passione (o vizio).
La suggestione è l'insorgere nel cuore dell'uomo della possibilità di un' azione malvagia, peccaminosa. Questo carattere negativo del pensiero è discernibile dal fatto che provoca turbamento nel cuore, toglie la pace e la serenità. Questo momento è assolutamente universale: nessuno ne è esente. Se con questo pensiero ci si intrattiene e si dialoga, se si neutralizza, ricorrendo a espedienti autogiustificatori, il disagio e il turbamento che esso ingenera nel profondo dell'uomo, allora esso diviene, pian piano, una presenza prepotente nel cuore, presenza non più dominabile, ma che domina l'uomo. E allora che avviene l'acconsentimento, cioè una presa di posizione personale che contraddice la volontà di Dio. Se gli acconsentimenti si ripetono perché non si mostra alcuna capacità di lotta, allora si diventa schiavi di una passione, di un vizio. Questo processo elementare può invece essere spezzato da una lotta che si eserciti subito, alloro nascere, contro i pensieri e le suggestioni.
Ma di nuovo: quali sono, molto concretamente, le modalità di tale lotta? Anzitutto l'apertura del cuore all'interno di una relazione con un padre spirituale; quindi la preghiera e l'invocazione del Signore; l'ascolto e l'interiorizzazione della Parola di Dio; una vita di relazione, di carità, intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, cioè la possibilità dell'idolatria. Le forme che la tentazione può rivestire sono molteplici e abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici fondamentali. li rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose (in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l'operare e, infine, con Dio. Tutti questi ambiti del nostro vivere, che definiscono la nostra identità umana e spirituale, devono essere ordinati e disciplinati attraverso una lotta. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. E per questo la lotta contro la tentazione trova il suo magistero eminente nell'eucaristia, che appunto è celebrazione della vita come comunione con Dio e con gli uomini.
A questa lotta occorre esercitarsi: bisogna anzitutto saper discernere le proprie tendenze di peccato, le proprie fragilità, le negatività che ci segnano in modo particolare, quindi chiamarle per nome, assumerle e non rimuoverle, e infine immettersi nella lunga e faticosa lotta volta a far regnare in sé la Parola e la volontà di Dio!
Organo di questa lotta è infatti il cuore, inteso biblicamente come organo della decisione e della volontà, non tanto dei sentimenti. La capacità di lotta spirituale, l'apprendimento dell'«arte della lotta» (Salmo 144,1; 18,35) è essenziale per l'accoglienza della Parola di Dio nel cuore umano. Se essa manca, allora «le preoccupazioni mondane, l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie soffocano la Parola» nel cuore dell'uomo e questa «rimane senza frutto» (Marco 4,19). Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne, ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa produce. È grazie ad essa che la fede diviene fede che rimane, perseveranza. È grazie ad essa che l'amore viene purificato e ordinato. Ha testimoniato il Patriarca ecumenico Atenagora: «Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all'interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. lo questa guerra l'ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché "l'amore scaccia la paura". Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. "Chi ci separerà dall'amore di Cristo?"». Sì, la tentazione, come ha scritto Origene, «fa del credente un martire o un idolatra».
Enzo Bianchi, «Lessico della vita interiore»
Trentotto
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si deve vivere e incomincia a vivere. Così se uno è chiamato alla vita solitaria, cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato alla vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno al modo di vivere.
Quando non si vive la propria vera vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce ad essa, o si sottomette ad essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza.
Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una sola cosa.
Thomas Merton
05/06/13
Peso - Giuseppe Ungaretti
Quel contadino
si affida alla medaglia
di Sant'Antonio
e va leggero
Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima
Giuseppe Ungaretti, 1916