La storia di Giacobbe è narrata nel Libro della Genesi.
Di lui sappiamo che è figlio di Isacco, quindi discendente di Abramo. Sua madre Rachele era sterile, ma il Signore, ascolta le preghiere di Isacco e gli fa dono di due gemelli: Giacobbe ed Esaù. Esaù, il primogenito, è un valido guerriero, virile, buon tiratore d’arco; Giacobbe, nato immediatamente dopo il fratello, è più mite e tranquillo. La Genesi racconta come Giacobbe in modo surrettizio si impadronisce della primogenitura che spettava a suo fratello Esaù, barattandola per un piatto di minestra e in modo ancora più surrettizio carpisce la benedizione del padre, camuffandosi con una pelliccia, per passare per Esaù, sollevando le ire del fratello.
Deve quindi scappare e si rifugia dallo zio Làbano, che lo accoglie e grazie al quale diventa ricco, attraverso un imbroglio. Qui prende due mogli, Lia e Rachele dalle quali ha dei figli. Dopo diversi anni, Giacobbe è diventato ricco, si è stabilizzato con la sua famiglia, ma il Signore gli ordina di rientrare in patria, dove finalmente si riappacifica con Esaù, in tempo per seppellire il padre Isacco. La vita di Giacobbe si conclude con la storia di Giuseppe, suo figlio minore, venduto schiavo in Egitto, dove lo stesso Giacobbe lo raggiungerà e dove infine morirà.
Vogliamo analizzare la figura di Giacobbe in relazione a tre elementi:
- nel rapporto con Dio
- nel apporto con gli altri (in particolare col fratello)
- nel rapporto con la terra
Se nella figura di Abramo il rapporto con Dio, come uomo di fede, emerge in maniera prioritaria, nel caso di Giacobbe questo rapporto resta più sullo sfondo. Esso assumerà una importanza singolare in un episodio particolare della vita di Giacobbe, che analizzeremo più avanti.
Giacobbe ed Esaù
Il rapporto che emerge con maggiore forza, sin dall’inizio della sua storia, è quello con il fratello Esaù.
Una prima riflessione ci viene suggerita da un particolare ricorrente in alcuni racconti biblici. Notiamo che frequentemente la Bibbia mette in evidenza la presenza di due fratelli: in questo caso abbiamo Esaù e Giacobbe, così come Abramo aveva due figli, Ismaele e Isacco. E anche all’inizio del racconto biblico, troviamo Caino e Abele.
I fratelli sono sempre due. E in questa immagine possiamo vedere una tipizzazione di quella che è la situazione del popolo di Israele, quella di un popolo che sta costantemente a confronto con gli altri: c’è Israele e ci sono gli altri; c’è il popolo di Dio e ci sono gli altri popoli.
Dobbiamo allora capire in che modo Israele si trova a confronto con gli altri popoli, in questa immagine del rapporto tra Giacobbe e suo fratello Esaù… e prima ancora tra Caino e Abele.
San Paolo, nella lettera ai Romani affermerà, mettendo in bocca a Dio queste parole: «Come sta scritto “Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù."» (Rm9,13).
L’odio di cui parla San Paolo qui assume un significato completamente diverso rispetto a quello che comunemente noi attribuiamo a questo termine. “Ho odiato” significa che Dio amò in modo diverso Esaù e Giacobbe. Anche nel Vangelo, quando Gesù dice «Se qualcuno viene a me, e non odia suo padre e sua madre….. costui non può essere mio discepolo» (Lc 14,26) non si riferisce all’odio così come comunemente lo intendiamo noi, dato che gli stessi comandamenti della Torah raccomandano l’amore al padre e alla madre. Che cosa vuol dire Gesù? Gesù vuol dire che “Chi vuol venire dietro di me non mi può mettere sullo stesso piano dei genitori; non può avere un amore nei miei confronti che sia uguale a quello che può avere per i propri genitori”.
Si tratta quindi di un amore differente: Dio ama Giacobbe, al quale affida di portare avanti la promessa, come ama Esaù, ma in modo diverso. E il fatto che ami Giacobbe in una certa maniera ed ami Esaù in un’altra maniera non significa che Esaù scompaia dall’attenzione di Dio: sulla terra di Israele c’è anche Esaù e questo non può essere dimenticato.
Tutto ciò rientra piuttosto nell’economia di salvezza di Dio, che sceglie di salvare gli uni attraverso gli altri.
E quindi questa storia diventa paradigma della storia di tutta l’umanità, di tutte quelle storie in cui Dio dà un dono a qualcuno, perché questi lo condivida con quelli che non ce l’hanno. Ismaele ed Esaù hanno avuto dei doni e anche a loro è chiesto di condividerli. Anche Giacobbe ha dei doni, nella promessa, e attraverso di lui la promessa di Dio deve arrivare anche agli altri. Così come oggi, attraverso la Chiesa, deve arrivare a tutti i popoli la benedizione di Dio.
Questa è quindi l’economia che Lui utilizza per salvare l’umanità e che rispecchia, potremmo dire, “l’ingiustizia di Dio”, se per giustizia intendiamo quella delle nostre bilance. Tuttavia quei criteri di giustizia che vanno bene per noi, non sono assolutamente applicabili a Dio. Uno dei grossi sbagli che da sempre si fanno è proprio quello di applicare a Dio certi concetti umani che vanno bene per noi, ma che non sono propri di Dio: Dio è il tutt’altro. Ed utilizza dei criteri completamente diversi dai nostri.
Questo diverso rapporto d’amore, incarnato nelle figure di Giacobbe ed Esaù, come – abbiamo visto – in quelle di altri “fratelli” biblici, ci dice essenzialmente due cose.
La prima è che dobbiamo mettere da parte la tentazione di voler fare un qualsiasi tipo di livellamento: “siamo tutti uguali, siamo tutti popolo di Dio, basta essere buoni”. “Ma nient’affatto! Le differenze ci sono e non si possono appiattire. Cadere in questa trappola significa non aver capito il Dio di Giacobbe e il Dio di Esaù. Questo Dio che chiama alcuni, per gli altri. Quindi le differenze devono esistere, perché se si eliminano le differenze, si elimina anche la comunicazione: se io ho tutto quello che ha lui, ovviamente posso fare a meno di lui. Mentre se io ho qualche cosa che lui non ha e lui ha qualche cosa che io non ho, allora ci può essere comunicazione. Le differenze quindi sono quasi essenziali per creare questa possibilità di condivisione e di comunicazione.
Tuttavia la storia del popolo di Israele, tipizzata in queste icone bibliche, ci dice anche qualcos’altro. Che, seppur nella diversità, noi siamo chiamati a convivere, a comunicare, a vivere in comunione, senza rinunciare alla nostra identità.
Anche a livello geografico, Israele si troverà sempre a convivere, nel medesimo territorio, con popoli diversi. Anche oggi, se pensiamo a quello che sta avvenendo in Palestina, la situazione non è diversa: due popoli e un territorio.
Riflettendo su questa particolarità, già nelle figure di Caino e Abele, possiamo trovare riassunta, in fondo, la storia di tutta l’umanità. Israele così diventa in qualche modo simbolo di tutta l’umanità in cui gli uomini nella loro diversità, però fratelli, in rapporto distinto con Dio, devono vivere nella stessa terra, in questa terra, in questo mondo. E’ questa la nostra condizione umana, la condizione dell’uomo che è chiamato a vivere nella diversità però in comunione.
P. Domenico Acquaro O. de .M.
da una catechesi Quaresimale del marzo 1996